Istruzione e giustizia nella trappola della meritocrazia

Alessandra Pelloni riflette sul concetto di meritocrazia e richiama l’attenzione sulle varie contraddizioni che sorgono quando si cerca di applicarlo a società stratificate in base al potere e alla ricchezza. Traendo ispirazione dalle tesi di Michael Sandel, Pelloni sostiene che per superare queste contraddizioni è necessario fare ricorso a soluzioni collettive, valutando con maggiore modestia l'ambito delle scelte individuali.

Pochi contesterebbero che nello scegliere chi debba svolgere un lavoro, che sia riparare un bagno o stipulare un contratto, il merito, inteso come capacità tecnica e d’impegno, debba contare e che sarebbe ingiusto oltre che inefficiente condizionare la scelta a pregiudizi razziali o di genere. Altrettanto ovviamente sia nel pubblico che nel privato favoritismi e nepotismi sono da evitare come fonte d’inefficienza e ingiustizia. Per finire pochi negherebbero che la possibilità di accesso all’istruzione che premi l’impegno ed il merito non debba dipendere dallo status della famiglia d’origine.

Volendo andare oltre questi truismi, occorre distinguere tra merito e meritocrazia. Il secondo termine nasce di censura e non di lode, popolarizzato dal sociologo inglese Michael Young nel romanzo satirico “The Rise of the Meritocracy: 1870-2033” del 1958. Questa la trama: il Regno Unito nel 2034 è sull’orlo della rivoluzione; aboliti da tempo i privilegi ereditari tradizionali in nome dell’uguaglianza delle opportunità, i ruoli di potere e prima un’istruzione di alta qualità sono attribuiti sulla base di esami psicometrici. Sulla base di questi esami, introdotti nel ’44 dall’Education Act sul diritto all’istruzione secondaria pubblica, mentre Young scriveva, si decideva chi tra gli undicenni britannici potesse aspirare alla Grammar School e poi agli studi universitari. Negli stessi anni, Harvard e poi Yale introducevano lo Scholastic Aptitudinal Test, con l’idea di consegnare al passato le ammissioni su base censitaria e attingere per la formazione delle future classi dirigenti al bacino di talenti più ampio possibile. Nel racconto di Young, la miscela tossica di arroganza dell’élite cognitiva, orgogliosa dei propri meritati successi, e umiliazione risentita di tutti gli altri, quelli che non ce l’hanno fatta, sfocia nella rivoluzione. Nella distopia di Young, la rancorosa sofferenza dei rivoltosi nasce non dalle privazioni materiali, superate grazie al progresso tecnico prodotto dall’organizzazione scientifica della società, ma dalla mancanza di dignità che questa organizzazione comporta per chi sta in basso.

Obiettivo polemico di Young, laburista radicale, è la posizione della maggioranza del suo partito, ancora influenzata dall’eugenismo dirigista e economicista dei Fabiani che, da George Bernard Shaw ai coniugi Webb, avevano indicato nella riproduzione selettiva il futuro del socialismo. Si dovrà aspettare il ’64 per l’abolizione della diversificazione scolastica precoce con la creazione delle Comprehensive Schools.

Un’analisi senza concessioni alla meritocrazia nell’ambito del sistema dell’istruzione francese, con la sua religione della graduatoria, è poco dopo dovuta a Pierre Bourdieu e Henri Passeron (Les Héritiers 1964), che mostrano i meccanismi attraverso cui le differenze sociali diventano differenze scolastiche, legittimando le prime e allo stesso tempo trasmettendo capillarmente l’ideologia della competizione. Mentre per Young la meritocrazia è un’ideologia disfunzionale che corrode i legami sociali, per i francesi il problema è la sua funzionalità simbolica nel naturalizzare la disuguaglianza.

Dagli anni ’80, superata la stagione della contestazione, il termine meritocrazia entra nell’uso corrente con il significato positivo di società in cui le disuguaglianze sono accettabili (e accettate) perché ciascuno può emergere grazie al proprio talento e impegno. Young ha vissuto abbastanza da vedere, con suo grande disappunto, il termine così usato dal New Labour di Tony Blair.

Tra critiche le più trancianti contro questa visione quella dello psicologo James Flynn, famoso per aver individuato il forte trend positivo nel secolo scorso del valore del quoziente intellettivo medio della popolazione nei paesi occidentali, ovvia spia dell’effetto dell’ambiente sulla variabile. Flynn argomenta che meritocrazia significa allocare le risorse secondo il merito ma allo stesso tempo e paradossalmente indipendentemente dal merito, come necessario per assicurare a tutti pari opportunità. Più in dettaglio: una società meritocratica ma stratificata per potere e ricchezza soffre di una discrasia sul piano dei valori che dovrebbero integrarla. Da una parte si assume a) che i membri della società competano per ottenere potere e ricchezza ma dall’altra che b) chi li ottiene accetti di non trasmetterli ai propri discendenti e in gran parte di privarsene per finanziare i massicci investimenti pubblici in sanità, istruzione ecc. necessari per assicurare a tutti i membri delle generazioni successive di competere ad armi pari per potere e ricchezza. Ovvia l’inconciliabilità tra i valori materialistici/ elitisti che muovono i comportamenti in a) e i valori di giustizia che sorreggono le rinunce in b).
Alle voci critiche della meritocrazia ha dato enorme volume negli Stati Uniti, il paese che nell’immaginario globale più incarna l’ideale, la vittoria di Trump del 2016, che è sembrata realizzare, con 17 anni di anticipo, la profezia di Young sull’inevitabile contraccolpo populista. In The Tyranny of Merit (Penguin Books 2020), Michael Sandel, filosofo politico di Harvard con il seguito mondiale di una rockstar, sostiene che evocare razzismo e xenofobia per spiegare perché molti colletti blu e in generale molti elettori di bassa condizione sociale, i ‘deplorables’ secondo la definizione autoassolutoria di Hillary Clinton, abbiano sostenuto Trump, significa dimenticare che si tratta dei perdenti di una globalizzazione i cui frutti sono stati distribuiti in maniera molto ineguale. Basti dire che la quota di reddito nazionale dell’1% più ricco è maggiore di quella del 50% più povero mentre il reddito reale per adulto del 50% più povero è fermo da quarant’anni.

Al gioco globalista hanno collaborato, da Reagan in poi, entrambi i partiti mainstream, uniti dalla fede non necessariamente nel laissez faire ma sicuramente nelle forze di mercato come via maestra al bene comune. Scelte come la progressiva abolizione delle barriere ai movimenti internazionale di beni e capitali, la deregulation dei mercati finanziari, fino al piano di bailout per fronteggiare la crisi del 2008, che insieme alle banche ha salvato i banchieri, sono state presentate come imperativi economici, e quindi sottratte al dibattito democratico. La traslazione del potere di decisione dai cittadini agli esperti, ha ulteriormente acuito il senso di spossessamento e di esclusione degli elettori meno ‘competenti’, quelli senza istruzione superiore, ancora la grande maggioranza (70%) della popolazione negli Stati Uniti, come negli altri paesi avanzati.

A fronte della distruzione di intere comunità operaie, in cui sono arrivate ad aumentare le morti per disperazione, l’insistenza dei democratici, dai Clinton ad Obama – dall’analisi testuale dei suoi discorsi l’utente più accanito tra i leader politici della parola merito- sul valore dell’istruzione come chiave del successo è stata di poco conforto per i meno istruiti. Giustamente impegnati nel combattere le discriminazioni di genere, razza, e orientamento sessuale i progressisti hanno alimentato il credenzialismo, la classificazione degli individui in base al titolo di studio, che Sandel definisce ironicamente come l’ultimo pregiudizio ammissibile. Non sorprende dunque che i loro elettori più fedeli, tra i bianchi, vengano oggi non più dai ceti popolari ma da quelli professionali, una tendenza prevalente a livello internazionale per i partiti socialdemocratici e che ha fatto parlare di sinistra brahminica (si veda Clivages Politiques et Inégalites Sociales, curato da A. Gethin, C. Martinez-Toledano, T. Piketty, Seuil/Gallimard 2021). Su questi elettori, i lavoratori superordinati , per dirla con Daniel Markovits (The Meritocratic Trap Penguin Press, 2019), commentato sul Menabò da Elena Granaglia, l’intreccio tra ideologia meritocratica e concezione tecnocratica della politica ha una presa potente.

Come Flynn, Sandel non ritiene attuabile un’organizzazione meritocratica della società: il miglior sistema di istruzione pubblica non riuscirebbe a neutralizzare il ruolo della famiglia nel perpetuare le disuguaglianze. Sicuramente ciò non avviene negli Stati Uniti dove l’istruzione terziaria è una costosissima macchina di valutazione e accreditamento che non funziona come ascensore sociale. Come preconizzato da Young, i risultati al SAT degli studenti ricalcano la posizione sociale delle loro famiglie, che avendone i mezzi investono fin dall’asilo d’infanzia nell’addestrare i figli a superarli. Di fatto solo il 3% degli studenti che frequentano i cento college più prestigiosi viene dal 25% più povero delle famiglie, mentre il 70% viene da quello più ricco, con buona pace del sogno americano, smentito anche dall’alta elasticità intergenerazionale del reddito del “from rags to riches” .

Ma secondo Sandel una società in cui la disuguaglianza nei risultati anche estrema fosse dovuta solo allo sforzo e al talento individuali e non ai privilegi ereditari sarebbe comunque ingiusta.

Sandel segue John Rawls nell’osservare che non meritiamo i nostri talenti naturali, tra cui la capacità d’impegnarsi. Inoltre, i proventi economici derivanti dalle abilità individuale dipendono principalmente dalla loro scarsità relativa, determinata da fattori sociali quali lo stato della tecnologia e le preferenze dei nostri contemporanei, di cui non abbiamo ovviamente responsabilità e che non sono invarianti all’azione pubblica, punto su cui torneremo.

In quest’ottica, i risultati individuali dipendono dalla società e vanno considerati patrimonio comune e la disuguaglianza nella loro distribuzione è giusta solo se favorisce i meno avvantaggiati. Giusta perché verrebbe scelta dietro il famoso “velo di ignoranza” da agenti consapevoli del ruolo del caso nel situarci nel mondo e dunque fortemente avversi al rischio. Il cosiddetto “principio di differenza”, così derivato, implica che chi gode di posizioni di preminenza sociale non può dirsi meritarle ma ha ad esse un diritto di legittima aspettativa se sono compatibili con le regole della cooperazione in una società ben ordinata.

Sandel nota che l’eliminazione della nozione, morale, di merito dalla costruzione Rawlsiana è una mossa teorica necessitata dal principio liberale della separazione di morale e giustizia, secondo cui la società va organizzata in modo che al suo interno possano confrontarsi concezioni morali diverse: nessuna di queste può quindi determinarne l’organizzazione. Sarebbe molto difficile sostenere che oggi viviamo nella migliore delle società possibili dal punto di vista degli sfavoriti anche restando nell’ottica delle comunità nazionali da cui Rawls ragiona nella sua opera principale. Ma, se anche lo fosse, si chiede Sandel, sarebbe sufficiente distinguere tra il meritare una migliore condizione economica e l’avere ad essa un diritto sulla base di giuste regole di cooperazione sociale, per evitare che l’allocazione della stima sociale ricalchi e ingigantisca l’impatto negative sulle nostre esistenze di quella diseguale delle risorse economiche?

Qui Sandel si rifà a Axel Honneth, l’esponente principale della terza generazione della Scuola di Francoforte, secondo cui, hegelianamente, la posta in gioco nei conflitti distributivi è anche e forse soprattutto il riconoscimento e la stima. Un liberale potrebbe rispondere che la distribuzione del prestigio e dell’ammirazione dipende da giudizi di valore e quindi rientra nella sfera della morale (privata) e non della giustizia. Sandel ovviamente non nega che nelle società democratiche possano e debbano convivere visioni diverse dei fini sociali, ma afferma che appunto il confronto tra queste visioni deve essere il centro della sfera politica.

Il valore dei fini che perseguiamo, come individui e collettivamente e l’adeguatezza dei mezzi con cui li perseguiamo non possono ridursi a faccenda privata. Una società è giusta non solo per come distribuisce i beni ma anche perché decide giustamente quali beni distribuire, a quali dare valore e non delega queste decisioni al solo mercato, facendo dei prezzi un sistema di valutazione morale.

Al concetto di giustizia distributiva va dunque affiancato quello di giustizia contributiva, secondo cui abbiamo intimo bisogno di sentirci necessari alla collettività che deve essere quindi regolata in modo che tutti possano contribuirvi. Bisogna rovesciare la prospettiva che vede la soddisfazione delle nostre preferenze di consumo, prese come dato esogeno, come lo scopo unico della società, e valutare invece il sistema economico anche per come organizza il lavoro, altrettanto e forse più importante del consumo nel darci identità, nel permettere di raccontarci.

Per ridurre l’hubris meritocratica dei lavoratori superordinati e ridimensionare il ruolo selettivo dell’istruzione terziaria Sandel propone di sorteggiare le ammissioni alle università più ambite al di sopra di una soglia minima di qualificazione così da ribadire il ruolo della fortuna nelle nostre vite. Per ripristinare la dignità del lavoro subordinato e aumentarne la domanda, affermandone la natura di bene “meritorio” raccomanda invece l’abolizione dei contributi sociali e la tassazione dei patrimoni finanziari. Questi spunti vanno letti come un invito a valutare con maggiore modestia l’ambito delle possibilità di scelta individuale e ad essere invece più ambiziosi circa le possibilità di azione della società nel suo complesso. Credo l’invito vada raccolto.

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