Istruzione secondaria e status occupazionale: alcuni dati sull’Europa

Irene Brunetti e Lorenzo Corsini, intervenendo nel dibattito sulla disoccupazione giovanile e sulla transizione scuola-lavoro, illustrano come l'istruzione tecnica e professionale, rispetto a quella generalista, possa aiutare chi non continua gli studi ad entrare nel mondo nel lavoro. L'analisi si basa sulla European Labour Force Survey che consente di confrontare l'Italia con altri paesi europei, anche quelli in cui l'istruzione professionale è caratterizzata da un sistema duale.

Il tema della transizione dalla scuola al lavoro è da sempre uno dei punti più discussi fra politici e studiosi dei sistemi formativi e del mercato del lavoro. La transizione scuola-lavoro rappresenta infatti una fase cruciale della vita di un giovane, è il momento in cui ci si trova a verificare l’adeguatezza delle competenze acquisite nel percorso formativo con quanto viene richiesto nel mercato del lavoro. In contesti in continua evoluzione, caratterizzati da alti tassi di disoccupazione giovanile e crescente incertezza, il passaggio dallo studio alla vita lavorativa può quindi essere molto complesso anche perché, pur avvenendo in un intervallo di tempo limitato, può avere conseguenze di lungo periodo sulle carriere lavorative degli individui.

Molti si sono interrogati sulle possibili spiegazioni delle difficoltà incontrate nella transizione scuola-lavoro; tra queste sono state sottolineate la mancanza di strumenti di politica attiva per l’occupazione giovanile, l’esistenza di un mismatch tra domanda e offerta di lavoro, il grado di rigidità/flessibilità del mercato del lavoro, il ruolo della famiglia, ma anche la natura sequenziale o duale del sistema di istruzione. Riguardo a quest’ultimo aspetto, il termine sequenziale fa riferimento ad un sistema di istruzione in cui solo dopo aver terminato il percorso scolastico e acquisito un titolo lo studente si affaccia al mondo del lavoro. Diametralmente opposta è, invece, la natura del sistema duale poiché prevede l’integrazione tra istruzione e lavoro grazie alla creazione di un rapporto continuativo e coerente tra i due sistemi.

I dati delle maggiori indagini nazionali (la Rilevazione Continua sulle Forze Lavoro dell’Istat) e internazionali (la European Labour Force Survey dell’Eurostat) evidenziano, innanzitutto, lo svantaggio relativo delle giovani generazioni italiane rispetto a quelle più anziane nell’accesso ad occupazioni stabili e di qualità. Se poi mettiamo a confronto i giovani italiani con i loro coetanei europei, come sottolineano Iannelli e Soro- Bonmatí (C. Iannelli, A. Soro-Bonmatí, “Transition pathways in Italy and Spain: Different patterns similar vulnerability?”, in Transitions from Education to Work in Europe – The Integration of Youth into EU Labour Markets. Ed. W. Muller; M. Gangl. Oxford University Press, 2003), i primi sperimentano una fase di transizione dalla scuola al lavoro molto più difficile rispetto ai secondi, in particolare rispetto a quelli dell’Europa del Nord. Questo problema si presenta sia per i giovani in possesso di una laurea sia per coloro che si affacciano nel mondo del lavoro dopo aver ottenuto il diploma di scuola secondaria superiore.

Alla luce di tali evidenze appare legittimo chiedersi se coloro che concludono il secondo ciclo di istruzione dispongano o meno di un adeguato bagaglio di competenze che permetta loro di sperimentare una transizione dai percorsi di studio al lavoro meno problematica. Le competenze vengono, come è noto, distinte in hard e soft skills. Le prime (secondo l’Agenzia Europea per lo Sviluppo della Formazione Professionale “Cedefop”) sono un insieme di abilità e saperi non tecnici, fortemente connesse alle qualità e agli atteggiamenti personali (fiducia, disciplina, autogestione), alle abilità sociali (comunicazione, lavoro in gruppo, gestione delle emozioni) e gestionali. Le hard skills sono, invece, frutto delle conoscenze acquisite nel percorso di istruzione.

Nello specifico, confrontando 12 paesi europei (Austria, Belgio, Francia, Germania, Italia, Olanda, Polonia, regno Unito, Spagna, Svezia, Svizzera ed Ungheria), di seguito ci chiediamo se la formazione di tipo professionale, o tecnica, possa rappresentare un’opportunità per i giovani che al termine degli studi superiori non intendono iscriversi all’università o continuare con altri studi tecnici. E’ opportuno ricordare che a livello europeo vige la distinzione tra general e vocational education, e gli indirizzi professionali rientrano nella seconda categoria. Nel contesto italiano gli indirizzi che vengono considerati vocational sono sia gli istituti professionali che quelli tecnici.

Nel nostro paese, la formazione professionale, ma talvolta anche quella tecnica, è considerata, a differenza di altri paesi europei come l’Austria o la Svezia, una formazione di serie B, destinata in prevalenza a chi è a rischio di abbandono scolastico e alle giovani generazioni di immigrati. Questa concezione, dovuta anche all’esistenza di fenomeni, quali la de-industrializzazione di alcune aree del nostro paese, che hanno portato a dare meno importanza agli indirizzi scolastici professionalizzanti, contrasta però con l’idea, sempre più diffusa a livello europeo, che lo sviluppo di una formazione professionale orientata al mercato del lavoro sia uno degli strumenti di politica attiva in grado di migliorare la transizione scuola-lavoro e ridurre la disoccupazione giovanile.

Un’analisi dei dati relativi ai diplomati che hanno conseguito il titolo nel 2016 rivela che solo in Austria ed in Svizzera, dove la formazione professionale prevede un’alternanza tra scuola e lavoro e le istituzioni formative lavorano a fianco con i datori di lavoro (sistema duale), la quota di diplomati negli istituti tecnici e professionali è maggiore di quella che si osserva negli altri istituti (73,7% vs 26,3% e 58,0% vs 41,5%, rispettivamente in Austria e in Svizzera). L’Austria merita attenzione perché influisce su uno specifico modello italiano, quello della scuola tedesca nell’Alto Adige.

In primo luogo in Austria, rispetto ad altri paesi in cui viene adottato il modello duale (vedi ad esempio la Germania) la distinzione tra i vari percorsi scolastici è semplice dal momento che gli studenti debbono scegliere tra la scuola generalista, simile ai nostri licei, o la formazione professionale. In secondo luogo, la scuola professionale austriaca comprende anche l’istruzione socio-pedagogica (l’equivalente dei nostri istituti magistrali). Quest’ultimo aspetto, unito al fatto che la quota di iscritti alla formazione professionale è molto alta, evita che questa sia considerata un “ghetto” per le classi meno abbienti. Al contrario, in paesi come il Regno Unito o l’Ungheria la differenza tra la quota di diplomati in corsi generalisti o professionali è elevata ed è a netto favore dei primi (Figura 1). In Italia, Polonia ed Olanda la differenza fra i diplomati nei due gruppi di scuole non è invece netta.

Il maggior numero di diplomati in istituti che offrono una formazione più generalista in parte può forse essere legata, oltre che al background famigliare che incide sulla scelta della scuola, anche alla difficoltà che, sia le famiglie che i ragazzi, riscontrano al momento della scelta della scuola superiore, soprattutto in quei paesi dove tale scelta viene fatta in età precoce (come, ad esempio, la Germania). Scegliere un’istruzione specialistica, quale quella fornita da istituti professionali/tecnici, richiede infatti una conoscenza approfondita delle capacità ed abilità del giovane. Se tale conoscenza o capacità di valutazione da parte delle famiglie tende ad essere carente è lecito attendersi una maggiore propensione nei confronti della scuola ‘generalista’ a scapito di quella tecnico/specialistica.

 

Figura 1. Quota di diplomati per tipologia di scuola secondaria superiore

Veniamo ora al tema della disoccupazione. Dai dati del 2016 emerge che ad un anno dal diploma in Italia è disoccupato circa il 50% dei diplomati professionali/tecnici contro il 56% di quelli provenienti da altri istituti. La percentuale si riduce notevolmente per i diplomati professionali dell’Olanda, solo il 5% risulta disoccupato a fronte dell’11% fra i diplomati “generalisti”, del Regno Unito (circa 9% versus 18% fra i “generalisti”), circa l’8%, e dell’Austria (15% versus 21%%). Anche nei paesi dell’Est Europa, come Polonia e Ungheria, ed in Svezia si osserva un vantaggio in termini di probabilità di trovare un lavoro per gli studenti che si diplomano nelle scuole professionali o tecniche.

In generale, il quadro che si ottiene dall’analisi della Figura 2 non è univoco e appare molto frastagliato. Se si considera il sottogruppo dei paesi europei in cui l’istruzione professionale segue un sistema duale (come Austria, Germania, Svizzera e Ungheria) si osserva che, ad un anno del conseguimento del diploma, coloro che provengono dall’istruzione professionale hanno tassi di disoccupazione visibilmente più bassi (in Austria e Ungheria) oppure lievemente più alti (in Germania e in Svizzera). In questo gruppo di paesi, seppur in maniera non sistematica, sembrerebbe che l’approccio duale all’istruzione professionale dia buoni risultati. Per quanto riguarda gli altri paesi, i tassi di disoccupazione dei giovani che provengono dall’istruzione professionale e di coloro che provengono dagli altri percorsi scolastici sono spesso distanti e questa differenza (ed il suo segno) varia sensibilmente da paese a paese (ma va ricordato che tale percentuale dipende anche dal numero complessivo di studenti che si iscrivono nei vari istituti). In Belgio, Francia e Spagna sembra che l’istruzione generalista dia risultati nettamente migliori, mentre in Italia (seppur con tassi di disoccupazione complessivi estremamente elevati), Olanda, Regno Unito e Svezia è l’istruzione tecnica e professionale a funzionare relativamente meglio come contrasto ai rischi di disoccupazione di breve periodo.

È importante tener presente che questi risultati potrebbero comunque soffrire di un problema legato alle caratteristiche degli studenti che frequentano l’una o l’altra tipologia di istituto: soprattutto per alcuni paesi, si veda la Germania o l’Italia, le scuole professionali/tecniche sono frequentate da ragazzi che provengono da contesti socio-economici più svantaggiati e che incontrano più difficoltà nel trovare un’occupazione rispetto a chi, invece, ha frequentato un ginnasio/liceo e proviene da un ambiente familiare benestante. In questo senso, l’istruzione professionale ha probabilmente un’efficacia maggiore di quella che emerge da una semplice lettura dei dati.

 

Figura 2. Quota di disoccupati ad un anno dal conseguimento del titolo per tipologia di scuola secondaria superiore

Concludendo, l’analisi condotta in un’ottica europea a partire dai dati dell’European Labour Force Survey sembra suggerire che, almeno in alcuni contesti, lo sviluppo e il potenziamento del sistema duale, fondato sull’integrazione fra scuola e lavoro e che tenga conto anche degli aspetti strutturali del mercato del lavoro, potrebbe riuscire a incidere sugli alti tassi di disoccupazione dei giovani diplomati. Rispetto a strumenti volti a consentire ai giovani di compiere esperienze in azienda sotto forma, ad esempio, di brevi stage o tirocini estivi, il sistema duale crea un rapporto continuativo e organico tra mondi che solitamente interagiscono poco: il sistema dell’istruzione, quello della formazione professionale e il mercato del lavoro.

Il processo di ristrutturazione dei sistemi di istruzione, in favore di una sempre maggior collaborazione tra scuola e lavoro, dovrebbe essere accompagnato anche dall’ abbandono del pregiudizio, molto diffuso nel contesto italiano, secondo cui i percorsi formativi si suddividono gerarchicamente tra ambiti “culturali” (i licei) e ambiti “pratici” (i professionali ed i tecnici). Deve farsi strada l’idea che ogni percorso ha valore culturale e consente, a partire dalla propria caratterizzazione, di perseguire mete formative equivalenti.

 

* Le analisi contenute nel presente saggio si basano su dati forniti da Eurostat nell’ambito del contratto RPP 14/2018-EU-SILC-AES-SES. I risultati e le conclusioni sono il frutto soltanto del lavoro degli autori senza che Eurostat vi abbia preso parte.

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