Islam e finanza nella quotidianità: i risultati di una ricerca esplorativa

Valentina Moiso e Roberta Ricucci si occupano di finanza islamica - cioè in sintonia con le norme della sharīʿah - che sta ricevendo crescente attenzione nei mercati globali, adottando un punto di vista non usuale: come i fedeli di Maometto gestiscono risparmi e investimenti nei paesi occidentali. Basandosi su una loro ricerca esplorativa, le due autrici analizzano il nesso tra precetti religiosi, strumenti, principi e iniziative legati all’economia e da questo traggono anche indicazioni sull’integrazione sociale delle comunità musulmane in Italia.

L’attenzione alla finanza islamica è aumentata negli ultimi decenni, nei Paesi musulmani ma anche in Occidente, con una crescita costante di prodotti di mercato ispirati all’Islam negli Stati Uniti e in Europa. Inoltre, va prendendo piede una visione della finanza rispettosa di quanto previsto dalla sharīʿah come parte integrante (ancorché non maggioritaria) del sistema economico globale.

L’argomento è stato teorizzato, a partire dagli anni Cinquanta, nel contesto della raggiunta indipendenza politica di molte nazioni a maggioranza musulmana. La fine del colonialismo portò con sé anche la possibilità di sperimentare e lanciare nuovi strumenti della finanza, spesso ispirati a meccanismi finanziari tradizionali, in nazioni come l’Egitto e l’Algeria, la Malaysia e gli emirati del Golfo Arabo.

Prodotti e servizi devono quindi rispettare i dettami della legge religiosa islamica; allo stesso tempo essi hanno la necessità di essere conformi alle norme dei mercati bancari e finanziari, a livello sia locale sia sovranazionale. La conciliazione di questi aspetti, spesso tecnicamente complessa, rappresenta il principale contenuto della letteratura sul tema.

C’è tuttavia un altro punto di vista, meno indagato ma di sicuro interesse: il rapporto tra i fedeli e la finanza nei paesi occidentali, dove la maggioranza agisce seguendo modalità, regole e abitudini del tutto separate dalla religione tradizionale. Ci si chiede allora se gli immigrati di fede musulmana si pongano il problema di conciliare le proprie opzioni di risparmio e investimento con il dettame religioso, come pure se nel passaggio tra la prima e la seconda generazione queste scelte si modifichino.

La ricerca presentata nel nostro volume “La Banca e il Minareto” (Edizioni Dehoniane, 2017), da cui esitano le riflessioni qui presentate, intende dare un contributo nella risposta a tali quesiti, partendo dall’analisi del rapporto tra religione, strumenti, principi e iniziative legati all’economia e integrazione sociale delle comunità musulmane in Italia.

La dottrina islamica guarda con favore allo sviluppo e alla creazione di ricchezza, ma dà rilievo ad aspetti di giustizia ed equità che devono essere raggiunti attraverso il perfetto equilibrio delle prestazioni contrattuali, visto come conseguente all’ordine morale divino.

Sul piano teorico, il fedele è chiamato a porre attenzione ad almeno quattro aspetti considerati dalla dottrina come basilari, che sono trasversali a ogni campo di applicazione dell’economia:

  • il divieto dell’interesse (ribà);
  • il divieto di speculazione (maysìr) attraverso l’introduzione di elementi incerti nelle negoziazioni (ghàrar);
  • l’elemosina (zakàt) come modalità per giungere a una distribuzione “equa” della ricchezza;
  • non fare uso, né commerciare o investire in beni o attività proibite (haram).

Tali elementi rappresentano il fondamento della relazione con i mercati secondo i parametri dell’etica economica musulmana, nel più generale rapporto tra lecito (halal) e illecito (haram). Nondimeno, la coerenza tra la propria fede e la gestione del denaro nei differenti ambiti di vita è un fattore complesso e spesso problematico, di fronte al processo di secolarizzazione che investe l’Occidente e al suo interno una porzione crescente delle stesse comunità musulmane.

I principali dati in proposito mostrano come l’esperienza di famiglie e piccoli imprenditori islamici in Europa non sia legata a strumenti finanziari conformi alla sharīʿah. La crescita di questi prodotti sui mercati occidentali sembra invece rispondere alla ricerca di nuovi strumenti di investimento sui mercati globali e alla necessità di attrarre capitali sulle principali piazze finanziarie, soprattutto quella di Londra. D’altro lato, la finanza islamica non sembra espressione dei bisogni della popolazione nemmeno negli stessi paesi a maggioranza musulmana in cui si è sviluppata dopo la conquistata indipendenza politica. Occorre ricordare che in quei territori le banche tradizionali sono un esempio di istituzione importata dalle potenze coloniali nei paesi occupati, dove prima della colonizzazione il sistema di scambio di denaro era basato su una figura assimilabile ai cambiavalute: la prima banca operativa è stata la Banca Egiziana, fondata nel 1856 da investitori britannici. La traduzione dei precetti religiosi in regole che definiscono i confini del lecito e dell’illecito nelle transazioni finanziarie è stata un’operazione guidata dall’alto e orientata anche dal desiderio – proprio delle classi dirigenti di tali nazioni, tra cui gli esponenti religiosi – di riappropriarsi di un’istituzione estranea alla propria tradizione religiosa, culturale ed economica, ma ormai accettata e diffusa tra la popolazione.

Ciò non significa che per i fedeli musulmani della diaspora il legame fra economia e religione sia inesistente; piuttosto l’appartenenza religiosa condiziona l’agire degli immigrati con modalità differenziate e fortemente dipendenti dal contesto sociale, oltre che dalle proprie caratteristiche professionali e di ceto.

Etichettamento del denaro e razionalità economiche.

Nella ricerca, condotta tramite interviste e focus group presso una comunità religiosa torinese, emerge come le pratiche individuali e familiari di gestione del denaro siano informate da credenze religiose, ma non necessariamente, o non solo, nelle direzioni previste dalla teorizzazione alla base della finanza islamica.

Nell’amministrare il denaro che entra in famiglia, ad esempio, può valere l’indicazione religiosa della non obbligatorietà per la donna a contribuire alle spese domestiche, onere tutto maschile. Ne discendono comportamenti differenti collegabili soprattutto al livello di istruzione e alla classe di appartenenza, in cui è possibile rintracciare quelle pratiche di etichettamento del denaro (earmarking) rilevate dalla sociologa statunitense Viviana Zelizer. Moglie e marito, anche mediante una gestione indipendente di conti correnti separati, utilizzano il denaro dello stipendio del marito per il mantenimento della casa e della famiglia mentre quello della moglie per attività aggiuntive quali viaggi, sport e ricreazione. Anche il denaro dei trasferimenti statali può venire etichettato come denaro della donna, in particolare se collegato ai figli, e da lei gestito indipendentemente dal marito.

Soprattutto tra le prime generazioni questo denaro viene convertito in oro, accumulato e sfoggiato dalle donne, e riconvertito in denaro in occasione dei costosi viaggi in Marocco, del matrimonio dei figli o dell’acquisto di case. Oppure viene scambiato attraverso i circoli fiduciari del denaro, antica tradizione non solo musulmana, in cui un gruppo ristretto accumula e si scambia somme di denaro a cadenza periodica. Si tratta soprattutto di donne senza lavoro che non possono contare su un reddito fisso, ma su entrate straordinarie o sui risparmi della spesa, oppure, in particolare per le seconde generazioni, di modalità con cui le donne si supportano nel mettere da parte cifre importanti per un progetto comune, come nel caso delle sorelle che hanno aiutato il fratello a comprare casa senza chiedere un mutuo bancario.

Risparmiare denaro per investirlo in oro, rivenderlo e utilizzarlo, oppure prestarlo: tramite queste azioni le donne riescono a evitare la ribà, l’interesse illecito, o a farla evitare ai figli e ai parenti. Le pratiche connesse, però, sono riconducibili a un saper fare appreso in famiglia e condiviso in comunità, tramite la sala di preghiera, più che all’applicazione consapevole di dettami religiosi. Diverso, ad esempio, è il rimando esplicito alla zakàt, per cui a fronte di 80 grammi di oro posseduto occorre donare in elemosina il 2,5% del suo valore, operazione che occupa i fedeli nella sala di preghiera tra calcoli e versamenti.

Più in generale, nel caso studiato le decisioni riguardanti risparmi e investimenti sono informate da dettami religiosi così come da norme culturali riconducibili soprattutto a dinamiche migratorie, in un intreccio in cui a contare veramente non è tanto il Corano quanto le interazioni faccia a faccia tra fedeli nella sala di preghiera di riferimento, durante i momenti di incontro comunitari pressoché quotidiani. Inoltre, nelle seconde generazioni le dinamiche sono del tutto simili a quelle che caratterizzano i giovani italiani: la difficoltà a risparmiare anche per le coppie bi-reddito, dovuta ora all’inadeguatezza dei salari ora alla precarietà lavorativa e ai non infrequenti periodi di disoccupazione in particolar modo del marito.

In altre parole, lo sviluppo del rapporto tra dimensione economica e spirituale di quello che può definirsi come homo islamicus si costruisce nella pratica quotidiana: comportamenti conformi alle fonti del diritto islamico entrano in relazione e a volte si contrappongono con quelli dell’homo economicus e con il suo agire razionale. Non si cada però nell’errore di credere di essere di fronte a un rilassamento dei vincoli e dei riferimenti valoriali nella gestione del denaro, che alcuni studiosi vorrebbero razionale e oggettiva. La ricerca ha piuttosto rilevato l’attitudine ad attingere a frame differenti nell’atto di compiere decisioni finanziarie: si tratta del fare ricorso alle norme religiose così come alle abitudini pratiche familiari, alla razionalità così come all’emozione, un’attitudine che i sociologi hanno riscontrato anche nell’operato degli stessi esperti della finanza e teorizzata come bazar della razionalità dal sociologo francese Olivier Godechot.

Leggendo i risultati della ricerca alla luce dei dati sulla bassa diffusione degli strumenti per la clientela retail, e paragonandoli con il più importante sviluppo di strumenti per gli investitori istituzionali, possiamo concludere che se la finanza islamica può essere indubbiamente considerata un’innovazione a livello di sistema finanziario, permettendo una diversificazione del rischio sui mercati e attraendo capitali arabi sui mercati occidentali, nel contesto europeo non costituisce anche un’innovazione sociale, considerando la questione dell’integrazione delle famiglie musulmane immigrate e della coesione sociale. D’altro lato, se alcune istanze delle comunità musulmane sono alla base di nette reazioni di rifiuto da parte delle comunità locali, la presenza di esperienze legate all’Islam nell’economia e nella finanza non sono ad oggi percepite come particolarmente problematiche nei paesi ospitanti. La banca e il minareto dunque, conclude la ricerca, sembrano poter agevolmente convivere in Italia, nell’anima dei musulmani così come nel vissuto quotidiano del tessuto sociale.

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