Intorno al concetto di sostenibilità nel diritto alimentare

Matteo Ferrari e Umberto Izzo ripercorrono a tutto campo le definizioni normative di sostenibilità nel settore della regolamentazione agroalimentare, evidenziando la difficoltà di attribuire senso giuridico ad un concetto non univoco e di individuare conseguenti criteri che lo rendano effettivo. I due autori rivelano i frequenti contrasti emergenti dalle diverse forme di sostenibilità con le loro ricadute negative sulla produzione e sull'accesso al cibo e ritengono indispensabile individuare una nozione giuridica, centrale e unitaria, di sostenibilità.

“Sostenibile”, “sostenibilità”. Il nuovo mantra, in forma di aggettivo o sostantivo, riecheggia insistente e pervasivo in tutti i canali comunicativi della modernità (dai mass, ai social media, alla comunicazione pubblicitaria), mentre, a sua volta, l’agenda della politica lo ha fatto suo, mostrandosi pronta a recitarlo nelle più disparate occasioni, quale sinonimo di un’azione di governo che, seppur in termini assai spesso percepiti come vaghi e indistinti, promette nondimeno di osservare un canone di virtuosità nel conformare l’agire pubblico e privato.

A ridosso dell’innegabile successo di questo esempio di “agire comunicativo”, le epifanie normative dei termini che aprono queste note vanno moltiplicandosi, in una dimensione che, proiettandosi nel campo del giuridico, sollecita un esercizio di attribuzione di senso che possa rendersi utile a chi è destinato a dare attuazione agli enunciati normativi nei quali parole “nuove” prendono ad esse versate. L’alternativa sarebbe affrettarsi a sostenere che la sostenibilità appartenga al novero di quei concetti retorici utilizzati all’interno della legge per fondare un’argomentazione, rinunciando alla funzione di accrescere le conoscenze dei destinatari del precetto che quei concetti veicola. Qualcosa di molto vicino a un wishful thinking, insomma, utile a rincuorare le coscienze, ma privo di effettività. Queste righe sono destinate a cercare di capire (ma si tratta solo di un primissimo esercizio), se questa fretta, come si suol dire, possa rivelarsi una cattiva consigliera.

Le fortune della sostenibilità si rendono particolarmente vivide se si osserva a tutto campo la regolamentazione del settore agroalimentare. A livello internazionale una delle prime fonti rivelatasi assai ricca di espliciti riferimenti normativi alla sustainability è stato l’International Treaty on Plant Genetic Resources for Food and Agriculture, promosso dalla FAO e approvato nel novembre 2001. Il legislatore comunitario impiega la nozione di sostenibilità sia per rappresentare un principio generale cui dovrebbero ispirarsi alcune tipologie di produzione agroalimentare (e.g. la produzione biologica di cui al Reg. 834/2007 e, seppur in misura minore, alcuni regimi di qualità, oggi disciplinati nel Reg. 1151/2012), sia nel disciplinare aspetti specifici di talune filiere produttive (si vedano i frequenti riferimenti alla sostenibilità nel Reg. 1308/2013 in tema di gestione dei vigneti e delle risorse ittiche e marine in generale). Anche i legislatori nazionali hanno cominciato, in tempi ancora recenti, a immettere il concetto di sostenibilità all’interno di testi normativi di notevole rilievo. È il caso dell’art. 1 del Code rural et de la pêche maritime francese, che menziona ripetutamente l’idea di un développement durable nel considerare la pianificazione e lo sviluppo sostenibili dell’espace rural una priorità essenziale. Non è da meno il legislatore spagnolo, che nel 2007 ha inteso promuovere il desarrollo sostenible delle aree rurali (Ley 45/2007). Particolarmente significativo l’art. 2, che, nell’identificare gli obiettivi della legge, prende in considerazione la sostenibilità in una triplice dimensione economica, ambientale e culturale. Con affermazioni più circoscritte, anche in Italia le politiche nazionali e regionali in materia agroalimentare abbracciano entusiasticamente l’ideale della sostenibilità, come attestano gli insistiti riferimenti al termine che si rinvengono negli articolati che danno forma ai Piani di Sviluppo Rurale.

Attribuire un significato univoco all’impiego del termine sostenibilità nel diritto alimentare sembrerebbe apparire una missione impossibile. Le norme non aiutano: definizioni normative, come quelle che l’Europa ci ha abituato a leggere nell’incipit dei suoi atti legislativi, non si rinvengono nel pur poderoso sistema normativo di cui il vecchio continente si è dotato per governare la produzione e il consumo di alimenti in nome del motto “from field to fork”. Inoltre la sostenibilità non si propone mai da sola, ma in forma di sintagma. Può essere ambientale, economica e, all’occorrenza, sociale o culturale. Per converso, aggettivandosi, ama accompagnare lo sviluppo. La pluralità di contesti e di significati associabili alla nozione di sostenibilità conosce un ulteriore elemento di variabilità considerando la dicotomia pubblico/privato. A volte gli strumenti regolativi che s’ingegnano di dar voce alla sostenibilità per attuarne in concreto i dettami sono legati ad un intervento di carattere legislativo (e in ogni caso appartenente alla sfera della regulation pubblica), come nel caso delle indicazioni geografiche, della produzione biologica o, ancora, della regolamentazione degli incentivi finanziari a sostegno di pratiche di produzione e/o commercializzazione sostenibili. Altre volte la matrice di questi strumenti assume un volto decisamente privato. Si pensi allo sviluppo di norme tecniche in materia di sostenibilità, completati dalla predisposizione di schemi di certificazione e dalla concessione in licenza di marchi d’impresa; allo sviluppo di codici di condotta e linee guida volontarie; o, ancora, all’utilizzo che del contratto si fa per obbligare una o più parti al rispetto di standard specifici di sostenibilità. Vi sono poi interessanti forme di contaminazione tra iniziative pubbliche e strumenti privati, che paiono trascendere la tradizionale (e da molti ritenuta sempre più sfumata) distinzione fra diritto pubblico e privato. Un esempio è offerto delle organizzazioni private di produttori riconosciute dagli Stati membri, previste all’art. 152 del Reg. 1308/2012, le quali possono, inter alia, sviluppare iniziative concernenti pratiche di produzione sostenibile.

Vi è poi un livello di ambiguità ancora più profondo che caratterizza l’uso normativo del concetto di sostenibilità. Nella maggior parte dei casi il medesimo strumento operativo evoca, e mira ad attuare, forme di sostenibilità eterogenee. Si pensi ai regimi di qualità contemplati dal Reg. 1151/2012 e, in particolare, alla disciplina delle indicazioni geografiche (DOP e IGP). Questi apparati normativi mirano a promuovere, da un lato, una forma di sostenibilità economica, che prende corpo nella possibilità di rendere i propri prodotti più competitivi nei mercati nazionali e internazionali grazie agli attributi qualitativi che tali prodotti presentano e che le norme promettono di garantire e tutelare; dall’altro lato, una sostenibilità sociale, volta a frenare fenomeni quali, ad esempio, quello dell’abbandono delle aree rurali. Ancora, la disciplina della produzione biologica. Che appare chiaramente volta a perseguire obiettivi di sostenibilità ambientale. E che offre nel contempo ai produttori la possibilità di ridurre il ricorso a pesticidi e altri prodotti di sintesi, con benefici per la salute della collettività, non senza chiedere al mercato un price premium per il conseguimento di questo risultato.

Tra le diverse forme di sostenibilità possono poi generarsi contrasti. Riprendendo gli esempi ricordati poc’anzi, lo sviluppo di alcune indicazioni geografiche è suscettibile di determinare ricadute negative per l’ambiente. Si pensi alle trasformazioni che alcune aree geografiche del nostro paese hanno subito a causa dell’impianto massivo di vigneti, a danno degli ecosistemi locali interessati da questi cambiamenti. La stessa produzione biologica può, secondo alcuni, incidere negativamente sull’accesso al cibo, sia perché il bio costa mediamente di più, sia perché il ricorso a questa contro-tecnologia (che a sua volta è una tecnologia assai complessa, come ben sanno gli addetti ai lavori) riduce i volumi di produzione rispetto a metodi di produzione non biologica. Complica ulteriormente il quadro la constatazione che il concetto di sostenibilità può essere declinato in differenti contesti geografici, dalla dimensione locale a quella globale. Il che può estremizzare i contrasti esistenti, o generarne di nuovi. I piccoli produttori operanti nei paesi di via sviluppo si trovano non di rado in difficoltà nel far fronte agli stringenti requisiti di sostenibilità posti da alcuni paesi sviluppati, con l’impossibilità di accedere ai mercati più maturi e profittevoli.

Le riflessioni fin qui svolte potrebbero indurre a concludere che della sostenibilità, alla resa dei conti, potremmo fare a meno, per scoprire, tornando all’esordio di queste righe, che per una volta la fretta (o l’istinto) sa dare buoni consigli. Ma così sospettiamo non sia: gli adagi hanno sempre un fondo di verità.

Claude Lévi Strauss (Introduction a l’œuvre de Marcel Mauss, in M. Mauss, Sociologie et anthropologie, Paris, 1960, XLIX-XL) predicava l’esistenza di termini suscettibili di rivelare un signifiant flottant, sufficientemente ampi da rivelare e tenere assieme significati diversi e talora contrastanti. Si può guardare al termine sostenibilità come a una forma di pensiero simbolico, una sorta di segno algebrico – per dirla con Levi Strauss – che rimanda simultaneamente a una pluralità di significati. Al giurista la qualità semantica impressa alle parole dall’antropologo suggerisce la possibilità di valorizzare l’impiego del concetto di sostenibilità in una direzione procedurale, prendendo definitivamente atto che, sotto il profilo sostanziale, i molti sensi attribuibili al termine si prestano a veicolare un eccesso di valori, senza peraltro mostrare la capacità di offrire strategie di componimento che possano dirsi agevolate attraverso l’impiego del termine in questione.

Il carattere o, se si vuole, la direttiva procedurale della sostenibilità sospettiamo stia nell’invito – che in questo senso potrebbe acquisire un carattere normativo mediato dall’interpretazione – a riflettere sulla complessità e le interrelazioni che si comprimono, trovando espressione unitaria nell’impiego del termine sostenibilità; a ricalibrare il rapporto tra le diverse forme di sostenibilità in funzione del contesto che in quel momento occupa l’attenzione; a immaginare strumenti che perseguano più forme di sostenibilità, presentandole e tenendole assieme all’interno di una cornice unitaria. Basti pensare all’intreccio tra diritto alimentare e tecnologia (su cui ci permettiamo di rinviare al nostro Diritto alimentare comparato. Regole del cibo e ruolo della tecnologia, Bologna, 2012) e a come i conflitti che a questa relazione soggiacciono possano essere riletti alla luce della nozione con cui abbiamo dialogato in queste note.

Come regolare le nuove tecnologie che si prefiggono di ridurre l’impatto delle produzioni agroalimentari sull’ambiente? È possibile immaginare correttivi normativi che mitighino eventuali effetti collaterali, quali l’innalzamento dei prezzi o l’esclusione dei piccoli produttori o dei paesi in via di sviluppo dall’accesso ai mercati/tecnologie?

Immaginare la sostenibilità come artificio simbolico che cerca di ricondurre a unità le antinomie esistenti nelle filiere agroalimentari, può sembrare poco, ma a noi sembra che non lo sia, perché pone una sfida al modo di pensare dei giuristi: e si tratta di una sfida ineludibile, che non riflette altro se non la complessità dei tempi in cui viviamo.

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