La buona battaglia. Luciano Barca, la politica economica e il mercato

Luciano Barca si iscrisse al PCI alla fine della seconda guerra mondiale, sostenuto dall’entusiasmo per la costruzione del partito nuovo proposta da Togliatti e per la ricerca di una via italiana al socialismo. Così fecero anche molti altri giovani militanti diversi, però, come sostiene Giorgio Rodano per la loro concezione del comunismo. Quella di Barca era poco ideologica e caratterizzata dall’impegno a costruire una società ‘diversa’. Rodano documenta questo impegno ricordando che negli oltre 40 anni di lavoro per il partito Barca ha dato un contributo importantissimo a svecchiare il vecchio approccio marxista-leninista di ispirazione sovietica ai problemi dell’economia e della politica economica, affrontando questioni e con una prospettiva “dal lato della domanda” che sono oggi sul tavolo delle scelte da compiere.

Nell’autunno del 1944 un poeta italiano, Umberto Saba, scrisse una breve poesia su Firenze appena liberata dai partigiani (“… un giorno / di settembre, che a tratti / rombava ancora il cannone …”). Subito dopo la liberazione, mentre la città era ancora attonita e, come scrive Saba nell’ultimo verso, “taceva, assorta nelle sue rovine”, il partito comunista organizza una manifestazione in un piccolo teatro della periferia. La poesia descrive con commossa partecipazione questo evento. E in questo senso appare, ed è (come avrebbe in seguito rivendicato lo stesso Saba commentandola) “una poesia volutamente comunista”, come del resto è annunciato a chiare lettere fin dai versi di apertura: “Falce martello e la stella d’Italia / ornano nuovi la sala”. Un amico di Saba, il pittore e scrittore Carlo Levi, gli fece notare che quel verso conteneva un errore: la stella era quella dei Soviet. Saba ci rimase male (ma non cambiò il verso). Poi però, qualche anno dopo e con grande soddisfazione di Saba, Togliatti fece inserire nel simbolo del PCI proprio la stella d’Italia, correggendo a posteriori l’errore iniziale della poesia.

In uno scritto che parla di Luciano Barca, delle sue idee sulla politica economica, sulla tensione dialettica o, se si preferisce, sull’interazione problematica tra Stato e mercato, qual è il senso di questo preambolo? Il senso è che Barca, negli ultimi anni della guerra, era un giovane che si stava accostando al comunismo. Nel dicembre del 1945, dopo lo scioglimento del partito della sinistra cristiana, nel quale militava, si sarebbe iscritto al PCI, all’interno del quale avrebbe continuato a lavorare per oltre quarant’anni fino al suo scioglimento; dapprima come militante di base e poi in posizioni di crescente responsabilità fino a diventare e restare a lungo un membro importante del suo gruppo dirigente.

Il punto che intendo sottolineare – e qui ritrovo il nesso con la poesia di Saba – è che alla fine della guerra nel partito comunista erano confluiti e coesistevano due tipi di militanti assai diversi tra loro, che si erano incontrati e amalgamati nella guerra di liberazione ma che conservavano del comunismo due concezioni parecchio differenti. Entrambi i tipi sono presenti nella poesia di Saba, e nella manifestazione nel teatro. Da un lato abbiamo i militanti che avevano vissuto sulla propria pelle il ventennio fascista, ma avevano tenuto duro tra mille difficoltà; che erano appunto, come dice il poeta, “venut[i] qui da spaventosi esigli”. Esilio all’estero, per lo più in Francia o nell’Unione Sovietica, la patria del più importante e influente partito comunista. Ma anche, e soprattutto, esilio in patria: in clandestinità, in prigione, al confino. Molti di loro (non tutti, ma la stragrande maggioranza) avevano un punto di riferimento chiaro, l’Unione Sovietica, il paese del socialismo realizzato e il popolo da cui era venuto un contributo decisivo per vincere la guerra; e credevano con convinzione in un’ideologia altrettanto chiara, quella che veniva espressa dall’URSS, ossia appunto il marxismo-leninismo. Accanto a questi militanti ve ne erano molti altri che del comunismo avevano un’idea assai più semplice e meno ideologica. Riprendendo anche in questo caso un verso della poesia di Saba, era “… l’idea / che gli animi affratella …”. Un’idea semplice, forse rozza, ma che esprimeva la tensione verso l’impegno a costruire una società diversa in cui appunto, per citare il verso di un altro poeta (Brecht), “all’uomo sia un aiuto l’uomo”. Questi due tipi di militanti – in parte, ma solo in parte, espressioni di generazioni diverse – si erano incontrati e avevano combattuto assieme nella Resistenza e nella guerra di liberazione. Quando la guerra finì e l’Italia fu liberata, era naturale che entrambi confluissero nel partito che più prometteva di portare avanti le loro speranze.

Come sa chi dispone di qualche nozione elementare di chimica, un amalgama non è un composto. È l’unione di elementi diversi (e che restano tali), tenuti assieme da un’azione esterna, ma che tende a decomporsi negli elementi originari se quell’azione viene meno. Il compito di tenere assieme l’amalgama costituito dai due tipi di comunisti che si erano incontrati per combattere (e vincere) la guerra di liberazione, e possibilmente di farlo evolvere in qualcosa di più solidamente unitario, venne assunto da Palmiro Togliatti. Il suo prestigio e la sua capacità politica ebbero successo: sotto la sua guida il partito comunista si consolidò e divenne uno dei protagonisti della storia italiana degli anni del dopoguerra. Naturalmente la maggioranza del gruppo dirigente che affiancava Togliatti era costituita da soggetti che avevano guidato il movimento dei partigiani e che si erano formati negli anni della clandestinità e dell’esilio. Dunque, in prevalenza soggetti del primo tipo di militanti comunisti, quelli che avevano nell’Unione Sovietica il proprio punto di riferimento e il proprio modello. Passati gli anni fecondi della Costituente, cacciati i comunisti dal governo con l’avvento della guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi contrapposti, era inevitabile un certo riflusso dei comunisti verso l’allineamento all’URSS. Ma nonostante queste difficoltà, Togliatti riuscì a tenere la rotta del partito lungo un percorso che prefigurava, dapprima timidamente (e senza rinnegare la fedeltà all’Unione Sovietica) e col passare degli anni in modo sempre più chiaro, la possibilità di perseguire una via originale, italiana, alla costruzione di una società socialista, consentendo così uno spazio importante, e via via crescente, anche ai comunisti del secondo tipo, tra i quali, appunto, andava annoverato a pieno titolo Luciano Barca.

La collaborazione di Barca col PCI inizia nel gennaio del 1946, quando viene chiamato (da Ingrao) per sostituire provvisoriamente un redattore del quotidiano l’Unità rimasto ferito. Pochi mesi dopo, quell’incarico si consolida: Barca viene nominato redattore economico (su suggerimento di Togliatti), perché, a quanto pare, era l’unico in redazione a saper scrivere un articolo sulla riforma del catasto. Da allora, per quasi quarant’anni, Barca ha continuato a lavorare con responsabilità crescenti, prima al giornale e poi al partito, come esperto delle questioni economiche e responsabile dei temi di politica economica. Tuttavia, soprattutto nei primi anni cinquanta del secolo scorso, le sue idee e i suoi suggerimenti restavano largamente minoritari.

Questo perché, come si è detto, la quasi totalità del gruppo dirigente del PCI negli anni quaranta e cinquanta era costituita da quelli che ho chiamato “comunisti del primo tipo” e perché il clima politico di quegli anni spingeva quel gruppo dirigente a far proprio, anche in tema di economia, il modello dell’Unione Sovietica. Questo modello, però, restava inevitabilmente sullo sfondo. Le proposte e le iniziative di politica economica a breve e medio termine si muovevano su un terreno diverso. Qui è utile distinguere gli anni in cui i comunisti parteciparono al governo da quelli successivi.

Nel primo periodo i temi economici erano subordinati all’obiettivo primario di costruire e consolidare la democrazia. Come disse Togliatti (aprile 1944) “Oggi non si pone agli operai italiani il problema di fare ciò che è stato fatto in Russia”, ma appunto si tratta di lavorare per realizzare in Italia un regime democratico e progressivo. In questo quadro la politica economica deve porsi l’obiettivo – è sempre Togliatti che parla – di “una rapida ripresa economica” capace di includere le “masse operaie e contadine e sopprimendo tutte le forme di parassitismo economico e sociale” (un tema, quest’ultimo – con linguaggio più moderno si sarebbe chiamato di lotta alle rendite – che è sempre stato al centro delle riflessioni di Luciano Barca).

Dopo il 1948 (e fino almeno al 1955), con la rottura della grande alleanza antifascista e l’avvento della guerra fredda, le posizioni del PCI tendono nuovamente ad allinearsi a quelle degli altri partiti comunisti, e perciò dell’Unione Sovietica. Sicché viene messa la sordina ai temi che avevano caratterizzato la peculiarità dei comunisti italiani nel periodo precedente, ossia “il rapporto tra democrazia e socialismo, la rivoluzione come processo, aperto in Italia dalla guerra di liberazione, la non necessaria identificazione del socialismo col modello sovietico” (Barca 1975). Anche gli obiettivi delle politiche economiche di breve e medio periodo si fanno più difensivi. Il tema dominante diventa quello della lotta alla disoccupazione, imperniato sul Piano del Lavoro lanciato dalla CGIL.

Gli anni cinquanta sono quelli della lunga marcia di Luciano Barca all’interno del PCI, dapprima a l’Unità” torinese e successivamente, tornato a Roma, nella commissione culturale del PCI e poi alla direzione della rivista Politica ed Economia.  Soprattutto nella seconda metà di questo periodo, quando le posizioni più ortodosse e filosovietiche vengono via via ridimensionate, Barca riesce a ottenere risultati sia nel far penetrare i temi dell’economia nella riflessione culturale del partito, sia – compito ancora più difficile – nel liberare l’approccio all’economia e alla politica economica dai vecchi e sempre più inadeguati schemi del marxismo-leninismo e dalla connessa identificazione (“deleteria e bloccante” nelle parole di Barca) tra capitalismo e mercato, un punto da lui sottolineato fin dagli anni quaranta. Particolarmente emblematico è il dibattito organizzato nel 1958 da Politica ed Economia sul capitalismo di stato (ossia in sostanza sulle imprese pubbliche e sulle partecipazioni statali) che vede la contrapposizione tra Barca (e Franco Rodano), i quali sostengono la tesi “che le imprese a partecipazione statale debbano essere gestite con criteri di economicità”, e i custodi dell’ortodossia (guidati da Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola) che sostengono la tesi opposta, anche se avvertono il pericolo “che le istituzioni dell’intervento pubblico diventino sempre più strumenti di regime”. La contrapposizione continuerà a lungo ma si concluderà dopo qualche anno con l’accettazione delle idee di Barca.

Tuttavia il rapporto del PCI col mercato continuerà a restare problematico anche negli anni successivi. Per la maggioranza dei suoi dirigenti esso continuerà a essere visto come un oggetto misterioso, qualcosa con cui era inevitabile coesistere, visto che farne a meno era impossibile, come mostravano sempre più chiaramente i fallimenti della pianificazione sovietica. Ma gli elementi di socialismo continuavano a essere cercati lontano dal mercato e contro il mercato: i tentativi di programmazione; il salario come variabile indipendente (all’inizio degli anni settanta); il punto unico di scala mobile (nella seconda metà di quel decennio); le “riforme di struttura” (una sorta di pianificazione minimale ed edulcorata).

Continuava a sfuggire l’idea per la quale Luciano Barca ha continuato sempre a battersi; quella che il mercato poteva essere a un tempo il grande avversario e il grande alleato lungo il faticoso processo di costruzione di un’economia e una società più giuste, più inclusive e più efficienti. Ricorrendo a una semplice metafora (che non era di Barca ma avrebbe potuto esserlo), il mercato è un po’ come un cavallo selvaggio: se non viene domato e guidato ci trascina dove vuole lui; ma se riusciamo ad addestrarlo può diventare uno strumento formidabile per conquistare il mondo (i popoli che per primi sono riusciti a domare i cavalli, agli albori della storia, hanno costruito degli imperi). Per poter indurre il mercato a lavorare per i nostri desideri, dobbiamo innanzitutto comprenderne i meccanismi, le sue grandi capacità e i suoi grandi difetti, i suoi successi e i suoi fallimenti. Solo disponendo di questo sapere possiamo intervenire non contro il mercato ma per fare in modo che ci conduca dove vogliamo andare. Chi ha studiato il mercato sa che gli strumenti per intervenire ci sono (o comunque possono essere realizzati e messi a punto): da un lato le regole e dall’altro la domanda, sia quella pubblica sia quella che può provenire dal mercato stesso, soprattutto se incorporata in soggetti dotati di adeguate risorse e adeguate capacità (in passato li abbiamo chiamati “consumatori collettivi”).

 A differenza della maggioranza dei dirigenti del PCI, divisi tra coloro (sempre meno) che continuavano a lottare contro il mercato e coloro (sempre di più) che tendevano a rassegnarsi e a subirlo, Barca ha sempre cercato di trovare i modi per domare il cavallo selvaggio. Lo ha fatto, con qualche successo e molte delusioni, nei lunghi anni in cui ha lavorato a stretto contatto con Enrico Berlinguer. Ha continuato a farlo anche dopo, sia pure da posizioni sempre meno influenti. Secondo me, la sua esperienza ha ancora qualcosa, molto, da insegnarci. Nella sua lunga vita Luciano Barca ha combattuto una buona battaglia, che merita ancora oggi di essere ripresa e portata avanti. Vale anche per lui la frase in latino scritta sulla lapide del piccolo cimitero di campagna dove da tanti anni riposa mio padre: “bonum certamen certavi, et caro mea requiescit in spe”.

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