La Brexit: il più grave sintomo nazionalista della crisi della libertà di circolazione delle persone nell’UE

Francesco Bilancia torna sulla campagna referendaria sulla Brexit e sostiene che un suo aspetto distintivo è stata l’aggressione dei diritti sociali dei cittadini europei, non nazionali ma legittimamente residenti nel Regno Unito, che si colloca nella tendenza, in atto da tempo, a trasformare la disciplina dei diritti alle prestazioni sociali dei cittadini europei residenti in Paesi membri diversi dal proprio. Bilancia ritiene anche che la crisi della libertà di circolazione dei lavoratori è una delle principali cause della perdita di legittimazione dell’Unione europea.

1. Gli argomenti polemici e strumentali utilizzati durante la campagna referendaria svoltasi nel Regno Unito per il voto del giugno 2016 sulla Brexit hanno fatto da riflettori sulle importanti trasformazioni da tempo in atto nella disciplina dei diritti alle prestazioni sociali dei cittadini europei residenti in Paesi membri diversi dal proprio, nel diritto dell’UE, nella giurisprudenza della Corte di giustizia e negli ordinamenti di molti Stati membri. Mi riferisco ai cedimenti dei livelli di tutele sociali connessi con l’esercizio della libertà di circolazione dei lavoratori in Europa, inquadrabili in un più ampio contesto di rinnovate tendenze protezionistiche, nel mondo di recente addirittura aggravate dai primi atti della nuova amministrazione Trump. L’attuale crisi di legittimazione del processo di integrazione europea passa oggi, infatti, anche dall’aver messo in discussione i diritti di libera circolazione quale originario fondamento per la costruzione di una più forte nozione di cittadinanza europea.

L’imprevisto risultato del referendum britannico del 23 giugno scorso ha generato una crisi costituzionale tra le più gravi a far data dal 1688, mettendo in discussione lo stesso cardine del sistema costituzionale britannico, il principio della Sovereignty of Parliament. Una crisi della stessa democrazia rappresentativa, insieme alla già denunciata crisi di legittimazione dell’Unione europea. Ma quel che intendiamo analizzare in queste brevi note è soltanto un aspetto di questo drammatico processo. La centralità assunta dal tema dell’immigrazione nella campagna referendaria sulla Brexit illumina, infatti, il più grave cedimento del sistema di protezione dei diritti sociali all’interno dei singoli Stati membri nel contesto del mercato unico. L’esercizio della libertà di circolazione dei lavoratori europei ha concorso, infatti, a generare forti pressioni sui livelli di prestazione sociale e sui relativi costi in capo ai bilanci dei singoli Stati membri, producendo di riflesso reazioni di contenimento e chiusura nei confronti, soprattutto, dei cittadini c.d. “neocomunitari”.

Già nei mesi antecedenti la celebrazione del referendum la campagna politico-mediatica nel Regno Unito aveva sovraesposto il tema dell’immigrazione “interna”, che insieme all’esercizio della libertà di circolazione e stabilimento dei cittadini e dei lavoratori, e dei loro diritti connessi allo status di cittadinanza europea sono stati, in sostanza, al centro del dibattito pubblico per diversi mesi. La campagna aggrediva, infatti, i diritti sociali dei cittadini europei, non nazionali ma legittimamente residenti nel Regno Unito, insieme ai diritti dei lavoratori, denunciandone l’eccessivo costo a carico dell’amministrazione pubblica.

Che si tratti di un tema all’attenzione negli sviluppi dell’ordinamento dell’Unione europea è cosa, del resto, nota da tempo. Le tensioni in merito ai diritti sociali dei cittadini europei residenti in altri Paesi dell’Unione diversi dal proprio, avendo generato infatti una disciplina più restrittiva ad opera dello stesso diritto dell’UE (a partire dalla direttiva del Parlamento e del Consiglio 2004/38/EC del 29 aprile 2004) e determinando a cascata significativi interventi da parte della stessa Corte di Giustizia dell’UE.

I tagli alle prestazioni sociali dei cittadini che diversi Stati membri sono stati costretti ad assumere per ragioni di sostenibilità dei propri bilanci a far data dalla crisi economica del 2008, hanno infatti generato gravi tensioni per la strumentalizzata competizione nella loro richiesta da parte degli stranieri aventi diritto alle medesime prestazioni. Stranieri, ma pur sempre cittadini europei. Le istanze pretensive di questi ultimi potendo comportare un implemento dei costi di tali prestazioni a carico delle amministrazioni statali. Così determinando conflitti animati da attitudini nazionalistiche quando alla riduzione della spesa sociale ad opera della legislazione statale al fine di fronteggiare la crisi, con effetti gravanti su tutti i cittadini, abbiano potuto far da contraltare decisioni giudiziarie, anche di giudici nazionali, di riconoscimento di diritti a tali prestazioni magari a vantaggio di cittadini stranieri, perché europei legittimamente residenti.

Così, ad esempio, ha generato un acceso dibattito, significativamente rianimatosi proprio in occasione della campagna referendaria nel Regno Unito, il sistema di condizionalità introdotto ad opera delle Housing Benefit (Amendment) Regulations del 2012 (Statutory Instrument n. 3040 del 3 dicembre 2012 in tema di Social Security) che ha sottoposto a riduzioni quantitative percentuali gli assegni erogati agli assistiti, in proporzione al numero di vani “in sovrannumero” rispetto alle stime dei bisogni familiari, delle abitazioni dei beneficiari di prestazioni assistenziali. Attraverso una stima del potenziale reddito nell’ipotesi di affitto di tali vani, infatti, il provvedimento ha assunto tale situazione di fatto come concorrente alla determinazione dei livelli reddituali limitativi – o addirittura ostativi – delle prestazioni sociali reclamate. A fronte di queste significative riduzioni dei livelli di prestazione sociale, generatrici di un ricco ed articolato contenzioso giudiziario in relazione all’utilizzo degli spazi abitativi, considerati “ulteriori” rispetto al numero dei residenti nella casa, effettuato dai titolari dell’immobile, il riconoscimento all’opposto della garanzia di analoghe prestazioni a vantaggio di cittadini europei non nazionali bisognosi, ha spesso purtroppo concorso a generare un clima di risentimento ed ostilità, facilmente strumentalizzabile in sede di campagna referendaria a favore dell’uscita del Regno Unito dall’UE (leave). La classica rivisitazione dei luoghi polemici tipici della c.d. “guerra tra poveri”, alimentata dalla presunta competizione tra cittadini e stranieri nel concorso per la fruizione delle prestazioni sociali.

2. Quale ulteriore effetto della crisi di tenuta delle ragioni fondative dell’Unione europea, portando ad emersione una nuova questione polemica si ricorda, da un lato il caso di persone che si ingegnano nello strumentalizzare le occasioni offerte dal diritto di libera circolazione sul territorio comune europeo in cerca dei benefici delle prestazioni sociali nei sistemi più generosi o più agevolmente aggirabili (si pensi alle ipotesi dei falsi matrimoni a fini di ricongiungimento familiare); dall’altro lato, l’implementazione di politiche pubbliche e meccanismi istituzionali finalizzati ad evitarlo, con il forte rischio di discriminazioni in base alla nazionalità.

Appare così molto significativa, ad esempio, la giurisprudenza relativa alla citata direttiva 2004/38/EC nei casi dei cd. lavoratori economicamente inattivi, come i disoccupati al termine dei periodi di efficacia delle misure di sostegno al reddito e quindi divenuti bisognosi di prestazioni di assistenza sociale; i pensionati al minimo economicamente non autosufficienti; i nuclei familiari privi di copertura assicurativa sanitaria; etc. Gli Stati membri cominciano sempre più di frequente a vedersi riconosciuta dall’UE la facoltà di negare il diritto di residenza a cittadini europei di altri Stati membri, privi di risorse economiche sufficienti, tali da assicurare che per loro e le loro famiglie non si determinino le condizioni per la pretesa erogazione di prestazioni assistenziali, sanitarie, scolastiche o altre agevolazioni tariffarie per la fruizione di servizi pubblici che finiscano con il gravare sui sistemi di welfare del Paese ospitante. Tutti sintomi di un mutato clima generale in riferimento alle modalità di esercizio della libertà di circolazione delle persone.

I prodromi dell’imminente negoziato tra il governo del Regno Unito e l’Unione europea sulle modalità di attuazione della decisione di questo Paese di abbandonare l’UE, confermano quanto fin qui osservato a proposito della rilevanza della questione “immigrazione” nel processo politico sottostante. Questione riferibile, in particolare, ai cittadini stessi dell’Unione, titolari della libertà di circolazione in quanto lavoratori.

Questione divenuta centrale come emerge fin dalla lettera del 10 novembre 2015, inviata dall’allora premier David Cameron al Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Tra le quattro aree tematiche concernenti le principali cause di preoccupazione “of the British people over (UK) membership of the European Union”: governance economica, competitività, sovranità e, appunto, immigrazione, il Primo ministro britannico parlava, in effetti, espressamente della necessità di prendere in considerazione la forte pressione ormai da tempo esercitata dalle conseguenze della libertà di circolazione su scuole, ospedali e altri servizi pubblici, rendendo necessario assumere un più rigoroso controllo sugli arrivi di cittadini europei dal di fuori del Regno Unito.

Da questi elementi problematici il premier britannico deduceva, quindi, gli impegni da far assumere alle istituzioni comuni ed agli Stati membri in sede europea, per perseguire gli obiettivi che soli avrebbero, a suo dire, potuto scongiurare il rischio di un voto referendario contrario alla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea.

Allo scopo di ridurre il flusso di migranti intracomunitari si rappresenta(va) come necessario abbattere notevolmente la forza di attrazione esercitata nei confronti dei cittadini europei extra-UK dal sistema di welfare del Regno Unito, rivedendo profondamente la disciplina dell’UE per il riconoscimento e la garanzia dei diritti sociali dei cittadini UE non nazionali. “…to keep Britain inside a reformed European Union” tra le richieste che il governo del Regno Unito riteneva di dover avanzare nei confronti degli altri partner europei e delle istituzioni dell’Unione indicava, tra i punti più qualificanti, proprio la necessità di escludere i lavoratori europei non cittadini dal sistema di welfare comunque per un numero minimo di anni dall’inizio della loro residenza nel Regno Unito.

Obiettivi politici guarda caso presenti oggi nella retorica antieuropeista dall’attuale primo Ministro, Theresa May. Il nuovo governo britannico è infatti subito tornato a ribadire la centralità di un programma di riduzione della presenza di lavoratori cittadini europei immigrati sul territorio del Regno Unito proprio al fine di contenere i costi delle prestazioni sociali eventualmente connesse alla loro presenza. Per tornare nuovamente sulla questione della libertà di circolazione come causa scatenante del problema, in quanto foriera di un saldo netto positivo di cittadini europei, ma extra-UK, sul territorio del Regno Unito, e dei conseguenti eccessivi costi sul sistema di protezione sociale (si veda infatti il documento ufficiale redatto dall’European Union Committee della House of Lords, Brexit:UK-EU movement of people, HL Paper 121, 6 marzo 2017).

3. E così torniamo al punto di partenza, vale a dire alla crisi della libertà di circolazione dei lavoratori come una delle principali cause della perdita di legittimazione dell’Unione europea e del processo di integrazione politico-sociale tra gli Stati membri, di fatto mai seriamente incardinato tra i pilastri del processo di integrazione. Purtroppo è molto attuale il rischio che altri Stati membri intraprendano analoghi percorsi di rottura. Assai concreta la possibilità che le quattro libertà di circolazione tornino ad essere assunte quali meri elementi di costruzione del mercato, determinando il riassorbimento della libera circolazione delle persone tra gli strumenti di realizzazione dell’ordine materiale del mercato, non più (mai ancora) quale sistema di diritti individuali. Trattando le persone come se fossero merci, servizi o capitali, come se fossero cose.

Una deriva in atto – è soltanto di ieri la ventata di notizie provenienti dagli Stati Uniti in riferimento ai primi atti discriminatori del Governo Trump, appena insediatosi, in tema di esuli e rifugiati – che sembra approfittarsi dei sentimenti popolari più diffusi, mossi dalle conseguenze emotive prodotte dalle reazioni provocate dall’accentuarsi dei fenomeni migratori e dall’aggravarsi degli effetti della crisi economica sulla vita quotidiana dei cittadini. Una deriva deliberatamente cercata, anche al costo di considerare polemicamente la giurisprudenza a tutela dei diritti fondamentali come un’indebita interferenza dell’ordine giudiziario nel legittimo esercizio delle proprie funzioni democratiche ad opera delle istituzioni rappresentative. A far data dalla scorsa estate, ad esempio, assistiamo a continui violenti attacchi di parte della stampa inglese nei confronti dell’ordine giudiziario per via delle decisioni assunte in tema di Brexit, ivi compresi i giudici della Supreme Court, individualmente additati al pubblico ludibrio come “nemici del popolo” e della democrazia. Per denunciare un “governo dei giudici non eletti dal popolo”.

Riportandoci, in sintesi, al sempre più diffuso sentimento di ostilità verso gli stranieri-cittadini europei. Un quadro problematico divisivo lungo l’asse delle diseguaglianze tra cittadino e straniero, anche se cittadino europeo; in una parola e di nuovo la questione “immigrazione”. Questione che riporta in auge l’idea di una lotta contro i diritti individuali (degli altri), soprattutto diritti di eguaglianza e prestazioni sociali, lotta da assumere così facilmente come strumento per il rafforzamento di una rinnovata identità nazionale, anzi identità nazionali, al plurale, foriere di conflitti tra i popoli. Un ritorno alla sovranità nazionale nella forma più retrograda, in quanto declinata quale attributo del “popolo”, del suo governo, non più della costituzione e dei diritti individuali. Una sovranità fondata sulla riduzione delle prestazioni sociali, in generale e comunque ad esclusivo vantaggio dei cittadini nazionali; sul contrasto alla libertà di circolazione anche nelle forme legali; su una sempre più diffusa e mal motivata critica nei confronti dei sistemi di giustizia costituzionale e di protezione giudiziaria dei diritti fondamentali, compresi ovviamente i sistemi di protezione regionale ed internazionale dei diritti nei confronti dei poteri statali sovrani.

Tutti fenomeni distruttivi dell’identità europea, senz’altro accentuati dall’uso di referendum e appelli al popolo quale strumento di lotta contro il processo di integrazione europea. Processi all’esito dei quali resterà soltanto da chiedersi cosa ne potrà mai essere dei diritti fondamentali e di cittadinanza, dei diritti economico-sociali e dei diritti dei lavoratori nel nuovo contesto costituzionale. Il tutto in un quadro di rinnovata conflittualità tra Stati, nei reciproci rapporti ed in seno alle istituzioni europee, che sembra riportare indietro l’orologio della storia di esatti cento anni.

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