Jobs Act e incentivi alle assunzioni: una visione d’insieme

Chiara Ardito, Fabio Berton e Lia Pacelli presentano i risultati di una loro analisi degli effetti del Jobs Act sulla probabilità di essere assunti a tempo indeterminato. Gli autori trovano che tale probabilità è elevata solo quando il Jobs Act è accompagnato da generosi incentivi monetari all’assunzione e riguarda in particolare lavoratori poco specializzati. Nelle conclusioni gli autori si chiedono se questo esito è appropriato per i cronici problemi di crescita modesta e di produttività stagnante che affliggono l’Italia.

Nel terzo trimestre del 2008 l’Italia contava 23 milioni e 144 mila occupati, picco positivo prima che gli effetti della crisi finanziaria iniziassero a farsi sentire da oltre oceano. Undici anni più tardi, nel terzo trimestre del 2019, il numero degli occupati era salito a 23 milioni e 398 mila, dopo aver toccato un minimo di 22 milioni e 143 mila nel terzo trimestre del 2013, al culmine della crisi del debito sovrano (Figura 1, asse a sinistra). Il dato sugli occupati va però opportunamente completato con quello sulle ore lavorate che è rimasto inferiore al dato pre-crisi (asse a destra), e sulle retribuzioni, anch’esse stagnanti in media e affette da crescenti diseguaglianze (Franzini e Raitano, a cura di, Il mercato rende diseguali?, Il Mulino, 2018). Tutti questi fenomeni trovano almeno una parziale spiegazione nella diffusione dei contratti di durata prefissata, semplici da non rinnovare quando le imprese affrontano una fase di crisi, e tipicamente con durate inferiori ai dodici mesi; pertanto le retribuzioni annue e la quantità di lavoro risultano minori. Tra i soli occupati alle dipendenze – dunque tralasciando le varie forme di collaborazioni, sempre più diffuse – nel terzo trimestre del 2008 Istat contava 2 milioni e 361 mila lavoratori con un contratto di durata prefissata; oggi sono saliti a tre milioni e 194 mila.

Figura 1. Numero di occupati (migliaia, asse a sinistra) e numero di ore lavorate per dipendente (2015 = 100, asse a destra), 2006-2019. Note: dati destagionalizzati, persone di 15 anni e più. Per il numero di ore lavorate: industria e servizi, imprese di dieci dipendenti e più

Fonte: Istat

Allo scopo di sostenere il mercato del lavoro italiano e ridurre il dualismo tra occupazione a tempo indeterminato e occupazione a termine, nel periodo successivo al 2008 due grandi riforme hanno avvicinato il sistema di norme che regolano i rapporti di lavoro di durata prefissata e quelli a tempo indeterminato: la Legge 92/2012 (la “Legge Fornero”, entrata in vigore il 18 luglio del 2012) e il Decreto Legislativo 183/2014 (entrato in vigore il 7 marzo del 2015 e comunemente indicato come “Jobs Act”, sebbene quest’ultimo faccia effettivamente riferimento ad un complesso di riforme più ampio). Entrambe hanno perseguito questi obiettivi riducendo la protezione che il ben noto Articolo 18 della Legge 300/1970 garantiva ai lavoratori assunti a tempo indeterminato nelle imprese “grandi”. Se la “Legge Fornero” ha lasciato ai giudici del lavoro un limitato, ma non trascurabile, margine di discrezionalità nell’applicazione della cosiddetta tutela reale (Cavaletto e Pacelli, Flessibilità del lavoro e formazione dei lavoratori. Il caso italiano, Polis, 2014), il “Jobs Act” lo ha cancellato definitivamente, procedendo alla completa “monetizzazione” dell’Articolo 18 (provvedimento su cui è più di recente intervenuta la Corte Costituzionale).

L’idea sottostante entrambi gli interventi è quella di sostenere l’occupazione a tempo indeterminato tramite un assetto completamente flessibile del mercato del lavoro, dove le imprese sono libere di licenziare i lavoratori a seconda delle condizioni economiche del momento, e sarebbero più propense ad assumere con contratti di lunga durata, proprio perché comunque meno vincolanti. Di fronte alla ripresa del lavoro a tempo indeterminato che si osserva a partire dal 2015 (Figura 2), non sorprende quindi che il governo Renzi abbia rivendicato con enfasi l’efficacia dei provvedimenti introdotti: “Fatti, non parole. Da febbraio 2014 a oggi, Istat certifica più 599mila posti di lavoro. Sono storie, vite, persone. Questo è il Jobs Acttwittava lo stesso Matteo Renzi il 29 luglio del 2016.

Figura 2. Numero di occupati a tempo indeterminato, migliaia, 2006-2019. Note: dati destagionalizzati, persone di 15 anni e più.

Fonte: Istat

 

Da un punto di vista strettamente scientifico, però, affermazioni come queste rischiano di incappare in due errori. Da un lato, la crescita occupazionale (totale e a tempo indeterminato) che si osserva dal 2015 in avanti potrebbe essere, almeno in parte, anche la conseguenza degli incentivi alle assunzioni che lo stesso governo Renzi introdusse con la legge finanziaria per l’anno 2015, rinnovati, seppur con minore generosità, anche per l’anno successivo. Dall’altro, non ci si chiede che cosa sarebbe successo in assenza dei provvedimenti introdotti, ovvero senza sussidi alle assunzioni e senza la cancellazione dell’articolo 18. Quest’ultimo scenario, infatti, dovrebbe costituire il vero termine di paragone per valutare l’efficacia di un provvedimento. Estremizzando, se in assenza dei provvedimenti avessimo osservato gli stessi andamenti occupazionali citati dall’ex Primo Ministro – per esempio trainati da un andamento più positivo del ciclo economico, o delle esportazioni – allora la loro efficacia sarebbe stata evidentemente più ridotta o nulla. Facile a dirsi, ma non a farsi: quel che sarebbe successo in assenza dei sussidi alle assunzioni e della cancellazione dell’articolo 18 – tecnicamente: il controfattuale – non lo sappiamo. Però possiamo provare a calcolarlo. Ciò è esattamente quello che si sono proposti di fare alcuni contributi recenti (Boeri e Garibaldi, 2019; Cirillo, Fana e Guarascio, 2017; Sestito e Viviano, 2018), tra i quali anche il nostro (Ardito, Berton e Pacelli, Combined and distributional effects of EPL and hiring incentives: an assessment using non-linear DiD, IZA Discussion Paper, 2019), che rispetto ai precedenti introduce numerose innovazioni metodologiche e allunga il periodo di analisi fino a fine 2017.

La peculiarità del nostro contributo consiste – coerentemente, crediamo, con gli intendimenti del governo in carica allora – nel considerare Jobs Act e incentivi alle assunzioni come un unico costrutto avente l’obiettivo di aumentare l’occupazione a tempo indeterminato in Italia. In questa prospettiva, identifichiamo allora cinque regimi caratterizzati da una diversa combinazione di protezione dell’impiego e costo del lavoro (Figura 3):

  1. Fino al 31 dicembre 2014 ci troviamo nella fase pre-intervento, quando né gli incentivi alle assunzioni, né il Jobs Act erano in vigore.
  2. Tra il 1 gennaio 2015 e il 6 marzo 2015 le imprese che assumono a tempo indeterminato beneficiano degli incentivi, ma non del Jobs Act.
  3. Tra il 7 marzo 2015 e il 31 dicembre 2015 le imprese con più di 15 dipendenti iniziano, per lo stesso tipo di assunzioni, a beneficare anche di un regime di protezione dell’impiego più favorevole.
  4. Tra il 1 gennaio 2016 e il 31 dicembre 2016 gli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato diventano meno generosi.
  5. A partire dal 1 gennaio 2017 gli incentivi alle assunzioni vengono cancellati (vengono attivati incentivi più limitati, riservati ad alcune specifiche categorie di lavoratori) e rimane in vigore solo il Jobs Act.

L’obiettivo della nostra analisi è, quindi, quello di valutare se e come diverse combinazioni di costo del lavoro (come determinato dall’applicabilità o meno degli incentivi alle assunzioni) e di protezione dell’impiego (a seconda della dimensione di impresa e quindi dell’esposizione o meno al Jobs Act) abbiano modificato la probabilità dei lavoratori disoccupati o con contratti temporanei di essere assunti a tempo indeterminato. Per farlo, ci avvaliamo della banca dati delle comunicazioni obbligatorie della regione Piemonte, integrata con le informazioni sugli stock di occupati provenienti dall’Archivio Statistico delle Imprese Attive (ASIA) e con i dati di bilancio di AIDA. La strategia consiste nel confrontare la probabilità di essere assunti a tempo indeterminato nelle imprese sopra o sotto la soglia dei 15 dipendenti da parte di persone che possono o non possono accedere ai sussidi. Questo, con opportuni metodi statistici, permette di stimare la differenza fra cosa si osserva e cosa sarebbe accaduto in assenza degli interventi detti (il controfattuale di cui sopra), cioè l’impatto degli interventi in esame.

I risultati sul campione di disoccupati raccontano una storia piuttosto chiara. Rispetto al Regime 1 (prima dei due interventi), l’introduzione dei generosi sussidi previsti dalla legge finanziaria per il 2015 (Regime 2) ha aumentato di molto la probabilità di trovare un impiego a tempo indeterminato. In particolare, gli incentivi hanno rappresentato uno stimolo molto forte per le piccole imprese ad assumere a tempo indeterminato – la frequenza mensile di transizione dalla disoccupazione all’occupazione a tempo indeterminato raddoppia – mentre quelle al di sopra della soglia dei quindici dipendenti sostanzialmente non mutano il proprio comportamento.

É soltanto con il regime successivo – ovvero con l’entrata in vigore del Jobs Act, Regime 3 – che anche le grandi imprese aumentano la frequenza delle assunzioni a tempo indeterminato dei disoccupati, mentre il comportamento delle piccole, alle quali il Jobs Act non si applica, rimane invariato rispetto al regime precedente. A partire dal 2016, anno nel quale l’incentivo alle assunzioni si dimezza (Regime 4), si riduce sensibilmente, per tutte le imprese, anche l’effetto positivo delle riforme sulla frequenza di passaggio dalla disoccupazione al lavoro a tempo indeterminato. Dal 2017, con l’esaurirsi degli incentivi (Regime 5) vengono meno anche tutti gli effetti positivi.

Gli effetti stimati a partire dal campione di lavoratori temporanei sono pienamente in linea con i precedenti: le piccole imprese reagiscono fin da subito all’introduzione degli incentivi, mentre quelle più grandi attendono l’entrata in vigore del Jobs Act, allo scopo di aggiungere ad un minore costo del lavoro, anche un regime di protezione dell’impiego meno vincolistico. Con il venire meno degli incentivi, tuttavia, l’effetto positivo svanisce per tutte le imprese, anche per quelle beneficiarie del Jobs Act che, quindi, si è rivelato efficace nell’incrementare la frequenza delle transizioni verso il lavoro a tempo indeterminato solo quando è stato accompagnato da una cospicua riduzione del costo del lavoro.

La granularità dei dati a disposizione ci consente anche di studiare gli effetti distributivi delle riforme in esame. Non emergono differenze fra uomini e donne nella probabilità di ottenere un contratto a tempo indeterminato; i lavoratori stranieri sembrerebbero invece penalizzati dagli interventi normativi, un fatto che spieghiamo con una latente “preferenza” per i lavoratori italiani che ha modo di emergere nel momento in cui il costo di questi ultimi diventa sufficientemente basso. Persone laureate e con un elevato livello di esperienza nello stesso settore non hanno tratto beneficio dalle riforme, quando non ne sono state addirittura svantaggiate. A beneficiare della maggiore probabilità di transizione verso un impiego a tempo indeterminato sono stati invece i lavoratori con una elevata esperienza lavorativa molto eterogenea – ed incoerente – dal punto di vista delle mansioni ricoperte.

In conclusione, l’effetto delle riforme sulla probabilità, per un lavoratore, di ottenere un impiego a tempo indeterminato è stato notevole e positivo. Ma il Jobs Act ha giocato un ruolo secondario, limitandosi, al più, a rafforzare l’effetto dei sussidi alle assunzioni. I maggiori beneficiari di questi effetti sono stati i lavoratori con carriere meno coerenti e più frammentate, e quindi più legati al segmento secondario del mercato del lavoro. Lavoratori poco produttivi, che diventano appetibili per le imprese quando il loro costo si abbassa (ulteriormente) e quando è comunque facile licenziarli.

Rimane da chiedersi se questo tipo di politica sia coerente con i cronici problemi di crescita modesta e produttività stagnante che affliggono l’Italia. L’occupazione a tempo indeterminato è cresciuta proprio fra quei lavoratori caratterizzati da bassa produttività. Inoltre, presumibilmente le imprese che ne hanno beneficiato sono proprio quelle che utilizzano manodopera poco qualificata a basso costo, che si accompagna normalmente a una grande difficoltà a stare sui mercati internazionali, ad innovare processi e prodotti ed in generale a sostenere un maggiore benessere dei lavoratori in termini di retribuzioni e di condizioni di lavoro.

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