La classe media e i suoi inafferrabili confini

Maurizio Franzini si occupa della classe media che secondo un recente Rapporto si sarebbe fortemente contratta nel nostro paese. Franzini dopo aver valutato l’attendibilità di questa conclusione, ricorda quanto sia difficile definire, anche soltanto in termini economici, la classe media e, quindi, esprimersi sulla sua evoluzione. Soprattutto, Franzini sostiene che per preoccuparsi del funzionamento dell’economia, della società e della democrazia non occorre attendere – come molti sembrano richiedere - la prova che la sfuggente classe media stia declinando.

Sui mezzi di comunicazione, qualche giorno fa, si potevano leggere titoli come questi: “Il ceto medio si assottiglia e arretra rispetto al passato”; “La fine del ceto medio non c’è stata”; “34 milioni di italiani difendono con orgoglio la propria appartenenza alla middle class”.

Da questi titoli di desume con certezza che il ceto medio (o la classe media, visto che i due termini, più o meno correttamente, sono di norma usati in modo intercambiabile) spiana la strada a un uso non proprio parco della retorica mentre non si desume nulla di certo sul suo stato di salute. In realtà, entrambe queste deduzioni potevano essere formulate senza attendere gli ultimi giorni perché a giustificarle basta e avanza quanto si dice e si scrive della classe media già da molto tempo.

Accertare lo stato di salute della classe media non è di certo poco rilevante se, come molti sostengono – e, di nuovo, da molto tempo – la sua “buona salute” (per ora non meglio specificata) è essenziale per un’economia in espansione, per una società mobile e coesa, per una democrazia ben funzionante. Insomma, per un mondo migliore. Con questo giudizio si può concordare ma il grado di accordo dipende molto dalla risposta che si dà a una domanda molto semplice: ma di cosa parliamo, quando parliamo di classe media? Quali sono i suoi confini? E poiché, naturalmente, rispondere a questa domanda è indispensabile anche per esprimersi sullo stato di salute della classe media non resta che mettersi alla ricerca dei suoi confini.

Anzitutto vi è ampio accordo che quello di classe media non è un concetto meramente economico e, dunque, i suoi confini non possono essere fissati sulla base soltanto del reddito (o, eventualmente, della ricchezza). Ma il riconoscimento di questa difficoltà non aiuta a rintracciare quei confini. Al contrario, sembra quasi impossibile stabilire quali tra le numerosissime combinazioni possibili delle varie dimensioni (oltre al reddito e alla ricchezza, lo status occupazionale e sociale, il capitale umano e culturale o, anche, secondo recenti tendenze, il capitale relazionale) ricadano dentro i confini della classe media e quali, invece, ne siano fuori. Sembrerebbe, come in altri casi analoghi, di essere di fronte a un concetto tanto importante quanto difficilmente afferrabile e perciò destinato a essere inteso in molti modi, non necessariamente congruenti tra loro. Il vantaggio (si fa per dire) è che ognuno potrebbe scegliere quello che più gradisce.

Forse anche per questo il reddito, con tutti i suoi limiti, continua a svolgere un ruolo importante per delimitare la classe media e gran parte del dibattito si svolge attorno a una concezione puramente economica della classe media. Ma questo non basta a evitare accezioni plurime e, dunque, la possibilità di giudizi diversi sullo stato di salute della classe media.

Secondo una prima definizione la classe media è composta da coloro che percepiscono un reddito che cade in un intervallo di variabile ampiezza costruito attorno al reddito mediano. Per molti – seguendo l’orientamento espresso oltre 30 anni fa da un acuto economista americano, Lester Thurow  – quell’intervallo è delimitato da valori del reddito che sono rispettivamente il 25% in meno e il 25% in più del reddito mediano. Quindi se il reddito mediano netto per una famiglia di due persone fosse di 24.000 euro, farebbero parte della classe media tutte le famiglie di due persone che hanno un reddito compreso tra 18.000 e 30.000 euro (e le scale di equivalenza ci direbbero dove collocare le famiglie di diversa composizione). E qui potrebbe “sorgere spontanea”, come di diceva una volta, una domanda: a che classe appartengono quelli che hanno un reddito di 31.000 euro? Ma per ora è bene non lasciarsi distrarre.

Questa delimitazione della classe media è quella che è stata utilizzata in un capitolo del recente Rapporto di Intesa San Paolo e del Centro Einaudi  che ha attratto l’interesse dei media e di cui i titoli riportati in apertura sono almeno in parte la conseguenza.

Di quel capitolo la frase più ripresa è la seguente: “circa 7 milioni di italiani – 3 milioni di famiglie – hanno perso durante la crisi del 2007-2014 l’ancoraggio economico che li legava alla classe media”. Questa affermazione lascia un po’ perplessi e non solo perché i confini della classe media sono fissati nel modo discutibile di cui si è detto. La ragione è che il dato dei 7 milioni sembra derivare dall’applicazione alla popolazione italiana della quota di classe media (come sopra definita) presente nel campione di circa 1000 individui intervistati per la redazione del Rapporto nei due anni considerati. Se fosse così si tratterebbe di una conclusione non proprio robusta che però è risuonata nell’arena mediatica con grande forza. Non è la prima volta e, verosimilmente, non sarà l’ultima.

Provo a chiarire meglio il punto: applicando lo stesso criterio ai dati contenuti nell’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia risulta che in un periodo non troppo diverso (quello che va dal 2006 al 2012) la classe media così definita avrebbe conosciuto un’espansione (ancorché limitata, passando dal 36,1 al 36,8% della popolazione), piuttosto che una contrazione piuttosto gigantesca come quella a cui fa riferimento il Rapporto. Questi dati sono già stati pubblicati sul Menabò in una scheda curata da Chiara Ricci , che presenta anche altri motivi di interesse.

Ma al di là di questo non secondario problema di significatività statistica vi è un’altra questione da affrontare: un intervallo di redditi relativamente ristretto come quello fin qui considerato contiene effettivamente tutta la classe media? E cosa cambierebbe se ampliassimo quell’intervallo, soprattutto verso l’alto, spostando il limite superiore, come alcuni suggeriscono, a 2 o 3 volte la mediana? Per intendere il senso di questo spostamento può essere utile qualche dato: nel 2009 il doppio del reddito mediano (netto) per una famiglia di due persone era pari a 48.000 euro all’anno. Se la classe media, come spesso si dice, gode di relativa agiatezza e sicurezza economica, forse sarà ragionevole includere nella classe media una famiglia di due persone con un reddito netto mensile di 4.000 euro. Ma nel caso non lo si trovi ragionevole occorrerebbe comunque rispondere al seguente quesito: che classe è quella di coloro che percepiscono simili redditi? E che rapporto ha questa classe con il buon funzionamento dell’economia, della società e della democrazia?

Spostare i limiti di reddito della classe media non è, almeno in Italia, ininfluente. La già citata scheda di Chiara Ricci prova che se il limite superiore è fissato in corrispondenza del doppio della mediana allora la classe media così definita, diversamente da quella con confini più ridotti, non si è espansa ma si è contratta. A risultati analoghi giungono Atkinson e Brandolini  ma con riferimento a un periodo di tempo precedente: in Italia, diversamente da molti altri paesi dove il risultato è comunque di contrazione, la classe media si contrae o si espande a seconda dei confini che ad essa vengono imposti. Dunque, seguendo questo criterio, la salute della classe media, anche se intesa in senso strettamente economico, dipende da una decisione che non può poggiare su criteri inattaccabili e che ha molto di convenzionale.

Le cose non cambiano granché se si fa riferimento a un altro criterio anch’esso frequentemente adottato per fissare i confini della classe media. Quello che abbiamo appena visto è un criterio che si muove nello spazio dei redditi (e la classe media si espande o si contrae in funzione della quota di popolazione compresa nell’intervallo prescelto) mentre il criterio che ora esaminiamo si colloca nello spazio delle persone: nella classe media rientrano tutto coloro che percepiscono un reddito che li colloca tra il 20% più ricco e il 20% più povero della popolazione. Di conseguenza per pronunciarsi sullo stato di salute della classe media occorre calcolare la quota di reddito che va a questo segmento “centrale” della popolazione.

Dai dati, anche da quelli presentati da Chiara Ricci nella sua scheda, risulta che, così misurata, la classe media non è molto cambiata e ciò deve aver generato una certa delusione in chi si aspettava che i dati confermassero la propria percezione di una crescente polarizzazione. Ma anche in questo caso ci sono motivi per non accontentarsi di questo criterio e dei risultati ai quali conduce.

Supponiamo che all’interno del 20% più “ricco” si verifichi una forte redistribuzione da coloro che percepiscono un reddito appena superiore alla soglia e coloro che, invece, sono al top. Una delimitazione appena un po’ diversa dei confini della classe media darebbe, quindi, esiti diversi sulla sua evoluzione. E, comunque, resterebbe la domanda: a che classe appartengono coloro che percepiscono i redditi più bassi all’interno del 20% più ricco? E che impatto ha lo “stato di salute” di questa classe sul buon funzionamento dell’economia, della società e della democrazia?

Peraltro, per superare alcuni degli arbitrii che caratterizzano le modalità di delimitazione della classe media finora ricordate, si può fare ricorso a tecniche di misurazione più raffinate, basate sugli indici di polarizzazione elaborati originariamente da Wolfson e Foster.  La principale caratteristica di questi indici è che calcolano come si distribuiscono i redditi attorno alla mediana e considerano molto polarizzata (o bi-polarizzata) una società nella quale sono limitati i redditi che si addensano attorno alla mediana. Naturalmente in una società con queste caratteristiche la classe media sarà poco estesa e viceversa. Ricci trova che tra il 2006 e il 2012 la polarizzazione è cresciuta (e la classe media si è ristretta) mentre Atkinson e Brandolini, con riferimento al ventennio precedente il 2004, non trovano tendenze alla crescente polarizzazione.

Senza approfondire ulteriormente il problema si può trarre una prima conclusione: fissare in modo non arbitrario i confini della classe media e misurarla senza ambiguità, anche soltanto in ambito strettamente economico, è un compito quasi impossibile.   Da ciò segue una domanda a mio parere cruciale: per preoccuparci del buon funzionamento dell’economia, della società e della democrazia dobbiamo attendere la prova inconfutabile che l’inafferrabile classe media è retrocessa, declinata o magari sparita? Non possiamo basarci su altri meno equivoci segnali?

Forse si. E uno di quei segnali potrebbe essere la tendenza della povertà a crescere o a non declinare. Tra il 2005 e il 2013 i poveri assoluti in Italia sono cresciuti di 3 milioni e 600 mila unità, raggiungendo la bella cifra di 6 milioni. Da dove provengano tutti questi poveri addizionali. Se non dalla classe media, da quale classe? Un’altra classe intermedia del cui impoverimento non dobbiamo preoccuparci?

Un altro segnale è la crescente concentrazione al top: anche in Italia il reddito appropriato dall’1% più ricco è cresciuto lentamente ma inesorabilmente, passando dal 6,9% del 1980 al 9,9% nell’anno immediatamente precedente lo scoppio della crisi. Di nuovo: la quota di reddito aggiuntiva di cui si è appropriato l’1% a chi è stata sottratta? Se non alla classe media, a chi?

Ma la domanda più importante e conclusiva è questa: perché la crescita (o anche soltanto la non decrescita) della povertà e l’aumento della concentrazione dei redditi al top non sono, separatamente ma soprattutto congiuntamente, segnali sufficienti di rischi crescenti per il buon funzionamento dell’economia, della società e della democrazia, accada quel che accada all’inafferrabile classe media?

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