Keynes, il “movente” monetario e l’eutanasia del rentier

(J. M. Keynes, Laissez faire e comunismo, a cura di G. Lunghini e L. Cavallaro, Derive e Approdi, 2010)

 

Non è chiaro quale fu l’esatto percorso che portò Keynes a maturare la rottura con l’ortodossia economica del suo tempo, e a mettere così in totale discussione la tanto celebrata capacità di autoregolazione del mercato. La Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta del 1936, ci consegna una elaborazione compiuta della “rivoluzione” keynesiana, ma la gestazione della visione dell’economia di cui essa è portatrice dovette essere lunga e complessa. Molti e di diverso carattere sono gli scritti che l’hanno preceduta e che ne hanno costituito la materia embrionale, e impegnativo è a tutt’oggi il lavoro che si richiede alla ricostruzione della “storia” di un così fitto ordito di pensiero; tanto più se si è d’accordo nel ritenere che non sia possibile dar pieno conto delle teorie economiche al di fuori di una adeguata dimensione storica. In tal senso l’uscita in versione italiana, a cura di Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro, del saggio keynesiano Laisser faire and comunism del 1926, ci richiama ad una attenta riconsiderazione delle “radici” del pensiero di Keynes, in un momento in cui, complice la crisi economica, i riferimenti a quest’ultimo sono divenuti praticamente d’obbligo.

Costretto entro gli angusti confini di una vulgata intrisa di influssi neoclassici, il pensiero keynesiano è stato a lungo offuscato e, nel peggiore dei casi, male interpretato fino al punto di tradire l’ispirazione che ne è alla base. I semi della riflessione keynesiana debbono essere rinvenuti nella particolare concezione della moneta e del ruolo di “riserva di valore” che essa assume nel processo di sviluppo capitalistico. “La teoria monetaria della produzione” è il titolo concepito all’origine da Keynes per la “Teoria Generale”: il capitalismo è nella sua essenza una monetary economy, un sistema tendenzialmente instabile ed iniquo poiché esposto agli animal spirits degli imprenditori per i quali la soddisfazione dei bisogni è secondaria allo scopo del profitto. Queste idee dovevano essere ben presenti nella mente di Keynes da diverso tempo, tanto da essere riconoscibili già a metà degli anni venti nei due scritti A short view of Russia e The end of laissez faire che Leonard e Virginia Woolf danno alle stampe in Gran Bretagna rispettivamente alla fine del 1925 e nel 1926, e che Keynes successivamente pubblica insieme (con solo lievi modifiche) negli Stati Uniti con il titolo Laissez faire and communism, rivolgendosi al pubblico di quel paese che si collocava – come annotano i due curatori – “a sinistra dell’opinione pubblica liberal … vasta cerchia di intellettuali progressisti, le cui concezioni di un nuovo ordine economico traevano ispirazione tanto dalle teorizzazioni socialiste che dal modello prussiano di controllo pubblico dell’economia”. In un sistema economico capitalistico la moneta costituisce un legame tra il presente e il futuro e le decisioni di investimento sono prese sulla base di una “conoscenza incerta” non quantificabile secondo un calcolo probabilistico, che le rende soggette a “mutamenti improvvisi e violenti”: “molti dei maggiori malanni economici del nostro tempo sono conseguenze del rischio, dell’incertezza e dell’ignoranza. Le grandi disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza si manifestano perché certuni, per loro abilità o fortuna, sono capaci di trarre vantaggio dall’incertezza e dall’ignoranza, e anche perché spesso e per le stesse ragioni i grandi affari sono una lotteria” (La fine del laissez faire, in Laissez faire e comunismo p. 54). Ma vi è nel capitalismo e nel ruolo che in esso gioca la moneta anche qualcosa di più sottile, se non di sinistro: “le pulsioni degli individui verso il denaro” e “l’arricchimento” sono “la principale forza motrice della macchina economica”. Il capitalismo appare così trainato da un “movente monetario” che, in quanto pulsione “irrazionale”, ne rappresenta l’anima oscura. Per questo, dopo la visita in Unione Sovietica nel 1925 in occasione del suo viaggio di nozze, Keynes, pur eccependo del bolscevismo gli effetti negativi sulla limitazione della libertà nel paese, intende riconoscergli la virtù di aver rimosso l’amore per il denaro dalla posizione cardinale che occupa nel capitalismo. E’ convinto, in definitiva che “una rivoluzione nei nostri modi di pensare e sentire circa il denaro può costituire la prima spinta verso un’incarnazione contemporanea dell’ideale” concludendo che “può essere che il comunismo russo rappresenti i primi, confusi movimenti di una grande religione” (Un breve sguardo alla Russia, in Laissez faire e comunismo p. 78). Sono passaggi questi ultimi che rivelano come Keynes si ponesse in un atteggiamento di amore-odio nei confronti di ciò che appariva il prodotto del pensiero di Marx. Non vi è dubbio che egli sentisse fortemente l’ancoraggio a quella che lui stesso definiva “borghesia intellettuale”. Poco prima, nello stesso scritto (p.65) , aveva infatti affermato: “Come posso far mio un credo che preferendo il fango al pesce, esalta il rozzo proletariato rispetto alla borghesia e all’intellighenzia, che – con tutti i loro errori – sono il meglio della vita e certamente portano in sé i semi di tutto il progresso umano? Anche se abbiamo bisogno di una religione, come possiamo trovarla tra la confusa robaccia delle librerie rosse?”. Ma la condanna della “passione morbosa” verso il denaro resta comunque un importante filo di congiunzione con il pensiero di Marx. La dimensione che a questa passione si associa è collegata addirittura a potenti istinti di morte, quelli stessi che Freud, di cui Keynes era attento ed acuto lettore e dal quale non poco è stata mutuata la riflessione sulla “psicologia” delle scelte degli investitori – come Lunghini e Cavallaro ci ricordano nell’introduzione al testo keynesiano- aveva posto al centro della sua indagine psicoanalitica. Ce ne è abbastanza per supporre che in Keynes ciò di cui si è appena detto fosse rappresentativo dei nodi di un conflitto interiore per lo più irrisolto. Tuttavia non sembra azzardato riconoscere che questi nodi, quale che ne fosse la complessità, non sono stati per nulla in grado di scalfire la lucida visione che Keynes aveva dei mali del capitalismo e che al termine della sua Teoria Generale lo avrebbe portato ad auspicare “l’eutanasia del rentier”.

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