La crisi demografica e il welfare per le famiglie: le recenti riforme

Claudio Lucifora osserva che la mancanza di sostegni alla maternità e alla cura dei figli, un welfare debole e centrato prevalentemente sulle pensioni hanno messo in difficoltà le famiglie italiane. Lo testimonia il calo della natalità che persiste da diversi decenni. Lucifora ripercorre le misure di sostegno alle famiglie e le recenti riforme per la conciliazione vita-lavoro delineando il contesto in cui si inserisce il disegno di legge che istituisce l'Assegno Unico e Universale come uno dei cardini futuri della fiscalità e del welfare a sostegno delle famiglie.

Nel dopoguerra in Italia nascevano più di un milione di bambini l’anno, oggi meno della metà. Quest’anno dopo quasi due anni di pandemia del Covid-19 i nuovi nati in Italia saranno, per la prima volta dal dopoguerra, meno di 400mila. Il tasso di fertilità è di 1,3 figli per donna, tra i più bassi in Europa, ma alla luce delle forti incertezze sul futuro di famiglie e i giovani, potrebbe ulteriormente peggiorare. Le ragioni di questo calo delle nascite sono molteplici e complesse, e non riguardano solo le incertezze del presente ma trovano origine nelle profonde trasformazioni che hanno caratterizzato la struttura della famiglia e l’organizzazione del lavoro. L’aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e la mancanza di adeguate politiche di sostegno alla famiglia, vengono spesso citati tra le principali cause. In paesi come Francia, Germania, Svezia e Danimarca, sebbene la partecipazione delle donne sia elevata, la natalità da decenni risulta maggiore che in Italia, e questo grazie ai massicci investimenti fatti in quei paesi su asili, scuole, congedi parentali, sgravi fiscali e misure di conciliazione famiglia e lavoro. In Italia, invece, non si è investito a sufficienza. La mancanza di sostegni alla maternità e alla cura dei figli, e più in generale la presenza di un welfare debole e centrato prevalentemente sulle pensioni e sugli anziani, hanno di fatto messo le famiglie, ma soprattutto le madri, di fronte alla necessità di scegliere tra avere i figli oppure lavorare.

Natalità e genitorialità. In gran parte dei paesi, lo Stato sostiene le famiglie con figli a carico utilizzando diverse misure: sia con trasferimenti monetari (diretti o indiretti), sia con la fornitura di assistenza sanitaria e di servizi comunitari, infine di istruzione. La generosità e la modalità di erogazione delle misure varia da paese a paese, tuttavia le politiche per la famiglia rivestono un ruolo centrale nel promuovere la genitorialità e un migliore bilanciamento vita-lavoro. Gli effetti delle politiche per la famiglia, come dimostrano molti studi, hanno riflessi positivi in molti ambiti, dalla partecipazione al mercato del lavoro delle donne, alla fertilità e, più in generale, sul benessere degli individui.

Certo è che avere figli costa, sia in termini di prospettive di carriera, sia di redditi da lavoro. In un recente studio (Lucifora, Meurs e Villar, “The ‘mommy track’ in the workplace”, Labour Economics, 2021) mostriamo come avere un figlio abbia effetti fortemente asimmetrici su uomini e donne nel mercato del lavoro, penalizzando soprattutto le madri; mentre i padri non sembrano risentirne. Per le donne, la nascita di un figlio comporta una perdita di reddito di oltre il 10%, che tende ad aumentare più a lungo la donna resta assente dal lavoro dopo il periodo di maternità. Lo stesso non si verifica per i padri, che invece spesso mostrano una maggiore probabilità di essere promossi rispetto ai non-padri. Per alcune donne, meno fortunate, il rientro al lavoro dopo la maternità risulta quasi impossibile e la scelta di ritirarsi dal mercato del lavoro diventa quasi obbligata.

Questo stato di cose è testimoniato anche dal confronto dei tassi di occupazione dei padri e delle madri, che risulta dall’indagine Istat sulle forze lavoro: nel caso dei padri, quasi il 90% di essi ha un’occupazione contro l’83% degli uomini senza figli (i non-padri), mentre nel caso delle madri il tasso di occupazione è pari al 57% contro un tasso del 72% delle donne senza figli (le non-madri). Peggio di così fanno solo le madri con bambini in età pre-scolare che, in media, risultano occupate solo in un caso su due, mentre se residenti nel Mezzogiorno la probabilità di essere occupate è di circa una su tre. Per assurdo, in molte regioni del Sud, anche nelle famiglie in cui un solo componente del nucleo familiare lavora, la fertilità raggiunge minimi storici. Guardando più nel dettaglio gli indicatori demografici pubblicati dall’Istat, si nota come confrontando le coppie italiane con figli con e quelle senza, la propensione ad avere il primo o il secondo figlio sia stata più elevata per le coppie in cui la donna lavora e almeno uno dei due partner ha un lavoro stabile. Questa configurazione familiare, negli ultimi decenni, ha avuto più figli rispetto al modello “classico” in cui solo l’uomo lavora e la donna è casalinga. Ancor meno figli hanno avuto le coppie senza un lavoro stabile. Infine, la propensione ad avere il terzo figlio è generalmente molto bassa, anche quando i componenti del nucleo hanno un lavoro stabile.

Queste evidenze sono rilevanti, infatti – a differenza di quanto avveniva fino a poco tempo fa – la stabilità del lavoro, in primo luogo, e la partecipazione al lavoro della donna, in secondo luogo, sono diventate condizioni importanti affinché la famiglia abbia dei figli. E’ quindi opinione diffusa, e condivisa da molti, che sia soprattutto la mancanza di sostegni ad aver indebolito la famiglia, e che il lavoro femminile senza l’apporto del welfare rende difficile avere figli. Sono pertanto i costi impliciti di cura dei figli, oltre a quelli espliciti più facilmente monetizzabili, che incidono significativamente sulle scelte di genitorialità delle famiglie e le decisioni di partecipazione al mercato del lavoro delle donne.

La domanda che molti adesso si pongono è perché non sia stato fatto nulla per invertire questa tendenza. Perché ci si è affidati interamente alla rete familiare pensando che potesse bastare a sostenere le famiglie in assenza di un welfare adeguato. Perché per decenni si sia investito risorse per mandare in pensione anticipata intere coorti di lavoratori adulti, invece che investire su famiglia, genitorialità e conciliazione tra lavoro e famiglia. Una risposta, che tuttavia non può essere considerata soddisfacente, è che in un paese che invecchia, orientare il welfare alla popolazione anziana premia maggiormente rispetto a investire sui giovani. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Secondo l’OCSE (Doing better for families, 2011), l’Italia si colloca sotto la media OCSE rispetto ai principali indicatori utilizzati per determinare il benessere della famiglia: il tasso di occupazione femminile, il tasso di fertilità e la povertà infantile. Dalla lettura congiunta di questi fattori emerge il cosiddetto “dilemma italiano”, che in un circolo vizioso unisce la difficoltà di conciliare lavoro e figli, alla denatalità e alla povertà dei minori. Infatti, come certificato dall’OCSE il rischio di povertà infantile aumenta al diminuire dell’intensità occupazionale della famiglia ed è massimo quando entrambi i genitori sono disoccupati. Nelle famiglie monoparentali con un genitore disoccupato il rischio di povertà sfiora il 90 percento, mentre tale rischio scende al 22 percento quando almeno un genitore è occupato. Se il legame tra fertilità e occupazione è più incerto, quello tra occupazione dei genitori e povertà infantile è documentato da numerosissimi studi. Nelle conclusioni del rapporto l’OCSE tra le principali raccomandazioni per l’Italia era indicata la necessita di investire maggiormente sulla famiglia e sulle politiche di conciliazione. Il tema delle politiche per la famiglia e della debolezza del nostro welfare sono quindi oggetto di dibattito in Italia da decenni, tuttavia la crisi finanziaria del 2008 e la pandemia del Covid-19 hanno reso più urgente la necessità di rafforzare le politiche per il sostegno alla famiglia.

Le recenti riforme. Dopo decenni di inerzia sul fronte della famiglia, negli ultimi anni qualcosa ha cominciato a muoversi sul fronte conciliazione vita-lavoro. Dal punto di vista legislativo con la cosiddetta legge “Fornero” (L. 92/2012) e successivamente con il “Jobs Act” (L. 34/2014) sono state introdotte nel nostro ordinamento diverse modifiche legislative dirette a favorire la conciliazione vita-lavoro delle famiglie e un più equo bilanciamento dei carichi familiari tra padri e madri. In particolare, la legge “Fornero” ha introdotto, per la prima volta, un congedo di paternità obbligatorio (art. 4, comma 24 «…il padre lavoratore dipendente, entro cinque mesi dalla nascita del figlio, ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di un giorno») — che in un certo senso era dovuto visto che una direttiva comunitaria già da tempo ne richiedeva l’applicazione –, e la possibilità per le madri di beneficiare di un bonus baby-sitting. Successivamente anche il “Jobs Act” è intervenuto sul congedo obbligatorio di maternità cercando di renderne l’utilizzo più flessibile (il congedo retribuito al 30% viene esteso fino ai 6 anni di età, quello non retribuito fino ai 12 anni), sia estendendo la fruizione a tutti i lavoratori (quindi non solo ai lavoratori dipendenti come precedentemente previsto). Sono state introdotte anche norme innovative in materia di smart-working per venire incontro alle esigenze di cura delle famiglie. Durante la pandemia del Covid-19 la diffusione forzata dello smart-working (o meglio work-from-home) ha reso maggiormente evidente lo sbilanciamento nelle attività di cura tra gli uomini e le donne, che – come risulta dalle diverse indagini condotte durante il periodo di lock-down – ha visto le donne cumulare un numero di ore di lavoro e di cura decisamente superiore rispetto agli uomini (Depalo e Giorgi “Il lavoro da remoto in Italia durante la pandemia: i lavoratori del settore privato” Note Covid-19, Banca d’Italia, 2021).

Quindi, nonostante le varie riforme che sono intervenute a favore di una migliore conciliazione, i carichi di cura restano ancora fortemente sbilanciati. Un recente studio ha preso in esame alcuni indicatori relativi alla condivisione dei tempi di cura tra madri e padri, e all’impiego del lavoro non remunerato (Inps, “XX Rapporto Annuale”, 2021). In particolare, sono stati analizzati i dati relativi alla fruizione dei congedi di maternità (che a legislazione vigente prevedono 5 mesi retribuiti all’80% del salario), quelli di paternità (la cui durata è stata aumentata da 1 giorno agli attuali 7 giorni), e i congedi parentali (facoltativi e remunerati solo al 30% del salario). I risultati del rapporto mostrano come la quota di padri che hanno usufruito del congedo, pur essendo cresciuta in seguito alle riforme, si colloca sempre in una proporzione di 5 a 1 tra madri e padri. Viene lecito domandarsi come mai le modifiche normative abbiano avuto effetti così modesti sui comportamenti dei padri. Le risposte avanzate nello studio sono molteplici, e vanno da un’eccessiva penalizzazione salariale per i congedi dei padri (-70%) rispetto alle madri (-20%), all’insufficiente offerta di servizi a supporto delle famiglie con figli, in cui entrambi i genitori lavorano.

Conclusioni. Nel corso di quest’anno, dopo un lungo iter parlamentare, è stato presentato un disegno di legge (il DDL S. 1892) che introduce ed istituisce un “Assegno Unico e Universale”, cioè un beneficio che assorbe molte delle prestazioni di welfare di cui attualmente beneficiano le famiglie italiane e che con un maggior finanziamento offre una copertura universale anche alla platea di soggetti che precedentemente erano esclusi dai benefici fiscali. Il vantaggio che l’Assegno Unico e Universale offre è, in primo luogo, il superamento della dicotomia tra detrazioni fiscali per le famiglie con figli a carico e gli assegni familiari e, in secondo luogo, l’introduzione di una misura di sostegno veramente universale che abbia come riferimento il reddito familiare equivalente (ISEE). Si tratta quindi di una riforma importante che, dal gennaio 2022, dovrebbe rappresentare uno dei cardini della fiscalità e del welfare a sostegno delle famiglie per garantire equità sociale e intergenerazionale nel nostro paese e, auspicabilmente, anche uno stimolo alla natalità.

*Il presente lavoro è frutto di una più ampia ricerca svolta in collaborazione con Arel, Fondazione E. Gorrieri e Alleanza per l’Infanzia. Sono grato a Massimo Baldini, Paolo Bosi, Giovanni Gallo, Cristiano Gori e Chiara Saraceno per gli utili suggerimenti e i commenti condivisi sul tema. Ringrazio anche Stefano Lepri e Graziano Delrio, relatori del disegno di legge, per il confronto sui dettagli dei provvedimenti. La responsabilità di quanto scritto nell’articolo è solo mia e non implica in alcun modo gli altri componenti del gruppo di ricerca. 

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