La correzione attuariale delle pensioni in essere: da un principio condivisibile a una soluzione difettosa

Alla luce del dibattito che ha seguito la proposta di riforma delle pensioni da parte dell’INPS, in “Contrappunti” ripubblichiamo un contributo di Michele Raitano comparso sul n. 9 del Menabò che mostra i punti deboli dell’idea di ricalcolare le pensioni in pagamento applicando i principi della formula contributiva. Raitano sostiene che questa proposta, pur essendo ispirata a principi condivisibili, farebbe sorgere problemi di equità sorgerebbero se, come è previsto, venissero esentate le pensioni inferiori a una determinata soglia.

Nelle scorse settimane la stampa italiana ha dato risalto all’idea – sostenuta da alcuni esponenti della maggioranza e ispirata a una serie di contributi di Tito Boeri e Fabrizio e Stefano Patriarca – di reperire risorse per il bilancio pubblico applicando alle pensioni in pagamento un contributo di solidarietà commisurato alla differenza fra quanto si riceve in base alle regole del sistema retributivo e quanto sarebbe stato percepito se le prestazioni degli attuali pensionati fossero state determinate, secondo meccanismi attuariali, in base al sistema contributivo [1. Nel retributivo la pensione, a cui si accedeva talvolta ad età particolarmente precoci, è essenzialmente funzione del numero di anni di attività e del salario di fine carriera – è, quindi, slegata sia a quanto si sia contribuito lungo la carriera sia all’età di ritiro – mentre nel contributivo dipende, in base a meccanismi attuariali, dal flusso dei contributi versati durante l’intera vita lavorativa (rivalutati in base alla crescita del Pil nominale) e dall’età in cui ci si pensiona]. In particolare, si è parlato di un contributo che dovrebbe gravare – con un sistema a scaglioni, in base alla differenza tra i due importi – su chi riceve pensioni superiori ad una soglia predeterminata (che, nelle varie ricostruzioni della stampa, oscillerebbe fra i 2.000 e i 3.500 euro mensili, senza chiarire se lordi o netti).

A prima vista, l’idea appare intrigante: intervenendo sui pensionati più ricchi in una misura legata al “regalo” rappresentato dal godimento di una pensione non finanziata dai contributi versati durante la vita attiva, si potrebbero, infatti, finanziare trasferimenti di welfare redistributivi. Una riflessione più attenta fa, però, nascere diversi dubbi sull’efficacia di questo intervento. I dubbi attengono a tre ordini di ragioni.

In primo luogo, dettagli di carattere applicativo potrebbero rendere il calcolo della teorica pensione contributiva molto complicato, cosicché non sarebbe facile per un pensionato capire se e in quale misura sia soggetto al contributo di solidarietà e, d’altro canto, probabilmente, si moltiplicherebbero i ricorsi alla magistratura.

Per calcolare la teorica pensione contributiva, infatti, si dovrebbero conoscere con esattezza i contributi effettivamente versati anno per anno dagli attuali pensionati, dall’inizio della loro carriera (dunque, almeno sin dal secondo dopoguerra), per poi rivalutarli in base alla serie dei tassi di crescita del Pil nominale. Sfortunatamente, dagli archivi amministrativi italiani (peraltro molto dettagliati) la serie dei contributi versati può essere ricostruita per i dipendenti privati e per gli autonomi soltanto a partire dal 1975 e per i dipendenti pubblici addirittura dal 1996. La soluzione che è stata suggerita e che consiste nell’attribuire una contribuzione forfettaria quando non si dispone delle informazioni d’archivio, sarebbe con tutta probabilità facilmente impugnabile. Inoltre: quale valore andrebbe assegnato ai contributi figurativi o a quelli da riscatto della laurea, i cui importi, nel retributivo, erano stabiliti seguendo logiche del tutto estranee a quelle attuariali? Con quale precisione si riuscirebbero a calcolare i coefficienti di trasformazione che avrebbero dovuto essere applicati nel passato alle diverse età di ritiro? Come andrebbe trattato dal punto di vista attuariale chi fosse stato pre-pensionato in seguito a crisi aziendali o a problemi di salute? A causa di queste complicazioni e di altre simili non è per nulla chiaro come verrebbe effettuato il calcolo della pensione teorica.

Questa serie di dubbi porta a un secondo ordine di considerazioni di natura teorica. La letteratura economica (e la stessa governance dell’Unione Europea) non delinea le caratteristiche di un sistema pensionistico ottimale, lasciando i singoli Stati liberi di decidere fra schemi a ripartizione o a capitalizzazione, a gestione pubblica o privata, a calcolo retributivo o contributivo. Il retributivo andrebbe privilegiato laddove alla pensione si chiedesse di assicurare il godimento del tenore di vita precedente, mentre il contributivo sarebbe da preferire se si volesse privilegiare l’efficiente allocazione individuale del risparmio tra l’età attiva a quella anziana. Similmente, la capitalizzazione – finanziando la pensione con i contributi precedentemente versati – favorisce il mantenimento automatico dell’equilibrio di bilancio; essa, però, naturalmente non permette di godere del vantaggio di un sistema in cui la spesa è finanziata con i contributi degli attivi , e cioè la possibilità, in periodi di crescita economica e demografica sostenuta, di ridurre le aliquote contributive senza che ne risentano il bilancio pensionistico e i consumi dei pensionati.

Non dimentichiamo né giustifichiamo le numerose distorsioni e iniquità a vantaggio di alcune categorie di lavoratori, in primis gli autonomi, che caratterizzavano il sistema retributivo; tuttavia, dal punto di vista della teoria economica, ricalcolare la pensione in base agli effettivi contributi equivale a stabilire ex post che l’unico sistema pensionistico accettabile è quello basato su una logica strettamente attuariale. In altri termini, qualsiasi pensione che ecceda l’importo risultante dal calcolo attuariale sarebbe da considerare un regalo agli ex lavoratori anziani perpetrato a danno delle generazioni attuali, anziché una risposta (talvolta molto imperfetta e parziale) a complessi equilibri di politica economica.

Inoltre, applicando al passato il metodo del calcolo attuariale si finisce per snaturare il sistema a ripartizione. Ad esempio, sarebbero fortemente penalizzati i lavoratori che hanno versato contributi bassi a causa del fatto che, quando erano in attività, l’aliquota di equilibrio era sensibilmente inferiore all’attuale 33%; dunque, non si tratterebbe di vantaggi derivanti da regole di favore e il danno per i lavoratori sarebbe imputabile soltanto al rovesciamento, dopo decenni, dei meccanismi di finanziamento della spesa pensionistica. Per evitare ciò, le aliquote da applicare al calcolo della pensione contributiva teorica dovrebbero essere non quelle storiche ma quelle oggi vigenti.

Ma al di là delle considerazioni teoriche, quali sarebbero le implicazioni sull’equità dell’idea qui discussa? Non c’è il rischio che, applicandola ex post in un regime di calcolo già caratterizzato da profonde e diffuse iniquità, cresca il vantaggio (sovente ingiustificato) di cui alcune categorie di lavoratori hanno beneficiato nel retributivo?

Sintetizzando, il retributivo avvantaggia chi ha usufruito di aliquote contributive ridotte (come gli artigiani e i commercianti), chi si è ritirato in età precoce, chi (anche perché evadeva il reddito guadagnato negli anni precedenti) ha visto crescere in modo significativo le proprie retribuzioni a fine carriera o chi, ed è il caso dei dipendenti pubblici, ha ricevuto una pensione basata sull’ultimo salario anziché sul salario medio degli ultimi anni di attività. In molti casi questi vantaggi, incentivando comportamenti elusivi o evasivi oppure favorendo gli ex lavoratori “più forti”, sono chiaramente regressivi. Ma siamo sicuri che un contributo di solidarietà applicato a pensioni che superano una determinata soglia colpirebbe effettivamente chi più ha goduto delle distorsioni della formula retributiva italiana?

Fatti salvi alcuni casi aneddotici di politici e grand commis su cui si concentra la stampa, la gran parte di chi ha ricevuto ampi benefici attuariali rispetto a quanto contribuito è rappresentata da chi ha potuto collocarsi in pensione in età molto precoce, da ex dipendenti pubblici a medio reddito e da lavoratori autonomi (grazie alla minore aliquota da cui erano gravati); si tratta, cioè, di soggetti che molto difficilmente supererebbero la soglia di reddito da cui dovrebbe partire il contributo di solidarietà. Al contrario, il gap attuariale fra quanto si è versato e quanto si è ricevuto tende in molti casi a ridursi al crescere dell’importo della pensione (anzi, se fosse calcolata col contributivo quest’ultima sarebbe stata per alcuni anche più favorevole, in ragione degli alti tassi di crescita nominale del Pil italiano fino agli anni ‘90). Pertanto, se per condivisibili ragioni di ordine sociale non si vogliono tagliare le prestazioni di importo medio o medio-basso, è forte il rischio di introdurre nuove iniquità fra chi si trova sopra o sotto la soglia di esenzione. L’esito sarebbe, dunque, ben diverso da quello che molti danno per certo e cioè una generalizzata riduzione delle iniquità derivanti dalla differenza fra quanto si è versato e quanto si è ricevuto dal sistema previdenziale.

L’idea di chiedere un contributo di solidarietà ai pensionati più ricchi provando a ricostruire la pensione contributiva teorica va, dunque, incontro a problemi complessi in fase di attuazione e, d’altro canto, presenta diversi aspetti critici. Non avendo a disposizione una base dati adeguata, è aleatorio ogni calcolo delle entrate che potrebbero derivare dalla sua applicazione; è, però, presumibile che si tratterebbe di cifre contenute (forse non più di un miliardo di euro se si intervenisse sulle pensioni superiori a 3.500 euro mensili), comunque tali da non giustificare di andare incontro agli aspetti critici, di cui si è detto.

Se proprio si intendesse intervenire sulle pensioni in essere, potrebbe essere preferibile introdurre contributi di solidarietà più facilmente determinabili, basati, ad esempio, sulla distanza fra l’età di ritiro e un’età normale (ad esempio 57 anni), o sulla differenza fra la retribuzione adottata per determinare la pensione e la retribuzione mediamente percepita su un maggiore numero di anni, o, ancora, sul gap fra eventuali parametri agevolati (in primis sull’aliquota contributiva) e quelli applicati alla generalità dei lavoratori dipendenti. Tuttavia, anche misure di questo tipo dovrebbero evitare di colpire chi percepisce pensioni di importo medio-basso e genererebbero gli effetti indesiderati dal punto di vista dell’equità di cui si è detto poc’anzi.

Ma allora, che fare? Se l’obiettivo è finanziare interventi redistributivi a favore dei disoccupati giovani e anziani, non si capisce perché si dovrebbero cercare risorse, peraltro in modo contorto, soltanto nel sistema pensionistico. L’assunto che le pensioni in essere sarebbero un iniquo regalo è poco convincente perché trascura che esse sono anche il frutto del contesto socio-economico in cui sono maturate. L’alternativa potrebbe consistere nell’aumentare la progressività delle imposte sul reddito (da qualsiasi fonte) e nell’introdurre o rafforzare altre imposte per loro natura maggiormente progressive, quali le patrimoniali o quelle di successione.

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