Intifada! Israele!

Al grido di “Intifada, Intifada”, l’antica parola araba ormai triste simbolo della “resistenza” palestinese in Israele, il ghetto di Roma, uno dei più antichi del mondo, si riversa nelle strade, pronto a rivendicare un antico orgoglio rimasto inscalfito dai secoli di persecuzioni, pronto a difendere il nome di Israele, forse persino condannando essi stessi la mossa violenta e repressiva del proprio governo. I piu giovani corrono per le sue vie alla ricerca dei provocatori, caschi nelle mani, le camicie abbottonate fino al collo; i più anziani, i pochi detentori dell’enorme ferita lasciata dai rastrellamenti del 16 Ottobre del 1943, rimangono dove sono, ospitati dalle panchine del Portico D’Ottavia, sicuri di essere i primi a venire a conoscenza dell’accaduto. Un solco troverà strada sul loro viso quando tra le vie del ghetto si riverbera, assai più rumoroso del precedente ritornello, il canto di “Israele, Israele”; il ghetto è difeso, i giovani assaggiano per la prima volta il gusto di sentirsi diversi e non nel senso discriminante della parola, ma in quello che si associa al senso di superiorità che solo una religione totalizzante come quella ebraica può concedere. Dopo pochi tafferugli la polizia ferma uno scontro che poteva diventare più serio di quel che si poteva immaginare. Le bandiere della Palestina, simbolo perverso di una pace che è lontana dal concretizzarsi e che non trova alleati da nessuno dei due fronti, sventolano da un lato del marciapiede. Quelle israeliane, dietro una fila di forze dell’ordine, dall’altro. In mezzo alla strada il mondo intero che sta a guardare, le mani dietro la schiena, chi per paura, chi per vantaggio, lasciando che la storia prenda il suo triste corso, proprio come ha fatto per il Darfur.

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