La bella disuguaglianza. E le sue conseguenze

Andrea Fazio presenta le evidenze sull’esistenza di un ‘beauty premium’, cioè dell’influenza della bellezza sui redditi da lavoro e sostiene che i percettori di questo premio (‘i belli’) tendono a essere più avversi alla redistribuzione dei redditi. Fazio sottolinea che ciò contrasta con la diffusa idea secondo cui ad avversare le redistribuzioni sono soprattutto gli avvantaggiati per merito e riflette sulle implicazioni del ‘beauty premium’ per il disegno della tassazione.

La bellezza non ha ancora salvato il mondo, ma sicuramente ha fatto fare un po’ di soldi a molte persone. È infatti ormai abbastanza chiaro che chi ha un bell’aspetto guadagna di più. Sin dal primo lavoro di Hammermesh nel 1994, la letteratura economica e sociologica ha mostrato che nel mercato del lavoro esiste un “beauty premium”, cioè un premio per la bellezza: i belli –maschi o femmine che siano- guadagnano di più. Ultimamente si sta cercando di capire se questo sia dovuto ad una discriminazione alla Becker –i datori di lavoro preferiscono avere persone più belle in ufficio a parità di caratteristiche- o se sia dovuto al fatto che la bellezza aumenta la produttività in alcuni lavori –quando si lavora al contatto col pubblico la “bella presenza” è spesso richiesta.

Se da un lato quindi è chiaro che i belli guadagnano di più, in pochi si sono chiesti se questo possa avere effetti sulle loro preferenze per la redistribuzione. In effetti, perché dovremmo cercare di saperlo? Che cosa può aggiungere di nuovo alla ricerca? Magari scoprire che i belli sono meno inclini a redistribuire il proprio reddito potrebbe solo far aumentare l’invidia dei brutti; niente di buono, quindi. Tuttavia, guardando la questione dalla giusta prospettiva, capire questo meccanismo potrebbe aiutare a far luce sull’intricato rapporto tra fortuna, merito e disuguaglianza. Controllando per alcuni fattori come reddito familiare, età, condizione lavorativa, stato di salute, ecc. essere più belli della media è probabilmente dovuto solo alla fortuna, o meglio al risultato della “lotteria genetica” a cui ci siamo sottoposti. Detto altrimenti: può non essere interessantissimo capire se chi è più bello è a favore della disuguaglianza, ma lo è capire se chi è più fortunato è più incline alla redistribuzione o meno.

Con questo obiettivo in mente, ho iniziato a studiare la questione utilizzando alcuni dati individuali rappresentativi della popolazione tedesca. La survey che utilizzo dà la possibilità di avere una misura di bellezza poiché, all’inizio di ogni intervista, l’intervistatore deve dare un giudizio sull’attrattività dell’intervistato (non a caso questi dati sono già stati utilizzati per dimostrare che i più belli guadagnano di più, trovano lavoro più facilmente e sono in media più felici dei meno belli). I risultati preliminari di questo studio sembrano proprio indicare che essere più belli della media diminuisce la probabilità di dichiararsi a favore della redistribuzione. Questo effetto persiste anche se si prendono in considerazione una serie di fattori come l’età, l’occupazione dei propri genitori, la condizione lavorativa, i tratti psicologici degli individui; insomma, la bellezza sembra davvero rendere le persone meno a favore della redistribuzione.

In un recente articolo (Breggren et al., Journal of Public Economics, 2017), gli autori ipotizzavano proprio questo nesso (bellezza->scarsa volontà di redistribuzione) dopo aver dimostrato che i politici più belli appartengono generalmente a partiti di destra. Gli autori suggerivano che la spiegazione di questa evidenza è dovuta al fatto che i belli guadagnano di più e questo li rende meno inclini alla redistribuzione. Tuttavia, nel nostro caso, l’effetto che la bellezza ha sulle preferenze per la redistribuzione persiste anche quando controlliamo per il reddito familiare. D’altra parte, “l’effetto bellezza” diminuisce un po’ quando si prendono in considerazione le valutazioni soggettive che gli individui fanno rispetto alla propria posizione sociale o situazione finanziaria. Infatti, l’effetto che la bellezza ha sulle preferenze per la redistribuzione è mediato per circa il 44% dalle valutazioni soggettive o dal reddito familiare, il rimanente 56% tuttavia, è dovuto all’effetto diretto che la bellezza ha sulle preferenze per la disuguaglianza. Il fatto che i belli siano meno a favore della redistribuzione, quindi, non dipende tanto dal “beauty premium”, quanto dalle loro valutazioni soggettive e dalla bellezza in sé. Questi risultati sembrano confermare una linea di ricerca della psicologia evolutiva che afferma che chi ha un fisico migliore o è più attraente tende ad essere meno a favore dell’uguaglianza (Price et al., Evolutionary Psychology, 2015), ma soprattutto suggeriscono che chi riesce ad avere una vita più agiata –per fortuna e non per merito- tende a desiderare meno redistribuzione.

Gli economisti e i sociologi hanno spesso sostenuto che credere nella fortuna piuttosto che nel merito tende ad aumentare la redistribuzione (e.g. Fong, Journal of Public Economics, 2001). Se si pensa che la vita dipenda più dall’essere fortunati che dal proprio merito, solitamente si richiede che i “fortunati” diano una parte dei loro guadagni ai meno fortunati. Alcuni autori hanno anche avanzato l’ipotesi che questa differenza possa aiutare a spiegare la differenza tra il sistema di redistribuzione americano ed europeo, con gli europei molto più pessimisti riguardo alla possibilità che la vita dipenda dal merito (Alesina e Angeletos, American Economic Review, 2005). Tuttavia, se crediamo che la bellezza equivalga ad un colpo di fortuna, possiamo aprire un interessante dibattito riguardo il rapporto tra fortuna, merito e preferenze per la redistribuzione. Sembra infatti che chi riesce ad arricchirsi grazie alla fortuna tende poi ad essere meno incline a redistribuire. Quest’ipotesi è stata poco esplorata dalla letteratura accademica, ma sembra proprio che la fortuna renda le persone meno a favore dell’uguaglianza. In un interessante studio (Doherty et al., Political Psychology, 2006), gli autori mostrano che chi vince alla lotteria tende a sviluppare preferenze meno egalitarie. Similmente, secondo Powdthavee e Oswald (IZA WP, 2014), chi vince alla lotteria tende poi a votare partiti di destra.

Come si conciliano allora questi due mondi? Da un lato pensare che la vita dipenda dalla fortuna aumenta la propensione alla redistribuzione, dall’altra sperimentare la fortuna la diminuisce. Capire il nesso tra queste due variabili e la loro interazione forse è più necessario di quanto si pensi. In un recente libro, Frank (Success and luck: Good fortune and the myth of meritocracy, 2016), ha sottolineato come, in molti casi, le persone che hanno più probabilità di sperimentare eventi fortunosi sono anche le più ricche. Il classico esempio è quello di Bill Gates, che è diventato uno degli uomini più ricchi al mondo anche perché ha avuto la fortuna di studiare in una università in cui aveva libero accesso ad uno dei primi terminali per la programmazione. Insomma, il problema è capire se si può “comprare” anche la fortuna. Prendere atto di questo meccanismo potrebbe cambiare la percezione che abbiamo delle cose? Sì, potrebbe. Studi di psicologia sociale (Volpato, Le radici psicologiche della disuguaglianza, 2019) dimostrano che quando si creano disuguaglianze di reddito, le persone tendono a giustificarle. In altre parole, se si vive dove c’è molta disuguaglianza si tende a credere di più che i ricchi abbiano davvero meritato di essere così ricchi. La realtà però può essere ben diversa. Come agire allora per cercare di evitare che ogni disuguaglianza di reddito venga giustificata? Che vengano riconosciuti il merito e la fortuna? Sicuramente non si arriverà mai ad una netta distinzione tra merito e fortuna, in ogni successo ci saranno un po’ di entrambe le componenti, così come in ogni insuccesso. Tuttavia, uno sforzo che probabilmente gli economisti ed i policy-makers dovrebbero fare è quello di ripensare il modello di tassazione che spesso abbiamo in mente.

Il modello standard di tassazione suggerisce che la disuguaglianza dovuta al caso andrebbe in ogni caso eliminata. Quindi, nel nostro caso, dovremmo applicare una tassa sulla bellezza e con essa trasferire risorse ai meno piacenti. Se questa è la conclusione a cui pensate quando leggete gli studi sul “beauty premium”, o siete poco belli, o siete poco realisti, o entrambe le cose. In un interessante studio, Mankiw e Weinzierl (American Economic Journal: Economic Policy, 2010) danno dimostrazione di un ulteriore premio sul mercato del lavoro: “l’height premium”. In altre parole, anche gli alti guadagnano di più –d’altronde…altezza mezza bellezza. Se volessimo applicare il modello standard di tassazione, gli autori ci dicono che in questo caso una persona alta che guadagna 50,000 dollari, dovrebbe pagare 4,500 dollari di tasse in più rispetto ad una persona bassa.

Qualcuno potrà pensare che bisognerebbe davvero introdurre qualche tassa sulle caratteristiche fisiche delle persone ma la questione di fondo è che anche alla luce della ‘bella disuguaglianza’ appare necessario ripensare i modelli di tassazione per cercare di renderli più idonei a realizzare la giustizia redistributiva nel capitalismo contemporaneo. Negli ultimi anni gli economisti hanno provato a suggerire alcune vie d’uscita come la tassa progressiva sul consumo (Frank, 2016, ibidem), una tassazione proporzionale all’utilizzo delle risorse pubbliche (Weinzierl, Journal of Public Economics, 2017), oppure, più in generale, un modello di tassazione che riesca a catturare meglio i principi di equità di una società (Saez e Stancheva, American Economic Review, 2016). La questione rimane aperta. Intanto possiamo chiederci se il poeta russo Joseph Brodsky avesse in mente anche la bella disuguaglianza (e le sue conseguenze), quando affermò che “un essere umano è una creatura estetica prima ancora che etica.”

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