La contrattazione decentralizzata e lo sviluppo del Mezzogiorno

FraGRa prendendo spunto da un recente workshop tenutosi all’Università Roma Tre tornano sul tema dei divari nei salari reali tra Nord e Sud riproponendo, con estensioni, un contributo già pubblicato sul Menabò. FraGRa sostengono, tra l’altro, che il benessere non dipende solo dai salari reali, per cui il benessere - anche degli occupati – al Sud potrebbe essere inferiore malgrado i più alti salari reali. I flussi migratori sembrano confermare questa interpretazione e rendono plausibile che riducendo i salari, anche se crescesse l’occupazione, questo squilibrio si aggravi.

Lo scorso 10 aprile il Centro di Ricerche Economiche e Sociali Rossi-Doria dell’Università di Roma3 ha organizzato un interessante workshop su “Contrattazione collettiva, mercato del lavoro, produttività”. Al di là dello specifico contenuto dei lavori discussi, l’attenzione è tornata nuovamente sull’annosa questione dei differenziali di salario reale fra Nord e Sud Italia. In breve, la tesi emersa nel workshop, soprattutto sulla base del lavoro di Boeri, Ichino, Moretti e Posch lì presentato, è che la contrattazione collettiva nazionale, fissando i salari nominali in modo uniforme sul territorio nazionale, genererebbe un vantaggio salariale in termini reali nel Mezzogiorno a causa del maggior costo della vita, soprattutto delle abitazioni, nel Settentrione. Tale vantaggio sarebbe iniquo, dato che penalizzerebbe i lavoratori del Nord, e inefficiente, scoraggiando gli investimenti e favorendo la disoccupazione al Sud, e andrebbe eliminato sostituendo a quella nazionale una contrattazione il più possibile decentrata (fino al livello di impresa). Alla luce questa discussione, è utile ripresentare, con alcune estensioni, un nostro contributo già pubblicato sul Menabò.

Prescindiamo dalle difficoltà tecniche connesse alla trasformazione dei valori nominali in valori reali (ad esempio, il problema del deflatore da utilizzare per valutare il diverso costo delle abitazioni e il suo impatto sul costo della vita complessivo) e ci concentriamo, invece, sulle implicazioni per l’efficienza e l’equità dell’auspicato livellamento dei salari reali a livello nazionale.

Prima di procedere è, però, utile verificare se i salari nominali tra le aree del paese siano effettivamente uniformi. Il fatto che la contrattazione di primo livello sia condotta a livello nazionale non esclude, infatti, che le retribuzioni effettivamente percepite possano differire nelle diverse aree, in ragione di fattori quali: il numero di settimane e di ore effettivamente lavorate (legate anche al numero di ore di straordinario), la presenza di mensilità aggiuntive e eventuali bonus e la diffusione o meno di contrattazione di secondo livello, che può prevedere incrementi salariali. Solitamente questi fattori, anche a causa del minor sviluppo economico, sfavoriscono i lavoratori del Mezzogiorno, generando divari nelle retribuzioni effettivamente ricevute.

La nostra verifica si basa su un campione di dati amministrativi dell’INPS relativo al 2013 e si riferisce ai divari delle retribuzioni lorde annue complessive (che includono anche straordinari, tredicesime ed eventuali quattordicesime) dei lavoratori dipendenti del settore privato residenti nelle diverse macro-aree del nostro territorio. Ci siamo limitati a considerare chi nell’intero anno è stato occupato full-time (così depurando l’analisi da eventuali differenze dovute a rischi di disoccupazione e di part-time involontario, ben più frequenti nel Mezzogiorno).

La figura 1 mostra i divari dei salari lordi mediani fra aree e segnala che la retribuzione annua effettiva del Mezzogiorno è inferiore di circa 20 punti a quella del Nord Ovest e di circa 15 punti a quella del Nord Est.

Fig. 1: Retribuzioni lorde mediane annue nelle macro-aree italiane nel 2013. Lavoratori dipendenti privati occupati full-time per l’intero anno. Numero indice: Nord Ovest=100

La differenza delle retribuzioni mediane potrebbe essere dovuta a differenti caratteristiche dei lavoratori e delle imprese residenti nelle macro-aree. Per tenere conto di questo aspetto, abbiamo ricalcolato i differenziali retributivi fra macro-aree mediante regressioni sui logaritmi delle retribuzioni lorde annue percepite dai dipendenti privati occupati full-time per l’intero 2013, controllando per una serie di caratteristiche individuali (sesso, età ed esperienza lavorativa, cittadinanza, istruzione e inquadramento professionale; pannello sinistro della Figura 2) e poi aggiungendovi le caratteristiche dell’impresa (dimensione e settore, espresso tramite la dettagliatissima classificazione Ateco a 6 livelli; pannello destro della Figura 2). Anche controllando per questi “effetti di composizione” il divario territoriale stimato rimane ampio e statisticamente significativo e porta a escludere che la contrattazione nazionale generi eguaglianza delle retribuzioni nominali indipendentemente dalle condizioni di contesto.

 

Fig. 2: Stima OLS dei differenziali delle retribuzioni lorde annue nelle macro-aree italiane nel 2013. Lavoratori dipendenti privati occupati full-time per l’intero anno. Numero indice: Nord Ovest=100

Questa differenziazione fa anche sorgere una domanda rilevante per le questioni di equità e efficienza di cui stiamo per occuparci e a cui non è facile rispondere: le complessive dinamiche economiche, incluse quelle che si esplicano nei mercati, non potrebbero condurre a una configurazione dei salari che approssima le condizioni di equità e efficienza più di quanto non risulti in base all’assunzione che i salari siano uniformi a livello nazionale? Chiediamoci allora cosa implichi rispetto all’equità e all’efficienza l’auspicato livellamento dei salari reali.

Iniziamo con l’equità: a prima vista la tesi che a parità di condizioni individuali (in primis anzianità, istruzione e qualifica) i salari reali debbano essere uguali sembra del tutto giustificabile dal punto di vista dell’equità. Trattare in modo diverso individui eguali vuol dire, come si è ricordato, creare inaccettabili iniquità orizzontali. Tuttavia, a un esame più approfondito, questa tesi non risulta del tutto convincente. Le ragioni sono essenzialmente due: i) eguagliare i salari reali non vuol dire eguagliare anche l’effettivo tenore di vita, che è ciò che più conta sotto il profilo dell’equità; b) eguagliare i salari reali medi tra le aree non vuol dire che siano eliminate le differenze all’interno delle aree, che possono essere enormi e andrebbero tenute in conto in una valutazione equitativa.

In relazione al primo punto, quand’anche si concordasse sul deflatore con cui comparare i prezzi di diverse aree territoriali, la considerazione di partenza è che eguagliare i salari reali non è la stessa cosa che eguagliare il più complessivo benessere economico di individui e famiglie. I primi (e, più in generale i redditi) sono imperfette proxy del secondo. Per un esame più accurato occorre non limitarsi a correggere i salari nominali con un deflatore dei prezzi al consumo. Le diverse aree del nostro paese, oltre che per i prezzi medi, differiscono sotto molteplici altre dimensioni rilevanti per il benessere economico (e diversamente traducibili in una misura monetaria): l’offerta di servizi pubblici, la qualità di scuole e ospedali, il livello di inquinamento e di degrado, nonché la diffusione di forme di compensazione in natura godute dai lavoratori attraverso il cosiddetto welfare aziendale, che, essendo legato alla dimensione di impresa, maggiore nel Centro-Nord, svantaggia relativamente chi lavora al Sud. Se poi il minor prezzo delle case del Mezzogiorno dipendesse da una loro minore qualità l’eventuale iniquità a discapito dei settentrionali legata al costo delle abitazioni apparirebbe molto meno grave.

Ad ogni modo, tutte queste dimensioni in aggiunta al salario reale sembrano contribuire a ridurre il benessere economico di chi risiede nel Mezzogiorno e non è facile dire se ciò compensi o meno l’eventuale vantaggio rappresentato dal minore costo della vita. A tale proposito va però ricordato un recente studio di Giovanni D’Alessio che rileva come, nonostante le differenze nel costo delle abitazioni, a parità di reddito il benessere soggettivo percepito dalle famiglie meridionali sia minore di quello dei nuclei residenti nel Centro-Nord. E nella stessa direzione vanno, d’altronde, i flussi di migrazione fra le aree del nostro paese, che, contrariamente a quando ci si dovrebbe attendere se dipendessero unicamente dalla differenza nei salari reali, in base ai dati dello SVIMEZ hanno registrato un flusso di migrazione netta dal Sud verso le altre aree di circa 715.000 unità nel periodo 2002-2015. Con ogni probabilità, quantomeno nel breve periodo, una riduzione dei salari nominali al Sud acuirebbe ulteriormente questi flussi.

Non appare, dunque, sufficiente limitarsi ai soli salari reali quando si tratta di equità, dato che il tenore di vita individuale potrebbe dipendere anche da una serie di altri fattori, meno misurabili ma non per questo meno rilevanti e la politica non dovrebbe limitarsi a fare valutazioni di equità sulla base unicamente delle dimensioni del benessere più facilmente misurabili.

Veniamo ora al secondo punto. Valutare le differenze fra aree correggendo i salari nominali in base ai differenziali nei prezzi significa trascurare eventuali differenze interne alle macro-aree che potrebbero, però, rivelarsi ben più ampie di quelle medie fra aree. In particolare, i prezzi delle abitazioni, su cui Boeri, Ichino, Moretti e Posch si basano per stimare i differenziali nei salari reali, possono presentare una varianza maggiore all’interno di ogni area che non tra aree. Dai dati dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare (OMI) dell’Agenzia delle Entrate – gli stessi utilizzati da Boeri, Ichino, Moretti e Posch – si evince non soltanto che di norma i prezzi di acquisto al metro quadro delle abitazioni sono in media maggiori nel Settentrione, ma anche, e con maggiore chiarezza, che i differenziali interni ad ogni area sono enormi. Per fare solo qualche esempio, i valori massimi in alcuni quartieri di centro e periferia – in euro al metro quadro, nel secondo semestre del 2015 – a Milano oscillano fra 9800 (Brera) e 2200 (Lambrate), a Torino fra 3100 (Castello) e 2000 (Mirafiori), a Roma fra 8400 (Aventino) e 2450 (Torre Maura), a Napoli fra 7700 (Posillipo) e 2150 (Secondigliano). Di fronte a differenze di questa ampiezza sembra appropriato chiedersi se per realizzare l’equità orizzontale non si dovrebbero differenziare (ove fosse possibile) i salari nominali in base al quartiere di residenza, con effetti, che, tuttavia, risulterebbero chiaramente regressivi. Peraltro, come abbiamo argomentato sul Menabò, guardare soltanto alle differenze “fra gruppi” lasciando da parte quelle, ben maggiori, “interne ai gruppi” non consente un’analisi completa delle disuguaglianze e dei loro meccanismi.

Quanto precede porta, dunque alla conclusione che la soluzione prospettata da Boeri, Ichino, Moretti e Posch – ovvero perseguire l’eguaglianza omogeneizzando i salari reali – non è priva di problemi sotto il profilo dell’equità e, dunque, prima di raccomandarla occorrerebbe misurarsi più a fondo con questi problemi e con la possibilità di dare loro una risposta migliore. Nella ricerca di tale risposta si dovrebbero considerare anche le questioni di efficienza con la quale l’equità potrebbe, peraltro, avere rapporti non armoniosi.

In modo un po’ approssimativo possiamo affermare che per l’efficienza, intesa come capacità di attrarre investimenti e occupazione, quello che conta, a parità di altre condizioni, è il costo del lavoro per unità di prodotto. Quest’ultimo, come è noto, dipende in maniera cruciale dalla produttività e non dal costo della vita dell’area in cui è situata l’impresa. Anzi, dal punto di vista teorico i concetti di produttività e costo della vita non sono legati – appare, anzi, bizzarro ritenere i prezzi delle case dipendenti solo da domanda di lavoro e produttività e non anche da fattori, legati a rendite, a bolle immobiliari o alla qualità delle case e delle aree in cui sono posizionate, che ben poco hanno a che fare con la produttività – e nulla osterebbe che in un’area più produttiva e a minor costo del lavoro i salari reali risultassero più elevati. Come indica la teoria dei salari di efficienza, la produttività potrebbe altresì risentire negativamente di una riduzione dei salari nominali. Dal punto di vista dell’efficienza bisogna quindi guardare alla differenza fra produttività e salario reale in ogni area, anziché alla mera differenza dei salari reali fra aree. Pertanto, il collegamento automatico del minor costo della vita nel Sud, a parità di salario, con l’inefficienza si basa sul’assunto che nel Mezzogiorno la produttività sia minore.

Tuttavia, come mostrato nella parte destra della Figura 2, ampi differenziali delle retribuzioni effettive persistono anche incorporando le caratteristiche delle imprese da cui maggiormente dipende la produttività e, dunque, i divari salariali osservati non appaiono attribuibili a meri differenziali di produttività.

Va anche ricordato che la produttività non dipende (se non marginalmente) dai lavoratori, ma dalle imprese che li occupano e dal contesto in cui esse operano. Ciò fa sorgere un ulteriore problema di equità – che si pone in apparente conflitto con l’efficienza – e cioè quello della penalizzazione dei lavoratori del Mezzogiorno, sotto il profilo salariale, per una circostanza sottratta alla loro responsabilità. Il tema fa riecheggiare questioni che sono state ampiamente dibattute diversi decenni fa quando si discuteva dell’opportunità di introdurre nel Mezzogiorno le cosiddette “gabbie salariali”. Oltre a ciò, se si esclude che la produttività al Sud è sistematicamente più bassa, l’auspicata omogeneizzazione del costo del lavoro potrebbe essere raggiunta anche aumentando i salari al Nord.

Le considerazioni che precedono hanno diverse implicazioni una delle quali, forse la più generale, è che occorre considerare altri elementi oltre quelli presi in esame da Boeri, Ichino, Moretti e Posch. Alcuni di questi elementi sembrano rendere il problema meno grave di quanto non appaia (la divergenza tra retribuzioni effettive e salari contrattati), altri possono spingere verso soluzioni più favorevoli all’equità e all’efficienza, diverse dalla deroga alla contrattazione nazionale. Ma proviamo a precisare.

Riferirsi all’eguaglianza dei salari reali, da un lato, e all’eguaglianza fra questi ultimi e la produttività, dall’altro, rischia di comportare una contraddizione che andrebbe sciolta in chiave di policy. L’equità richiede, infatti, che i salari reali (resi il più possibile rappresentativi dell’effettivo tenore di vita, eliminando i differenziali negli altri fattori da cui dipende il benessere) siano eguagliati e, come visto, Boeri, Ichino, Moretti e Posch sostengono che a tal fine andrebbero ridotti i salari nominali al Sud, il che comporta le problematicità richiamate in precedenza. L’efficienza richiede, invece, che ad essere almeno tendenzialmente eguagliato sia il rapporto tra salari e produttività nelle diverse aree; pertanto, se le produttività sono diverse i salari reali devono essere anche’essi diversi. Ciò pone un problema di compatibilità tra equità e efficienza che non può essere risolto agendo unicamente sui salari nominali. D’altro canto, se si tiene conto, da un lato, che il costo della vita non è necessariamente più basso al Sud né è uniformemente tale al suo interno e, dall’altro, che la produttività non è sistematicamente più bassa al Sud il rischio potrebbe essere che abbassando i salari nominali al Sud si vada verso una minore e non maggiore equità e che il costo del lavoro al sud si riduca al di sotto di quanto richiesto dall’efficienza.

La politica più adeguata verso l’equità e l’efficienza non sembra, dunque, indicare che le distanze fra Nord e Sud si possano semplicemente colmare mediante una riduzione dei salari nominali, per quanto grande possa essere l’elasticità ai salari della domanda di lavoro, di cui discute Patriarca in questo numero del Menabò. La strada maestra da seguire sembra allora essere un’altra: quella che consiste nell’adottare politiche che riducano la variabilità territoriale sia dei fattori dai quali dipendono il costo e la qualità della vita e dei servizi pubblici sia della produttività. Si tratta di una strada impervia e certamente più difficile da realizzare della deroga dai contratti nazionali del lavoro. Ma forse vale la pena di esaminarla più attentamente e di porla con maggiore forza all’attenzione dei policy maker.

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