La contrattazione integrativa aziendale e la produttività

Laura Bisio, Stefania Cardinaleschi e Riccardo Leoni si occupano della contrattazione integrativa aziendale in Italia. Dopo aver individuato i fattori che la favoriscono ed i suoi contenuti, ne analizzano gli effetti sull'efficienza dell'impresa misurata come produttività totale dei fattori (PTF). Utilizzando dati ISTAT, gli autori trovano che la probabilità di accordi integrativi è positivamente influenzata dalla profittabilità passata d'impresa e dal tasso di sindacalizzazione e che ad essi è associato un aumento della PTF del 9.6%.

Un’annosa questione nel dibattito italiano sulle relazioni industriali è se la contrattazione integrativa aziendale sviluppi la produttività o si limiti a distribuirne i benefici. La questione è annosa in quanto i numerosi studi empirici portati a termine negli ultimi vent’anni presentano delle lacune dovute in buona parte alla non esaustività delle banche dati utilizzate – per una rassegna delle quali si rimanda a un lavoro di Leoni di prossima pubblicazione (cfr. Economia & Lavoro, n.1/2018) – che non consentono fino ad ora di poter individuare l’esistenza di un nesso causale tra la contrattazione aziendale e la produttività d’impresa.

Nel Report ISTAT-CNEL del 2015, frutto di un accordo di collaborazione avviato nel 2012 tra ISTAT e CNEL, sono stati diffusi diffondono i risultati dell’indagine ISTAT sul tema della contrattazione integrativa con riferimento all’anno 2012, che forniscono un decisivo avanzamento in termini conoscitivi sul modo in cui la contrattazione decentrata, e quella aziendale in particolare, si articolano in Italia. L’utilizzo congiunto dei dati ISTAT forniti dalla rilevazione sulla contrattazione integrativa, unitamente ai dati del Censimento ISTAT dell’industria e dei servizi del 2011, all’archivio dei Bilanci Civilistici raccolti dalle Camere di Commercio e alle dichiarazioni contributive UniEmens di fonte INPS, ha consentito di investigare empiricamente due questioni specifiche che qui illustreremo sinteticamente – per una trattazione approfondita delle quali si rimanda a un nostro recente lavoro – e cioè quali sono le determinanti dell’adozione di un contratto integrativo aziendale e la rilevanza dei contenuti di quest’ultimo sulla produttività, sintetizzata tramite la produttività totale dei fattori.

A differenza della letteratura scientifica italiana sullo stessa tema, concentrata in prevalenza sulla (mera) presenza o meno della contrattazione nelle aziende e sul ruolo dei (soli) premi aziendali (performance related pay, PRP), l’analisi qui proposta, sfruttando la ricchezza informativa relativamente ai contenuti dei contratti integrativi aziendali, muove nella direzione di concettualizzare il contratto integrativo come investimento che l’impresa effettua per accrescere il proprio ”capitale organizzativo” quale strumento propedeutico per una migliore performance produttiva. E in quest’opera di accrescimento, il coinvolgimento dei lavoratori e dei loro rappresentanti nella sfera dei cambiamenti organizzativi, nella riscrittura delle nuove competenze attese, nella riorganizzazione della flessibilità dell’orario di lavoro, nonché nella definizione dei premi economici e non-economici quale riconoscimento degli sforzi di riposizionamento delle professionalità e degli apprendimenti, costituisce la via maestra del modo (democratico) di governare e gestire l’impresa. Un approccio in linea con quanto recentemente affermato, fra l’altro, anche nell’accordo interconfederale del 9 marzo 2018 tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, in cui si afferma, nelle conclusioni, l’opportunità condivisa della “valorizzazione di forme di partecipazione nei processi di definizione degli indirizzi strategici dell’impresa”.

Con riferimento alla prima domanda di ricerca, la tavola 1 riporta i risultati circa le determinanti della contrattazione integrativa aziendale riguardante la forma collettiva. Più precisamente si considera la contrattazione collettiva a livello d’azienda, di stabilimento e di gruppo (CICA) in colonna 1, la forma individuale (CIIA) in colonna 2 e l’insieme (bundle) di pratiche organizzativo-manageriali (POM) concordate nella CICA in colonna 3. I risultati mostrano che la capacità di auto-finanziamento di un investimento per lo sviluppo del capitale organizzativo (tramite il contratto integrativo), rappresentata dal Risultato Ante Oneri Finanziari (RAOF), è un fattore che significativamente aumenta la probabilità di praticare la contrattazione collettiva sia nel gruppo di imprese, sia con contratto collettivo, sia in quello con contratti individuali. In particolare, con riferimento agli effetti marginali medi dei modelli probit stimati (calcolati a partire dai coefficienti stimati mostrati nella tavola 1), otteniamo l’indicazione che un aumento del 10% del RAOF determina un aumento della probabilità di adozione, sia di CICA che di CIIA, del 3.1%. Nel caso invece del bundle di POM (colonna 3), osserviamo che l’elasticità stimata rispetto al RAOF è pari all’1,8%.

 

Tavola 1 – Stime sulle determinanti della presenza dei diversi tipi di contrattazioni integrative aziendali e dell’insieme di pratiche organizzativo-manageriali concordate nell’ambito della contrattazione integrativa collettiva aziendale. Settore privato (esclusa l’agricoltura, imprese con più di 15 dipendenti. Anno 2012.

La seconda dimensione significativa è quella che esprime la forza e la volontà dei lavoratori, rappresentata sia dal tasso di sindacalizzazione sia dalla dummy delle ore di scioperi e conflitti legate alla contrattazione integrativa. Il coefficiente della prima variabile può essere anche interpretato come il ruolo giocato dalla fiducia da parte dei responsabili aziendali nei confronti dei consigli dei delegati sindacali, attribuendo loro una reale rappresentatività rispetto all’esigibilità degli accordi. Sembra opportuno ricordare, a questo proposito, come diverse controversie tra le parti sociali originano proprio dal fatto che, soprattutto quando i rappresentanti dei lavoratori sono deboli (il che coincide spesso con un basso tasso di sindacalizzazione), i contenuti degli accordi vengono parzialmente disattesi da comportamenti non cooperativi della base. L’effetto marginale di un aumento della media del tasso di sindacalizzazione dell’1% è associato ad una crescita della probabilità di adottare la CICA pari a 0,08 punti percentuali. Il coefficiente positivo della seconda variabile spiegherebbe invece il ruolo giocato dai rappresentanti dei lavoratori nel mobilitare la base rispetto all’obiettivo, essenziale a volte per modificare le weltanschauung autocratiche di alcuni manager nei confronti delle condizioni lavorative interne e nel definire le pratiche organizzativo-manageriali più performanti. Laddove tale fenomeno è presente, la probabilità di adozione di CICA aumenta di circa il 20%.

Rispetto alla contrattazione integrativa individuale (colonna 2) emerge un disinteresse dei lavoratori organizzati. Dalle stime (non riportate per ragioni di brevità in questa nota) emerge altresì che le imprese a gestione familiare hanno una minore propensione, rispetto a quelle a gestione manageriale, sia a stipulare contratti integrativi, sia a concedere terreno ai rappresentanti dei lavoratori sul versante delle pratiche organizzativo-manageriali.

Con riferimento alla seconda domanda di ricerca – la relazione fra contrattazione integrativa e produttività – dopo aver tenuto conto della natura endogena sia della variabile dicotomica relativa alla contrattazione integrativa collettiva aziendale sia della variabile del bundle di pratiche organizzativo-manageriali, le stime riguardanti il loro impatto (ritardato) sulla produttività rivelano che (Tavola 2): i) il mancato controllo dell’endogeneità delle variabili contrattuali produce stime significativamente distorte verso il basso (colonne 1 e 3 rispetto a colonne 2 e 4); ii) la presenza di CICA genera un incremento nell’efficienza delle imprese del 9,6% , mentre nel caso della variabile fattoriale di sintesi dei contenuti della contrattazione l’elasticità è pari a 0,47, il che vuol dire che ad un aumento del 10% nel bundle delle pratiche organizzativo-manageriali sindacalmente concordate è associato un incremento del 4,7% della PTF.

 

Tavola 2 – Stima della relazione tra produttività totale dei fattori (PTF media 2013-2014) e contrattazione collettiva integrativa aziendale (CICA). Settore privato (esclusa l’agricoltura), imprese con più di 15 dipendenti. Anno 2012 (errori standard robusti all’eteroschedasticità).

I risultati sciolgono pertanto il dilemma del titolo della presente nota, e forniscono un’evidenza empirica robusta a sostegno della tesi che la contrattazione integrativa collettiva aziendale in Italia costituisce un investimento per lo sviluppo del capitale organizzativo, che a sua volta contribuisce ad incrementare la produttività. Allo stesso tempo però i risultati sollecitano quantomeno due altri quesiti, ad ora insoluti.

Il primo riguarda la scarsa (e, nel tempo, declinante) tendenza delle imprese italiane a investire nella contrattazione integrativa: nel già citato Report ISTAT-CNEL (tavola 4.2, pag.109) risulta che, al 2012, solo il 21,2% delle imprese con almeno 10 dipendenti avesse in essere un contratto collettivo aziendale e/o territoriale, percentuale che sale al 31,6% tenendo conto anche della contrattazione integrativa individuale e di altra tipologia. Oltre due terzi delle imprese non hanno quindi alcun tipo di contrattazione integrativa, nonostante sia i positivi risultati appena menzionati sia il profluvio di risorse pubbliche – parzialmente quantificate nel sopra richiamato lavoro di Leoni (2018) – messe a disposizione delle imprese a partire dal 1997 per favorirne la sua diffusione. Risulta imprescindibile dunque scavare nelle ragioni di questa riluttanza, o scarsa attitudine, delle imprese a investire, in forma partecipata, nella crescita del capitale organizzativo. È possibile che i costi d’ implementazione di un processo del genere superino gli stimati benefici? O forse esiste sullo sfondo anche un problema culturale, più precisamente una non condivisione (ideologica) della logica win-win, dal momento che questa implica una revisione delle autocratiche prerogative manageriali a favore di una condivisione con i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali della co-progettazione di alcuni disegni organizzativi e della definizione di alcune work practices.

Il secondo quesito concerne la gestione familiare dell’impresa, che risulta dalla nostra analisi responsabile di una significativa minore propensione tanto a sottoscrivere accordi integrativi collettivi, quanto a concedere terreno ai rappresentanti dei lavoratori sul versante delle pratiche organizzativo-manageriali, nonostante quest’ultime dimostrino di svolgere – secondo anche le ricerche internazionali di Bloom, Sadun e Van Reenen (The Organization of Firms Across Countries, Quarterly Journal of Economics, 2012) – un ruolo importante nella dinamica della produttività in diversi paesi industrializzati.

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