Io c’ero

Fabio Calè, mentre Bologna assiste alla nascita delle Sardine, trascorre 4 ore con i militanti leghisti accorsi al PalaDozza per acclamare Matteo Salvini e la candidata leghista alla presidenza della Regine, Borgonzoni, ansiosi di scrivere una pagina di storia della politica italiana. La cronaca fedele e lievemente allucinata del rito politico leghista permette di compiere una fugace immersione nella cultura della destra sovranista, così come essa si autorappresenta dinanzi ai suoi adepti.

Ho deciso, ci vado. Avrei preferito un comizio in piazza, per avere più libertà di movimento, ma anche l’ossimoro Salvini al PalaDozza può avere il suo perché.

Jimi Hendrix, James Brown, Miriam Makeba, Bruce Springsteen, il XII congresso del PCI, l’assemblea del movimento del 77, Guccini, Rossi, i C.S.I., i Rolling Stones. Il Basket. E Matteo Salvini.

A quanto pare sono tra i pochi ad aver preso sul serio il Resto del Carlino, che suggeriva di arrivare due ore prima, all’apertura dei cancelli, per non rimanere fuori causa esaurimento posti (circa 5800). Alle 18.50, quando entro, ci saranno meno di un migliaio di persone, concentrate in un solo spicchio del palazzo.

Pur deciso a immedesimarmi il più possibile, non accetto una bandiera offertami da un membro del servizio d’ordine (meglio non esagerare), ma trovo sul mio seggiolino il kit: busta con cappellino, penna e volantino, tutto in giallo e blu.

Mentre mi domando come impiegare le successive due ore, sul maxi-schermo sospeso sul soffitto del palazzetto cominciano a scorrere i video del Capitano, accompagnati da una colonna sonora di stampo generalista: da Battisti a Renato Zero, passando per Rino Gaetano e Lucio Dalla; più volte Bennato e Vasco Rossi, Nek, Jeeg-Robot, Prendi questa mano, zingara. Povia scalda i cuori con la sua hit I bambini fanno ooh: l’interprete della lingua dei segni guida le danze fomentata come fosse l’inno dei suoi anni migliori.

Giudico a buon punto il mio processo di immedesimazione quando mi sorprendo a canticchiare Strani amori.

Salvini, sullo schermo, mangia, ride, chiacchiera, ascolta, e, soprattutto, imbraccia smartphone di ogni colore e modello per selfie di massa. Un video in particolare attrae la mia attenzione, quello in cui visita un negozio di armature medievali, indossando anche un curioso guanto in ferro.

Sagre, popolo, selfie: uno di noi, uno di loro.

Verso le 20 lo scenario cambia: sono arrivati i pullman, e la mia zona è invasa da una festosa delegazione proveniente dalla Romagna: Forlì, Rimini, Sant’Arcangelo. Magliette e felpe blu ovunque, io l’unico estraneo, si sta stretti e si comincia a cantare: Romagna mia, e a sorpresa la so. La militante al mio fianco non molla il cellulare un attimo, scatenando una potenza di fuoco nei selfie che mi lascia attonito: circa 10 al minuto. L’allegra brigata aumenta il volume quando s’avvicina una moglie entusiasta, intenta a offrire il marito ex-ministro, e i relativi selfie, come premio di partecipazione ai suoi conterranei. Si tratta di Centinaio, un tipo molto alla mano, tamarrissimo col suo ciuffo rockabilly, acchittato in stile Zaia. Oltre a una involontaria gomitata in testa dovuta all’entusiasmo generale, mi viene proposto dalla campionessa di selfie un prezioso braccialetto con la scritta 100xCentinaio, che accetto sorridente. Lui però, il braccialetto, solo apparentemente un anonimo agglomerato di materie plastiche, ha un’anima, tant’è che si spezza non appena entra in contatto con la mia pelle di nicodemita. Lo nascondo in fretta, confidando nel caos.

Salvini, quello in carne e ossa, effettua di tanto in tanto rapide incursioni: un angolo di palazzetto, un abbraccio, un selfie e via, mostrandosi indaffarato ma allegro, come non potesse resistere al desiderio di misurare direttamente la temperatura della folla.

Sono ormai le 20.30. In platea c’è agitazione, gruppi di giovanotti in tiro si muovono da un lato all’altro per allegrissimi happening fotografici; sembra una festa di laurea o un matrimonio. Sono parlamentari.

Salvini impugna il microfono e chiede di attendere ancora poco, perchè “un migliaio di persone” sta cercando di raggiungere il PalaDozza nonostante i contestatori. Dei 1000 in più non v’è traccia, ma poco dopo le 21 il colpo d’occhio pare sufficiente per iniziare.

Si abbassano le luci, parte Notti magiche. Il conduttore, un Mario Giordano traboccante di felicità per questa serata di popolo, introduce l’intervento d’apertura.

A sorpresa si tratta di un poeta, “il grande Rondoni”.

“Se un poeta è qui è perché la poesia è l’arte della bellezza, della libertà”. Arte e cultura devono essere liberi: “nè di destra nè di sinistra, nè di sopra nè di sotto”. Chiama in suo sostegno Pasolini, che aveva profetizzato “il dominio di una cultura fondata sui luoghi comuni, nella quale non si può discutere”. Segue Manzoni: è il popolo a conoscere “il sugo della storia”, non il direttore di Repubblica o del Corriere (questo lo aggiunge lui, che pure ha collaborato con il Sole 24ore e Avvenire, ma è un poeta “cristiano e di temperamento anarchico, in quanto romagnolo” – a proposito di luoghi comuni). “Non amo avere padroni in terra, semmai patroni in cielo”. La poesia è un modo di conoscere e amare la propria terra, e a dimostrazione di questo suo pensiero cita Pascoli, cantore della campagna, del lavoro degli umili, della piadina, “un applauso per la piadina” (arriva copioso). Bertolucci e le sue castagne, Guinizzelli, “quello che ha inventato la poesia d’amore in Italia, lo Stil novo, quello che ha inventato il fatto che l’uomo si nobilita puntando sull’amore e sul desiderio, non su quello che ha”.

Il desiderio, dunque: qui giunge l’umile consiglio che il poeta porge alla politica. Puntare sul desiderio di coloro che “dal basso hanno fatto tante cose belle” (sul “dal basso” crescono gli applausi). Mentre qui, in questa terra, “la politica ha voluto organizzare tutto, cercando il sistema perfetto”, che non può esistere, come dimostra il fatto che “un bambino anni fa in Piazza Maggiore è morto di freddo”.

Puntare sul desiderio e sul cuore, in una terra che ha dato vita anche a tanti santi e missionari, “quelli buoni veramente, non quelli dell’ultimo miglio”; e poi, “ne parlavo con Matteo”, un grande cardinale, Biffi, colui che definì Bologna “sazia e disperata”, perchè i soldi, lo sappiamo, non danno la felicità. Quindi la politica “può aiutare in questo, a non sostituirsi al desiderio della gente, a non sostituirsi alla volontà di fare”. Del resto, già il “suo grande amico” Don Giussani lo diceva ai politici: “Quando uno desidera e ama si organizza, prova a far qualcosa, per il bene degli altri, se invece vuoi organizzare tutto dall’alto, il desiderio svanisce”.

In conclusione, lui che sempre ha avuto “rispetto per la politica, a differenza di tanti intellettuali”, agli amici che la fanno chiede di “non dimenticare quella fiamma, quel fuoco che è all’origine del loro impegno: si può chiamare senso religioso, senso dell’ideale, desiderio. Non bisogna dimenticarselo mai; e, per non dimenticarselo, non bisogna guardarsi allo specchio: bisogna scegliersi gli amici giusti, quelli che ti aiutano a ricordarlo.” Lui, di certo, lo è.

Dopo il poeta, in una scaletta che mostra il chiaro intento di rivendicare alla nuova destra sovranista una piena legittimità culturale, tocca al “ricercatore sociale” Alessandro Amadori. Esordisce stringendo la mano ai disabili presenti, prosegue affermando che l’identità è il segno distintivo del XXI secolo, ovunque nel mondo, e che in Emilia-Romagna “l’io diventa noi”. Fin qui era meglio il poeta, anche se scoprirò più tardi, grazie alla prima riga della sua biografia su Wikipedia, che “viene ricordata la sua partecipazione, nel 1985, al quiz Superflash, condotto da Mike Bongiorno. Si presentò portando come materia la vita e le opere di Freud”. Infatti, poco dopo, riscatta un’oratoria un pò fiacca con una frase fulminante, evidentemente frutto degli anni spesi a specializzarsi in psico-politica: “gli animali hanno i bisogni, noi abbiamo i desideri”.

A concludere il trittico della società civile è un imprenditore della plastica, in rappresentanza del settore packaging, notoriamente rilevante nell’economia regionale. Ce l’ha con Bruxelles, che bastona la voglia di fare, e propone un ragionamento stimolante sulla geo-politica dell’inquinamento: premesso che è stupido demonizzare la plastica, perché “si punisce un prodotto, anziché un comportamento”, la verità ancora nascosta è che la plastica che soffoca i mari non è di origine europea, bensì africana e asiatica.

Tocca ai governatori: Fontana, che ribadisce la vocazione sociale della Lega affermando che in Lombardia i 70enni non pagano l’affitto; la Tesei, fresca vincitrice in Umbria e dunque simbolo vivente della possibilità di restituire la libertà alle regioni rosse, non proprio un animale da palcoscenico; l’imponente governatore sardo Solinas, molto felice di esserci ma del tutto ignorato dal pubblico; il friulano Fedriga, volto televisivo e parlamentare in crescita, l’unico insieme a Zaia a suscitare entusiasmi spontanei e corposi nei militanti.

Zaia, appunto, in tutto il suo rustico splendore, vestito da campagnolo venuto in città a sfoggiare il SUV, pollici nelle tasche dei jeans con il risvolto, scarpe adeguate alla rude vita campestre. Si aggira per il palco con movenze lievemente coatte, illustrando un esempio del suo buongoverno: è una storia di mammografie e liste di attesa troppo lunghe, in cui il miope burocrate suggerisce l’urgenza di acquistare nuovi macchinari, ma il saggio amministratore, che viene dalla strada sterrata, controlla gli orari di utilizzo delle macchine esistenti, troppo scarsi, e decide: non comprare, bensì allungare gli orari anche di notte e nei weekend. Liste accorciate, soldi risparmiati.

E’ il gran momento di Lucia Borgonzoni. Video, abbracci e foto; breve scambio di battute con Giordano, al quale rivela che la “primissima cosa” che farà sarà occuparsi della burocrazia e degli ospedali. Attillata e stivalata, moderatamente sexy, segue le orme di Zaia: dice che aprirà gli ospedali di notte e nel weekend, “così non bisogna chiedere il permesso al lavoro, che poi ti guardano male”. Comincio a capire.

Ma non è finita qui: Lucia trasformerà l’Emilia-Romagna nella “Regione dei due mari”, previo accordo con la Liguria. Il tempo stringe e la candidata non offre dettagli sulla natura dell’accordo. Anche sul centrodestra accenna, allude, non svela fino in fondo ciò che, evidentemente, molti colgono al volo, a differenza di me: “sì, il centrodestra va bene, ma il mio cuore batte per qualcosa di più grande”.

La patria? L’Idea? Il cielo stellato sopra di noi? Sono troppo disinformato sul suo conto. Più tardi mi verrà ricordata la sua esperienza di barista nel Link degli anni 90-2000 (all’epoca il centro sociale con la migliore musica elettronica d’Italia: stima da parte mia), per cui è lecito ipotizzare un approccio flessibile alle questioni ideologiche.

Ad ogni modo, compiuto un rapido tributo agli orrori di Bibbiano, chiude un discorso fragile cercando conforto identitario nel nume della serata, Guareschi.

Si riabbassano le luci, parte una musica epica da film o videogioco di ambientazione medievale, ricominciano i video del Capitano, stavolta con l’audio: “Il 26 gennaio sarà ricordato per i prossimi 100 anni sui libri di storia come la festa della libertà”, intona il Salvini sullo schermo, mentre All’alba vincerò ne annuncia l’avvento in platea.

Sale sul palco corricchiando, pantalone morbido e maglione verde a collo alto, niente giacca e cravatta come vorrebbero i cantori della svolta moderata incipiente. Ringrazia tutti, specie i giornalisti, “i giornaloni, che non parlano di voi, nemmeno una riga” – una foto! – mentre enfatizzano le contromanifestazioni. “Voi non esistete, esistono quelli contro. Ma va bene così.”

“Sono una persona straordinariamente normale. I geni li lasciamo tutti alla Leopolda”. Non sarà un genio, ma ha studiato per l’occasione, e quindi, per la terza volta nella serata, si ricomincia “da un grande emiliano, un grande italiano, Giovanni Guareschi”. Libertà è la parola chiave: ”Libertà significa lotta, fede, sacrifici, fatica, studio, lavoro illuminato dall’intelligenza e da un fine. Libertà significa rispetto di sé, degli altri e delle leggi basilari che ne regolano il vivere secondo Dio e secondo la civiltà. E questo non piace al vile, che desidera soltanto sottrarsi al dominio della sua coscienza personale per adeguarsi alla coscienza collettiva”.

La citazione è probabilmente tratta da Chi sogna nuovi gerani?, antologia di Guareschi a cura dei figli, la cui prima uscita su google conduce al sito di Magdi Cristiano Allam.

“Abbiamo bisogno di uomini e donne liberi. Siete pronti a mostrare di essere uomini e donne liberi? – Sìììììììììììì – Fatelo sentire a quelli fuori!”

E dopo il momento interattivo, ecco la Captatio:

“Io vengo a Bologna in punta dei piedi… ho solo tanto da imparare da voi”.

Biffi a tutta per Matteo, il poeta non mentiva. Mormorio per un “se sarebbe”, eredità del governo precedente: mi conforta lo stupore. Del resto, come dice il Capitano inaugurando una serie di luoghi comuni di straordinaria prevedibilità, siamo a “Bologna la dotta, l’università più antica d’occidente; oggi ha più di 90.000 studenti… e qualche perditempo” (molti ridono, probabilmente pensando ai contestatori); “Bologna la rossa, per quello che è il miglior rosso d’Italia: la Ferrari, la Ducati, La Lamborghini, la Maserati e il buon vino, e magari dal 26 gennaio di rosso ci teniamo solo questo”; “Bologna la grassa”, e visto che lo attaccano per la sua linea, lui ripete proprio qui “Omo de panza, omo de sostanza”.

Si dice “a favore delle Coop, quelle vere, non quelle che sfruttano i lavoratori”, e subito dopo invita tutti a “mangiare e bere emiliano-romagnolo”.

Qui si stempera la mimesi localista del discorso, per lasciar spazio a un finale ideologicamente carico ma non proprio fluido nei suoi nessi logici:

“Sempre al fianco di Liliana Segre e di chiunque subisca minacce, violenze, arroganze… Però senza l’ipocrisia di quelli che la tirano in ballo e poi vanno in piazza insieme a quelli che bruciano le bandiere di Israele. Giù le mani da Israele! Troppo facile… Sono quelli fuori da questo palazzetto che vogliono impedire l’esercizio della democrazia, della libertà di pensiero e di parola: squadristi rossi!”

Per essere uno sicuro di vincere, sembra un pò nervoso. Solo dopo, presa coscienza del successo clamoroso di Piazza Maggiore, capisco che gli hanno rovinato il giocattolo.

“E quindi… noi andiamo avanti con coraggio, identificando quelli che sono i reali rischi per il nostro paese, per i nostri figli. Oriana Fallaci ne parlava venti anni fa, e parlava di nazismo islamico. E ci dovrebbe essere qualcuno che le chiede scusa, a Oriana Fallaci, che è stata vilipesa, insultata, attaccata e infamata in vita.”

Bologna prima, Firenze poi, Emilia e Toscana: “due terre stupende che non meritano di essere ostaggi di una casta di potere”. Chiude ringraziando tutti, anche Giordano, cui dedica un applauso, “visto che è venuto gratis”.

Uscendo, mentre ragiono su luogo e momento adatto per nascondere il kit, mi fermo a osservare i partigiani di Porta Lame, incuranti di pioggia e traffico, bronzei combattenti con le idee chiare e una storia intensa.

Chissà che non diano una mano loro, a riaccendere il desiderio.

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