Istruzione, istruzione, istruzione. Alle origini del declino economico italiano

Maurizio Pugno sostiene che alla base del declino economico italiano e di molti altri segnali di malessere individuale, manifestatisi negli ultimi 15 anni vi è il basso livello dell’istruzione, da quella per l’infanzia a quella acquisita (o persa) nel corso della vita. Poiché tali fenomeni sono in controtendenza con l’Europa mentre nei decenni precedenti, sia il Pil, sia il benessere, sia l’istruzione erano vicini agli standard europei, Pugno ritiene che l’istruzione, intesa non solo come capitale umano, debba diventare un obiettivo di policy imprescindibile.

Nel terzo trimestre del 2018 il PIL italiano ha registrato un segno negativo. Per la terza volta in pochi anni l’Italia potrebbe entrare in recessione, senza peraltro aver mai raggiunto il livello di pre-crisi del 2007. Il declino italiano è ormai evidente, anche rispetto alla pur modesta crescita europea. Diversi economisti riconoscono che non stiamo attraversando una semplice fase ciclica negativa, ma piuttosto una crisi strutturale. Basta ricordare ancora che la produttività (totale dei fattori) è in tendenziale diminuzione dagli anni ’90, del tutto in controtendenza con i nostri maggiori partner europei.

Le cause del declino economico italiano sono state indagate secondo due grandi prospettive: una si concentra sulla struttura produttiva, l’altra sull’assetto e funzionamento politico-istituzionale. Meno esplorata è una terza prospettiva, che si concentra sul ruolo del capitale umano non solo nella produzione, ma anche nella società, e nello sviluppo delle capacità personali. Questa prospettiva invita a ricercare le cause del declino economico italiano indietro nel tempo e all’origine della struttura produttiva e istituzionale.

Uno degli indicatori più usati del capitale umano è l’istruzione. Benché sia un indicatore parziale, può essere agevolmente osservato nella sua evoluzione durante lo sviluppo economico italiano. Le figure 1 e 2 mostrano, rispettivamente, il (logaritmo del) PIL pro-capite italiano, e il numero medio degli anni di istruzione della popolazione, in entrambi i casi sono calcolati come differenza tra Italia e media europea. I due grafici mostrano la stessa dinamica: in un primo periodo l’Italia si avvicina all’Europa, in un secondo si muove insieme all’Europa, e nel periodo più recente se ne allontana drammaticamente.

Che il nostro paese fosse molto indietro nell’istruzione rispetto agli altri paesi è confermato anche dalle recenti indagini sulle competenze linguistiche e matematiche della popolazione, in cui l’Italia compare come penultima tra i 24 paesi dell’Ocse (indagini PIAAC). Né le indagini internazionali sulle competenze degli studenti (PISA) ci posizionano molto meglio e con sufficienti progressi per ridurre il gap.

Questi recenti risultati così deludenti vengono da lontano, perché persino durante i mitici anni ’60 lo sforzo per metterci in pari non fu sufficiente. Un contro-esempio è la Finlandia che partiva da un livello d’istruzione della popolazione che era inferiore a quello italiano, ma nel giro di 10 anni ci superò, ed oggi la Finlandia è tra i primi paesi nelle graduatorie mondiali sulle competenze degli studenti. Benché negli anni ’90 l’Italia avesse raggiunto un livello di ricchezza paragonabile a quello europeo, come indicato dalla figura 1, l’istruzione è rimasta indietro anche negli anni migliori, come indicato nella figura 2.

Il confronto fra le figure 1 e 2 ci mostra anche che la struttura produttiva italiana fino agli anni ’80 poteva essere competitiva in Europa con un’occupazione relativamente meno istruita. Infatti, né la produzione di tipo fordista degli anni ’60, né la produzione dei distretti industriali degli anni ’70 e ’80 aveva bisogno di lavoratori particolarmente istruiti. Il ‘modello di crescita’ di quegli anni era infatti basato sulle esportazioni via competitività di prezzo, mantenuta con la disoccupazione a partire dal 1964, e con le ripetute svalutazioni della lira negli anni ’70, ’80 e ’90.

L’Italia si è trovata dunque impreparata quando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) resero evidente la necessità di avere lavoratori istruiti per rivoluzionare i metodi di produzione, né sembrava possibile mantenere il vecchio modello produttivo davanti alla nuova concorrenza proveniente dai paesi asiatici. Ma non per questo si può dire che la riconversione sia stata ostacolata dalla scarsità di lavoratori istruiti. In tal caso infatti il rendimento dell’istruzione universitaria avrebbe dovuto aumentare, mentre è tendenzialmente diminuito dalla fine degli anni ’90, spingendoci lontano dall’Europa anche in questo caso. L’Italia oggi è una esportatrice netta di laureati nel mondo, indice che non si tratta neppure di un problema di mis-match tra il tipo offerto di laureati e quello domandato dalle imprese (dati Istat).

L’enigma tutto italiano dell’apparente eccesso di laureati può essere risolto osservando che non sono solo i lavoratori dipendenti ad essere poco istruiti ma lo sono anche gli imprenditori. Si spiega così perché le imprese preferiscono impiegare pochi laureati e, allo stesso tempo, stentano a riconvertire la produzione (B. Pellegrino, L. Zingales “Diagnosing the Italian disease”, NBER WP-23964, 2018; A. Ricci 2014). Anche questa è una caratteristica italiana che risale indietro nel tempo, che fortunatamente sta migliorando, ma molto lentamente. Fintantoché rimarrà aperta la possibilità di produrre con un basso costo del lavoro e/o in nero, le imprese potranno resistere alle pressioni del mercato e non rispondere alle agevolazioni fiscali.

Ma il capitale umano non è solo istruzione a scopo direttamente produttivo. E’ anche educazione genitoriale che influisce sui comportamenti sociali e sugli stili di vita (Heckman); è istruzione che influisce sulla salute e sulle scelte di vita famigliare (N. Powdthavee, W.N. Lekfuangfu, M. Wooden, “What’s good of education on our overall quality of life?”, Journal of Behavioral and Experimental Economics, 2015); è formazione della personalità per saper vivere più felicemente (R. Layard, A.E. Clark, F. Cornaglia, N. Powdthavee, J. Vernoit, “What predicts a successful life?”, Economic Journal, 2014). E come sono cambiati questi aspetti nel corso dello sviluppo economico italiano? Stanno anch’essi declinando?

Purtroppo i dati storici per l’Italia sono pochi, ma quei pochi ci raccontano una storia simile di ascesa e declino forse ancora più preoccupante. I dati più completi riguardano un indicatore di sintesi: la soddisfazione che hanno gli italiani della loro vita (dati Eurobarometro). La figura 3 riporta l’andamento di questo indicatore dal 1973 al 2016 come differenza dalla media europea, e mostra quanto sia sorprendente la similitudine con le altre figure. In particolare, si può osservare che la soddisfazione di vita è diminuita da 2/3 decenni relativamente ai livelli europei in misura consistente, tant’è che, a livelli assoluti, nel 2016 è circa la stessa di quella degli anni ’80 quando il reddito medio in termini reali era il 20% più basso. Né i dati più recenti sono migliori, perché la rilevazione del maggio 2018 riporta un ulteriore allontanamento dai livelli europei (dati Eurobarometro).

Questa situazione è confermata da altre evidenze più specifiche. La sofferenza psicologica, come l’umore depresso, sentirsi abbattuti o ansiosi, è aumentata tra i giovani di 15-29 anni dal 2005 al 2012, dopo un periodo di relativa stabilità (dati Istat). La percezione degli italiani della propria salute è peggiorata dal 2003 al 2016 (dati EQLS). Confrontandoci con i paesi ricchi si può osservare che gli adolescenti italiani appaiono tra i più depressi, irritabili, nervosi, o con difficoltà a dormire nell’ultima settimana tanto nel 2006 quanto nel 2013 (dati Unicef). Si potrebbe dunque affermare che tra gli italiani si sta diffondendo il malessere anziché il benessere.

A conferma che non è stato sempre così, si può osservare come sono cambiati dal periodo precedente gli anni ’90 due aspetti delle persone che da un lato sono influenzati dall’istruzione, e dall’altro sono importanti per il benessere. Sono la capacità percepita di controllare la propria vita, e la fiducia negli altri. Ebbene, in entrambi questi aspetti si registra ancora una volta una prima fase di miglioramento (1981-1990) ed una successiva di deterioramento (1990-2009) (dati EVS).

Pertanto, il peggioramento delle condizioni economiche degli ultimi 2/3 decenni, ulteriormente aggravato dalla crescente disuguaglianza, sembra aver avuto un effetto oltremodo pesante sugli italiani proprio perché successivo ad un periodo di tanti miglioramenti. Si può dire che gli anni ’90 hanno segnato la fine di un’epoca, e se si volessero identificare due shock responsabili di questo, si potrebbero citare la severa restrizione fiscale, e la rapida flessibilizzazione del mercato del lavoro (M. Pugno, F. Sarracino, “Approaching the bliss but then losing the chance: the case of happiness in Italy”, Relazione presentata alla HEIRS International Conference, Napoli, 15–17 nov. 2018).

Viene da chiedersi se il recente malessere personale e sociale sia solo il risultato, o possa essere una recente con-causa del declino economico. Per rispondere a questa domanda non esistono abbastanza dati sulla realtà italiana. Però i dati ricavati da campioni di diversi paesi forniscono informazioni interessanti, perché indicano, ad esempio, che la fiducia negli altri è una determinante-chiave della crescita economica, da cui si deduce che il calo di fiducia tra gli italiani potrebbe aver contribuito al declino economico (R. Horvath, “Do trust promote growth?”, Journal of Comparative Economics, 2013). Questo si può spiegare anche a livello di impresa, perché è stato osservato che meno fiducia implica meno decentramento delle decisioni, minore crescita delle dimensioni d’impresa, e quindi meno produttività (N. Bloom, R. Sadun e J. Van Reenen, “The organization of firms across countries”, Quarterly Journal of Economics, 2012). Un secondo esempio è offerto da alcuni studi secondo i quali la felicità dei lavoratori influenza la produttività (A. Oswald, E. Proto, D. Sgroi, “Happiness and productivity”, Journal of Labor Economics, 2015; C.H. Dimaria, C. Peroni, F. Sarracino, “Happiness matters”, MPRA paper, 2014), suggerendo anche in questo caso che la minore soddisfazione di vita degli italiani potrebbe aver reso i lavoratori italiani meno produttivi.

Per concludere, se si vogliono capire le origini del declino economico italiano non si può ignorare il ruolo dell’istruzione nel suo più ampio e profondo significato. Riconoscere questo porta a concludere anche che per risollevare l’Italia dal declino occorre porre tra le priorità di politica economica e sociale l’istruzione generale per tutta la popolazione, includendo l’educazione per l’infanzia fino alla formazione delle capacità personali e sociali per gli adulti di ogni età. Suona come un monito il caso degli Stati Uniti in cui l’istruzione s’è fatta sempre più selettiva e specialistica, ma contemporaneamente la fiducia negli altri è calata, i giovani sentono di controllare sempre meno la propria vita, e la felicità tende a diminuire (M. Pugno, On The Foundations of Happiness in Economics, Routledge, 2016). Occorre invece un’istruzione inclusiva, in grado di ridurre le disuguaglianze e di aumentare le risorse umane non solo per la produzione, migliorando le capacità degli imprenditori e dei lavoratori, ma per tutti gli ambiti di vita delle persone e delle comunità.

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