La crisi dei mutui subprime e il problema del rischio nel capitalismo globale

1. Quella dello scorso agosto quasi certamente passerà alla storia come la “crisi dei mutui subprime” e si aggiungerà alla lista degli scossoni finanziari che il modo globalizzato ha conosciuto dalla metà degli anni ’80. Si tratta di una lista non breve: dal crollo delle borse del 1987, alle difficoltà delle banche di Savings and Loans dei primi anni ’90 in Usa, alle crisi messicana e del sud est asiatico, fino allo scandalo Enron di 5 anni fa. Ma non è facile dire se quella dei mutui subprime resterà una crisi finanziaria circoscritta o se gli storici del futuro dovranno dare conto di conseguenze negative a catena che a quella crisi potrebbero ancora seguire, coinvolgendo l’economia reale con esiti ben più severi delle marginali correzioni al ribasso dei tassi di crescita che già sono in atto.

In effetti, al momento, uno dei temi più discussi è se il fenomeno sia oramai sotto controllo o se, in modo sotterraneo, esso stia attaccando gangli delicati dell’economia mondiale con effetti potenzialmente devastanti, che potranno manifestarsi a scadenze più o meno ravvicinate. Nessuno può nutrire certezze al riguardo e nessuno può escludere gli scenari meno rassicuranti. Il riferimento alla solidità dell’economia mondiale, formulato di frequente negli scorsi giorni in funzione rassicurante, appare piuttosto inadeguato allo scopo. Senza approfondire la questione, va ricordato che l’elevato tasso di crescita dell’economia mondiale dipende largamente da quanto accade in Cina e in India (e , en passant, va ricordato che sull’attendibilità degli elevatissimi tassi di crescita ufficiali della Cina un autorevole economista, Lester Thurow, ha di recente sollevato dubbi non privi di fondamento). Inoltre, l’economia mondiale convive da tempo con quelli che vengono chiamati global imbalances. Si tratta, in breve, del fatto che l’economia leader, quella degli Stati Uniti, consuma molto più di quanto produce e, per finanziare questo deficit, dipende in modo cruciale dai flussi di risparmio provenienti da altri paesi. La dipendenza dell’economia leader dai capitali di altri, assi meno sviluppati, paesi costituisce una stranezza e potrebbe, al manifestarsi di crepe più profonde negli equilibri finanziari, trasformarsi in elemento di deflagrazione di una crisi molto grave.

In realtà, l’instabilità che si è originata con i mutui subprime può estendersi, raggiungendo settori, paesi e soggetti assai lontani. I canali attraverso i quali questo può avvenire sono numerosi e sono stati indicati dagli osservatori più attenti. Si tratta, in particolare della crisi di liquidità delle banche e dello sgonfiamento dell’attività del private equity che dipende in modo cruciale dalle banche. Da qui potrebbero avviarsi pericolosi processi di rilievo per l’economia reale, in particolare il blocco della domanda di consumo, che negli Usa ha una notevole funzione di traino della crescita. Ma se questo avverrà nessuno può dirlo, al momento, con certezza. Troppe le variabili incontrollabili, ad iniziare da quelle che governano la psicologia di molti soggetti.

Piuttosto che cercare di indovinare cosa potrà accadere sembra utile riflettere su quanto è già accaduto. In particolare vale la pena chiedersi se questa crisi ci dica qualcosa di nuovo e di istruttivo sul rapporto, per molti aspetti cruciale, tra rischio e mercati. La questione non riguarda solo il mercato finanziario, ma proprio partendo da questi mercati si possono forse cogliere tendenze più generali sul rischio nel capitalismo globalizzato, su come esso viene (almeno in parte) creato e, soprattutto, distribuito.

2. Come sempre è bene cominciare dall’inizio, cioè dalle lontane radici dello scossone delle scorse settimane. Queste radici stanno nella tendenza al rialzo dei prezzi delle case che ha iniziato a manifestarsi nel 1997 negli Stati Uniti (a sua volta facilitato dalla politica di bassi tassi di interesse perseguita dalle autorità monetarie americane). In un decennio il valore degli immobili è cresciuto a dismisura, si parla, al riguardo, di un aumento di 12 trilioni di dollari. In queste condizioni, che la fallacia cognitiva di molti ha portato a vedere come permanenti, la concessione di mutui per l’acquisto della casa a tassi convenienti si è sviluppata a ritmi vertiginosi. Il problema dei mutui subprime, cioè ad elevata probabilità di non restituzione per le condizioni di debolezza economica e finanziaria dei debitori, è nato così. La rischiosità dei prestiti è stata valutata dalle banche con crescente leggerezza grazie alle prospettive di prezzi delle case continuamente crescenti. Ma non soltanto per questo: anche la facilità con la quale le banche potevano trasferire ad altri il rischio connesso a quei prestiti ha svolto un ruolo centrale.

In effetti è risultata decisiva l’evoluzione dei mercati finanziari e la possibilità di creare prodotti finanziari “compositi” attraverso la cosiddetta securitization per cui si poteva confezionare e collocare convenientemente sul mercato un prodotto finanziario che combinava questi crediti immobiliari assieme ad altri titoli (chiamati “CDO”, collaterlalised debt obligations) scelti per le loro caratteristiche di maggiore sicurezza. In tal modo il prodotto composito risultava appetibile nonostante la presenza di mutui rischiosi, come sono i subprime. E questa relativa sicurezza permetteva anche il collocamento a tassi di interesse piuttosto bassi, tali da non includere un elevato “premio per il rischio”.

Con il rallentamento dell’economia, la crescita dei tassi di interesse e la caduta dei prezzi delle case, sono iniziati i defaults, i creditori hanno iniziato a non pagare i propri mutui e il panico si è diffuso, con conseguenze molto gravi per il sistema finanziario e, almeno potenzialmente, per l’intera economia. E non soltanto per l’economia americana, ma per quella globale: infatti ad acquistare i pacchetti finanziari contenenti i mutui subprime sono stati intermediari finanziari di tutto il mondo che a loro volto riversavano su di essi il risparmio di molti ignari individui di tutto il mondo.

Un ulteriore importante elemento riguarda la valutazione dei CDO. In assenza di un mercato ben funzionante nel quale commerciare questi prodotti, la loro valutazione avviene, essenzialmente, sulla base dei ratings effettuati dalle competenti agenzie. Queste ultime, che sono di proprietà privata, hanno avuto un ruolo di spicco, nella crisi: le loro valutazioni nei confronti della rischiosità dei CDO sono state, chissà per quale motivo, almeno condiscendenti. Quei titoli cono stati gratificati di valutazioni positive che non meritavano e gli effetti distorsivi di cotanta indulgenza sono facilmente immaginabili.

Una volta manifestatosi lo scossone, le Banche Centrali si sono trovate, come in mille casi analoghi, di fronte al solito problema: intervenire o no? E se sì, come e con quale incisività? Come sappiamo, le Banche Centrali hanno deciso di intervenire e anche i governi, ad iniziare da quello degli Stati Uniti, hanno scelto, pur tra mille cautele, di offrire sostegno a quanti rischiano di venire duramente colpiti in un bene essenziale come la casa. Rispetto a questi interventi il dilemma è sempre lo stesso: non intervenendo si rischia di alimentare una spirale recessiva devastante; intervenendo si rischia di salvare chi non lo merita, per essere stato mosso da poco commendevoli intenti speculativi. Inoltre, e soprattutto, con la politica dei salvataggi si manda un segnale che potrà distorcere anche i comportamenti futuri dei singoli: speculate pure, qualcuno vi darà una mano. In questo consiste il cosiddetto moral hazard.

Lasciamo qui questa complessa questione e torniamo alla crisi per come si è manifestata, cercando elementi di riflessione sull’evoluzione del rischio nel capitalismo globalizzato.

3. In apparenza le crisi finanziarie sono tutte uguali. Alla loro radice c’è una crescente fiducia, molto spesso inizialmente localizzata in alcuni specifici segmenti, che sostiene i mercati, che fa apparire conveniente l’indebitamento e – silenziosamente – fa crescere i rischi. Quindi, un qualsiasi evento – reale o anche soltanto temuto, generato dagli stessi “eccessi” della fiducia o ad essi estraneo – finisce per mettere fine alla fase positiva. Si genera un crisi locale che, però, a seconda delle circostanze, può estendersi ben oltre il punto in cui essa si è originariamente manifestata. In generale, la fitta rete di connessioni che collega i mercati finanziari costituisce di per sé condizione propizia alla diffusione della crisi. Ma va anche considerato che quando i mercati finanziari sono molto estesi, come nel capitalismo globalizzato, si può dare anche un fenomeno di segno opposto, e cioè la possibilità di una meno destabilizzante distribuzione dei rischi tra la miriade di soggetti che operano in quei mercati.

Anche la crisi dei mutui subprime si conforma a queste caratteristiche molto generali. Tuttavia, essa presenta alcune specificità che meritano di essere sottolineate. La prima, e più evidente, riguarda il fatto che l’instabilità si è originata rispetto a un bene essenziale come la casa e più precisamente in relazione – sebbene non esclusiva – alle modalità di accesso a quel bene da parte di soggetti economicamente e finanziariamente deboli. Il valore, anche simbolico, di questo connubio tra un bene-sicurezza e l’estrema insicurezza dei mercati finanziari è stato colto da alcuni commentatori.

Ma al di là di questo la crisi in atto induce a riflettere sull’assenza di soluzioni facili, e di mercato, al problema dell’housing. Le vicende alle quali assistiamo mostrano l’inadeguatezza di una soluzione basata su operatori finanziari privati – talvolta anche sussidiati dal governo – in condizioni di facile trasferibilità del rischio. Più in generale, queste vicende mostrano l’esigenza di una rinnovata riflessione sul ruolo del pubblico nell’housing, che costituisce un problema estremamente serio in numerosi paesi, ad iniziare dal nostro.

Un secondo elemento di specificità riguarda proprio la possibilità per le banche di trasferire ad altri soggetti, in virtù dei già ricordati sviluppi nei mercati finanziari, il rischio connesso ai mutui subprime. Gli effetti di questa possibilità, prontamente colta dalle banche, sono notevoli non soltanto perché a sopportare, in tutto o in parte, quel rischio saranno, in ultima istanza, altri soggetti, ma anche perché i rischi, a causa di questo stesso meccanismo, possono moltiplicarsi – e non soltanto trasferirsi. Il punto è molto semplice: se i rischi possono essere accollati ad altri, si riduce l’incentivo a valutarli accuratamente al momento della concessione dei prestiti, con la conseguenza di accrescere i prestiti molto rischiosi. Come in ogni ambito, quando saranno altri a sopportarne le conseguenze negative, le nostre decisioni non saranno prese con la dovuta cura.

Nel caso dei mutui subprime, poi, le banche lucravano un vantaggio immediato con il trasferimento e, dunque, avevano un forte incentivo non solo a non esercitare cura ma perfino a accrescere, quasi consapevolmente, i rischi. Il rendimento immediato nasceva, infatti, dal differenziale positivo tra il tasso di interesse che le banche chiedevano ai sottoscrittori di prestiti rischiosi (alto per l’elevato premio per il rischio) e il tasso di interesse sui pacchetti finanziari in cui finivano quei titoli (più basso perché la combinazione con titoli più sicuri portava a ridimensionare notevolmente il premio per il rischio).

Questo poco virtuoso meccanismo porta alla conclusione che i mercati finanziari debolmente regolati, per usare un eufemismo, generano, rispetto al rischio, due effetti, entrambi piuttosto preoccupanti: lo trasferiscono a soggetti poco consapevoli e tendenzialmente deboli; lo moltiplicano proprio in virtù della possibilità di trasferirlo. Abbiamo, dunque, elementi su cui riflettere rispetto al tema del rischio nel capitalismo globalizzato.

4. Autorevoli studiosi come Beck e Giddens hanno richiamato la nostra attenzione sul fatto che la società nella quale viviamo può a buon diritto essere definita la società del rischio, per il moltiplicarsi degli eventi dagli esiti incerti e potenzialmente molto dannosi, generati dalla stessa attività umana, nella sua espressione tecnologica, economica o politica. Gli esempi immediati riguardano la salute, l’ambiente, l’incontrollabilità di taluni sviluppi scientifici e anche il terrorismo. In generale si tratta di rischi nuovi, o almeno considerati tali, e non connessi al normale funzionamento dei mercati.

Ma, come sembrano suggerire le riflessioni appena formulate, vi è un problema di ripartizione e di creazione del rischio anche in relazione al normale funzionamento dei mercati, reso più urgente dalle modifiche che li stanno interessando e dai cambiamenti che, contestualmente, intervengono in alcune importanti istituzioni. Non a caso si tratta, in generale, di istituzioni in passato considerate di grande utilità sociale proprio per la loro capacità di contenere il rischio e di sopportarlo in modo efficiente, limitando l’esposizione dei singoli, specie i più deboli. L’esempio più immediato è il welfare state. Occorre, dunque, allargare il nostro sguardo oltre la crisi dei mutui subprime e al di là dei mercati finanziari. Consideriamo, in modo necessariamente superficiale, alcuni esempi tra gli altri possibili.

Nel nostro paese si dibatte, in queste settimane, dell’opportunità di collegare la retribuzione dei lavoratori alla produttività –o, comunque, ai risultati – invocando argomenti in apparenza difficilmente confutabili tra i quali primeggia la necessità di premiare i “migliori” e di consentire alle depressissime retribuzioni di muoversi, almeno per alcuni, verso l’alto. Se ne dibatte sui principali quotidiani e si formano blocchi di opinione che assegnano a questa misura un ruolo fondamentale nella modernizzazione del paese e delle sue relazioni industriali. In particolare, come mostrano gli articoli molto precisi di Pietro Ichino, la questione viene ricondotta alla necessità di rinunciare, da parte sindacale, alla centralità della rigida contrattazione nazionale. Il problema degli incentivi e del merito è cruciale e non si vede chi potrebbe, sensatamente, negarlo. Ma il punto è che la questione è più complessa e tra le principali ragioni di tale complessità vi è, appunto, il rischio, che non a caso sembra essere del tutto assente dalle considerazioni anche dei più accurati sostenitori di questa proposta. Può darsi che questo sia dovuto alla facilità con la quale rischio ed incentivo si confondono. Ma si tratta di cose diverse, come dimostra la possibilità che l’accresciuto impegno di un individuo opportunamente incentivato – e che a causa di ciò può essere considerato meritevole – risulti vanificato da eventi sottratti al suo controllo.

In presenza di lavori di squadra – che sembrano del tutto dominanti in un’impresa – questi eventi possono riguardare la collaborazione di altri lavoratori, la correttezza delle decisioni del management, il complessivo disegno organizzativo e così via. Questi eventi si configurano come veri e propri rischi: dal loro concreto realizzarsi dipenderà il risultato al quale darà luogo l’impegno del singolo. La possibilità di un cattivo risultato malgrado il merito e l’impegno è la parte peggiore del rischio che l’individuo è chiamato a correre. La prima questione è semplice: siamo certi che, in assenza di altri interventi, questo accresciuto rischio non consigli di ridurre l’impegno, anziché accrescerlo? In alcun casi almeno la questione appare quanto mai pertinente.

La seconda questione rimanda, con gli opportuni adattamenti, a quanto si è già visto in relazione al comportamento delle banche. La possibilità di trasferire su altri gli effetti di alcuni eventi negativi può accrescere la probabilità di questi eventi. In altri termini, chi ha potere decisionale potrebbe derivare da questa modifica nelle modalità di retribuzione – almeno in alcuni casi – un perverso incentivo a accrescere il rischio. Anche qui il principio di efficienza, e non solo di giustizia, è che le conseguenze delle decisioni devono ricadere il più possibile estesamente su chi quelle decisioni prende.

Dunque, i cambiamenti che vengono invocati nel mercato del lavoro comportano una significativa e non necessariamente virtuosa redistribuzione dei rischi. Meno sulle imprese, più sui singoli lavoratori. Il problema è che rischio, merito e incentivi sono strettamente intrecciati, ma sono diversi e andrebbero considerati per le loro diversità.

Ulteriori esempi, ai quali mi limito a fare cenno, riguardano le evoluzioni del welfare state. La sostituzione, più o meno estesa, delle pensioni pubbliche con la previdenza integrativa espone i singoli a rischi crescenti, come mostra anche la crisi dei mutui subprime che ha interessato i fondi pensione. Le politiche per i disoccupati adottate in numerosi paesi – ad iniziare dagli Stati Uniti – con la limitazione delle possibilità di fruizione del sussidio vanno nella stessa direzione. Tutto questo contribuisce ad accrescere il rischio ex ante e la variabilità dei redditi ex post, giustificando le tesi di chi, come Hacker, ha individuato in questo accresciuto rischio per i singoli a causa delle riforme del welfare, uno degli elementi distintivi dell’epoca contemporanea.

Se si considera che il welfare state è nato anche in virtù della considerazione che potesse rappresentare una risposta efficiente a taluni rischi, soprattutto quelli fondamentali per la vita delle persone, si comprende quanto rilevante sia il cambiamento in atto.

Ma, come si è detto, il problema del trasferimento del rischio sembra molto più generale, interessando quasi ogni aspetto del capitalismo contemporaneo. Dunque, il sospetto è che vi sia una ragione tendenzialmente unica e piuttosto profonda in tutto questo. E il sospetto potrebbe cadere proprio sul modo di intendere la responsabilità individuale, il suo rapporto con il merito e con i mercati. Si tratta, inutile ripeterlo, di questioni centrali. Ma il fatto che merito e rischio non siano la stessa cosa dovrebbe indurre a maggiore cautela. Soprattutto, occorre considerare che – in assenza di un buona calibratura – il rafforzamento della responsabilità individuale di alcuni rischia di trasformarsi nell’indebolimento della responsabilità individuale di altri, con esiti collettivi ben diversi da quelli attesi. Ragionando sugli effetti del trasferimento del rischio questa possibilità emerge con assoluta chiarezza.

Non vi è dubbio che, soprattutto in Italia, le modalità di definizione delle responsabilità individuali e le forme di protezione dal rischio non sono le migliori. Ma il progresso rispetto a questa situazione difficilmente può essere garantito da un progetto di ridefinizione delle responsabilità individuali che avvenga senza ponderare gli effetti del trasferimento di rischio che ad esso inevitabilmente si accompagna. La soluzione migliore richiede un’architettura più complessa e non può fare a meno della definizione di un rinnovato ruolo per le istituzioni oggi in arretramento che soppianti la tendenza a considerarle oramai dannose, in quanto di intralcio ai mercati. Questo rischia di lasciarci senza armi rispetto ai pericolosi slittamenti del rischio. Un esempio? Tra le proposte avanzate per limitare la capacità delle banche di trasferire rischio una delle più concrete riguarda l’informazione e la formazione dei risparmiatori. Ma davvero si ritiene che questa possa essere un’arma efficace? Non sarebbe il caso di considerare nuovamente e a fondo il ruolo e le funzioni delle istituzioni di regolamentazione?

Dunque, occorre un riflessione più approfondita. La crisi in atto può costituire una buona occasione per farlo, e avrà qualche merito se ci aiuterà ad abbandonare l’idea, troppo semplice, che esponendo ognuno ai rischi di un mercato con poche regole si ottengano i risultati migliori per tutti.

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