La carbon tariff: un male necessario ma (sperabilmente) transitorio

Luca Salvatici ricorda che l’azione “Fit for 55” proposta di recente dalla Commissione Europea per ridurre le emissioni prevede anche una compensazione doganale (CBAM) su alcune importazioni ad alta intensità di carbonio. Salvatici, riconosce le motivazioni alla base della proposta, ma evidenzia le difficoltà pratiche e politiche relative alla sua applicazione e sostiene che sarebbe preferibile un accordo globale per internalizzare le esternalità ambientali derivanti dalle emissioni di carbonio.

La Commissione dell’Unione Europea (UE) ha recentemente proposto l’azione “Fit for 55” che mira a ridurre le emissioni del 55% entro il 2030. Il piano di mitigazione delle emissioni dell’UE, sebbene molto ambizioso, rimane un pacchetto di interventi unilaterale mentre la lotta al cambiamento richiede interventi su scala globale. La situazione negli altri paesi, però, è piuttosto sconfortante. Solamente il 20% delle emissioni globali è soggetta a una qualche forma di tassazione e in molti casi si concedono addirittura sussidi al consumo dei combustibili fossili. Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, i sussidi ai combustibili fossili sono stati pari a 467,7 miliardi di dollari nel 2019. Inoltre la maggior parte dei paesi ha una struttura tariffaria che favorisce le importazioni di beni a maggior intensità di emissioni e questo rischia di accelerare i tempi del cambiamento climatico attraverso un sussidio implicito che Joel Shapiro quantifica tra gli 85 e i 120 USD per tonnellata.

L’assenza di un’azione coordinata determina il prevalere di meccanismi di mercato distorsivi che possono ridurre, e al limite anche vanificare, gli sforzi attuati dai paesi più virtuosi. I molteplici legami economici e commerciali tra settori e paesi impediscono di perseguire politiche efficaci per evitare il cambiamento climatico limitandosi a ridurre le emissioni associate alle sole attività produttive senza considerare quelle associate con i consumi interni. Da un punto di vista dell’analisi economica, tali meccanismi sono ben sintetizzati nel dibattito sul carbon leakage (per una recente rassegna della letteratura si veda: qui) che da qualche anno accompagna la discussione politica sull’efficacia degli strumenti di mitigazione applicati nell’UE, primo fra tutti il meccanismo di scambio dei permessi ad inquinare, noto come Emissions Trading Scheme (ETS: https://ec.europa.eu/clima/policies/ets_en). In pratica, il costo di abbattimento necessario per rispettare una politica ambientale stringente conduce le imprese a una minore competitività sui mercati internazionali. Allo stesso tempo, la riduzione della domanda interna di beni energetici comporta una riduzione dei prezzi sul mercato mondiale, riduzione proporzionale alla grandezza del paese che realizza la politica ambientale. Se il paese rappresenta una quota rilevante del consumo energetico mondiale, come nel caso dell’UE, l’impatto sui prezzi può indurre gli altri paesi ad aumentare i propri consumi di fonti fossili, con un conseguente aumento delle emissioni mondiali.

Il Centro Rossi-Doria in una ricerca svolta per la Commissione UE ha quantificato se e in che misura una politica unilaterale da parte dell’UE che rispetti gli obiettivi di decarbonizzazione previsti dall’Accordo di Parigi, possa determinare come effetto collaterale negativo un generale aumento delle emissioni prodotte all’estero e, in particolare, un aumento delle emissioni contenute nei prodotti importati dall’UE stessa. Le simulazioni svolte indicano che il carbon leakage ridurrebbe l’impatto della politica dell’UE di quasi un terzo.

Nell’ambito dell’azione “Fit for 55” la Commissione Europea ha previsto l’introduzione di un dazio su alcune importazioni ad alta intensità di carbonio che, in quanto prodotte al di fuori dell’UE, non sono soggette all’ETS. L’obiettivo è eliminare l’incentivo per le aziende europee di rispondere all’aumento del prezzo del carbonio sul mercato comunitario, a seguito della progressiva riduzione dei diritti di emissione disponibili, spostando la produzione in parti del mondo dove possono inquinare senza penalità, rispondendo alla concorrenza delle imprese locali che sarebbero invece incentivate ad adottare tecnologie meno inquinanti per vendere nei mercati dell’UE.

Il nuovo piano dell’UE si applica solo a determinati settori, come cemento e fertilizzanti, che attualmente sono protetti tramite la concessione permessi di emissione gratuiti. La proposta della Commissione elimina gradualmente queste deroghe all’ETS sostituendole con un meccanismo di compensazione doganale (Carbon Border Adjustment Mechanism – CBAM). Tra il 2025 e il 2035, quindi, i produttori di alluminio, cemento, fertilizzanti e acciaio perderanno gradualmente gli attuali privilegi ma le imprese straniere produttrici di questi beni dovranno acquistare i permessi di emissione sulla base della quantità di carbonio che si stima sia stata emessa durante la produzione delle merci esportate.

Si tratterà a tutti gli effetti di un dazio ma la finalità non sarebbe protezionistica bensì di tutela della concorrenza in quanto compenserebbe il fatto che le imprese straniere potrebbero non aver dovuto pagare una tassa sul carbonio o aver comunque pagato una tassa inferiore a quella europea. Le perplessità che riguardano la proposta non riguardano quindi le motivazioni che ne sono alla base bensì le difficoltà pratiche e politiche che caratterizzeranno la sua applicazione. Dal punto di vista della compatibilità con le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), la proposta UE rispetta il principio del trattamento nazionale nella misura in cui il costo fronteggiato dai produttori esteri è analogo a quello sostenuto dalle imprese comunitarie e il dazio è giustificabile come strumento di politica ambientale se mantiene un legame di proporzionalità con l’intensità delle emissioni. Tutto ciò, però, porterà a dazi differenziati a seconda dell’esportatore e i paesi più povero potrebbero risultare sfavoriti a causa di tecnologie produttive meno ‘pulite’ o per la mancanza di politiche ambientali efficaci. Australia e India hanno già criticato la proposta per i suoi effetti discriminatori e regressivi mentre gli Stati Uniti (USA) affermano di poter adottare un meccanismo analogo… anche se per il momento a livello federale non esiste negli USA un prezzo del carbonio a cui ancorare un sistema di prelievi doganali.

Dal punto di vista dell’applicazione, occorrerà accertare quanto carbonio è stato emesso nella produzione di un bene importato e fino a che punto l’esportatore ha già tassato tali emissioni. In pratica tale informazione potrebbe non essere (facilmente) disponibile e in tal caso si ipotizzerà che le emissioni siano pari a quelle delle imprese europee con la peggior performance ambientale. Più in generale, in un mondo caratterizzato da catene globali del valore (GVC) una tassa proporzionale alle emissioni che hanno luogo nell’ultima fase della catena produttiva rischia di essere parziale anche disponendo di tutte le informazioni necessarie. Una simile tariffa, infatti, risulterebbe proporzionale al contenuto di emissioni del bene importato ma colpirebbe solamente l’ultimo anello della catena produttiva senza incidere sulle fasi più a monte.

L’inclusione delle GVC nella valutazione degli impatti ambientali evidenzia che non è possibile analizzare l’impatto del commercio internazionale sul cambiamento climatico sulla base dei soli scambi bilaterali, e consente di andare oltre la tradizionale dicotomia produttori-consumatori nella definizione degli obiettivi per la riduzione delle emissioni: gli esportatori, infatti, non sono responsabili di tutte le emissioni associate all’attività di produzione in quanto utilizzano beni intermedi prodotti nelle fasi a monte della catena produttiva. Lo studio del Centro Rossi-Doria precedentemente citato quantifica le emissioni contenute nei flussi di commercio attribuendole a ciascun paese sulla base del ruolo svolto nelle catene globali del valore e i risultati evidenziano che le emissioni ‘indirette’, ovvero quelle dei paesi fornitori di beni intermedi non direttamente coinvolti negli scambi, hanno un peso significativo.

Infine, va sottolineato che l’obiettivo ultimo di qualsiasi meccanismo di compensazione doganale dovrebbe essere quello di passare dalla tassazione della produzione alla tassazione del consumo. In analogia con quanto avviene nel caso delle imposte sul valore aggiunto, le emissioni dovrebbero essere tassate nel paese di destinazione attraverso due componenti: una relativa alle importazioni, per assicurare che i prezzi dei prodotti sul mercato nazionale siano coerenti con il rispettivo contenuto di emissioni; l’altra relativa alle esportazioni, per assicurare che i produttori nazionali non siano svantaggiati sui mercati esteri. Un’applicazione parziale, ad esempio limitata alla sola tassazione delle importazioni, avrebbe effetti distorsivi sui flussi commerciali e potrebbe risultare insufficiente in quanto rimarrebbe esclusa la componente di carbon leakage relativa ai mercati extra-UE, pari all’incirca al 40% dell’aumento complessivo delle emissioni. D’altra parte, l’introduzione di un meccanismo di compensazione delle esportazioni aumenterebbe ulteriormente i dubbi sulla legittimità di queste politiche nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e il rischio di ritorsioni.

La prevenzione del cambiamento climatico è un bene pubblico globale, e ciò significa che i cittadini di ogni paese hanno un interesse diretto a ridurre le emissioni ovunque si verifichino. Il Centro Rossi-Doria sta predisponendo una proposta nell’ambito dell’UN HIGH-LEVEL DIALOGUE ON ENERGY 2021 per la 26a Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (COP26) che si terrà a Glasgow il prossimo novembre. In tale proposta si evidenzia che se i prezzi del carbonio fossero globali, i costi per adempiere all’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici potrebbero diminuire significativamente consentendo la creazione di un fondo globale che potrebbe essere utilizzato per ottenere il necessario consenso attraverso il finanziamento di investimenti per l’energia pulita nei Paesi più poveri.

Nonostante vi siano valide ragioni per istituire un CBAM occorre ricordare che si tratta, nella migliore delle ipotesi, di una soluzione di second best. La cautela con cui la Commissione ha avanzato la proposta, il numero limitato di settori inizialmente coinvolti, l’applicazione graduale con un affinamento progressivo delle modalità di calcolo indicano che l’obiettivo principale non è quello di generare entrate significative per il bilancio comunitario. Piuttosto ci si propone di ‘spingere’ i paesi esportatori meno virtuosi (dal punto di vista ambientale) siano spinti ad adottare politiche per l’internalizzazione delle esternalità negative legate al carbonio in modo da ridurre/eliminare i ricavi tariffari dei paesi importatori (più) virtuosi: la recente decisione cinese di creare un mercato per le emissioni può essere considerato un passo in questa direzione (China launches world’s largest carbon market: but is it ambitious enough? (nature.com). Un mercato mondiale del carbonio è probabilmente un obiettivo irrealizzabile, almeno nell’immediato, ma l’accordo di un piccolo numero di paesi per un prezzo del carbonio ‘minimo’ sarebbe sufficiente a far sì che la maggior parte delle emissioni non possano sfuggire a una qualche forma di tassazione rendendo il CBAM in larga misura superfluo: per dimostrarsi efficace il CBAM dovrà eliminare i motivi che hanno portato alla sua istituzione.

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