Intervista a Marco Revelli

Un mondo impreparato
sui temi del lavoro

E’ comune ritenere che i primi anni ’70 abbiano segnato in Italia, come nel resto dell’Europa, l’apice dell’industria manifatturiera. Come è stata sostituita questo tipo di industria?

Fra ‘800 e ‘900 vi è stato un salto dalla prima alla seconda fase della rivoluzione industriale, il cui fulcro stava nella concentrazione delle manifatture. Negli anni ’60 si era pensato che questo tipo di industrializzazione potesse durare in eterno, magari per essere sostituita in futuro da un superamento dei rapporti capitalistici.

In realtà nell’ultimo trentennio si è avuto un nuovo salto di qualità dell’industria, sempre iscritto nei rapporti capitalistici. Non vi sono più grandi poli di produzione industriale e la materialità del lavoro non è più centrale. Le manifatture si sono sparse per il mondo in aree geografiche diverse da quella europea. Il lavoro si è andato trasformando in accumulazione di sapere, gestione di simboli, creazione di immagini. Più che di declino del lavoro si potrebbe parlare di sua trasformazione. Una trasformazione in cui, per esempio, anche il tempo libero fuori dal luogo di produzione genera produzione: anche l’atto di guardare la televisione, magari sfruttato da coloro che leggono i dati auditel.

In concreto, quali nuove figure potrebbero popolare un mondo del lavoro sconvolto nella sua dislocazione geografica e sopperire alla disoccupazione innescata anche dall’introduzione delle innovazioni tecnologiche?

E’ difficile identificare precise figure e luoghi di lavoro. Prima si entrava in fabbrica timbrando il cartellino, passando la sbarra col guardiano, coprendo magari la funzione di operaio prima, poi capo squadra, fino per qualcuno a capo reparto. Oggi in molti lavori si entra e si esce continuamente dai processi di lavoro. Vi sono confini labili, come nel mondo precapitalistico. Lavori spostandoti in città, rendendoti reperibile sul telefonino, comunicando. Così è quando a casa ti metti davanti ad un computer.

Recentemente Salvati ha scritto un articolo intitolato “La fine della lotta di classe”. E’ una percezione larga, avvertita con chiarezza, ad esempio, anche quando i DS hanno presentato il loro programma e al tavolo d’onore Romiti sedeva accanto a D’Alema. Nell’evoluzione del mondo del lavoro che tu descrivi, come rappresentare gli interessi di questi nuovi lavoratori?

Difficile. L’operaio entrava in fabbrica e stava con la testa fuori dalla dimensione della merce, odiando il padrone e spesso la fabbrica. Esprimeva una forma di resistenza e di rivolta. Oggi è difficile che il lavoratore riesca a guardarsi dall’esterno del suo lavoro, essendo la “nuda vita” messa al lavoro.

Tra le ultime cose scritte da Sergio Garavini, io ricordo una certa sfiducia nella possibilità della sinistra di modificare ancora la società se avesse limitato il suo orizzonte alla riforma dello Stato e alla difesa delle norme contrattuali esistenti, senza cercare di capire il mistero dell’impresa e le sue trasformazioni nel nuovo millennio.

La comprensione dell’interno dei rapporti di lavoro è stata fondamentale negli anni ’60 e ’70 per le conquiste del lavoro ed in questo Garavini è stato un pioniere. Oggi bisogna fare lo stesso, anche se, appunto, non più cercando di entrare nei cancelli delle fabbriche.

Un libro tradotto in italiano con il titolo “I samurai della produzione” descrive un gruppo di sviluppatori del software Windows NT di Microsoft in un’epica battaglia alla ricerca di “bachi” del sistema. Un sfida appassionante in cui alcuni di loro hanno perso la famiglia e la sanità mentale. Quello che colpisce è che nel contratto di lavoro di questi ricercatori vi era una clausola che prevedeva, in caso di interruzione del rapporto di lavoro, che lo sviluppatore non potesse lavorare per un’altra ditta prima di sei mesi. La sua mente, i suoi neuroni, contenevano infatti un know-how che sarebbe divenuto obsoleto nell’arco di quel periodo. Il lavoratore aveva i mezzi di produzione nel suo cervello.

E altri lavori funzionano così. Pensiamo al libro di Bonomi su “I distretti del piacere”, in cui descrive tutte le competenze immesse nel far divertire la gente sulla riviera romagnola in termini di marketing, musica, stili, iniziative. Eventi come le Olimpiadi di Torino, che hanno dato lavoro ad architetti, esperti di marketing, addetti stampa si ripetono e moltiplicano le occasioni continuamente offerte dalle fiere, manifestazioni ecc.

Tu hai fatto cenno ad alcuni scritti. A me vengono in mente “La chiave a stella” di Levi pubblicato nel 1978, con la sua visione speranzosa del lavoro come fattore di felicità. E poi le ultime opere di Nesi, “L’Età dell’oro”, che descrive l’atmosfera di disfacimento umano ed economico nel tessile di Prato, o “La dismissione” di Rea che descrive la smobilitazione di Bagnoli verso l’Oriente. Non è che più che trasformarsi, il lavoro manifatturiero, quello che in forma di acciaio, di plastica, o di macchina tutti utilizziamo, si è semplicemente spostato da un’altra parte?

In parte ciò è vero, in parte però quella di oggi è un’economia di flussi e può benissimo essere che mentre la produzione si concentra in altre parti del mondo, i capitali poi si muovano perpetuamente e la strategia rimanga in alcuni paesi occidentali. Una delle dimostrazioni di questo persistere di alcuni centri strategici dell’economia è il fallimento dell’industrializzazione di alcuni paesi della zona mediorientale che avevano puntato sull’arma petrolifera.

Per arrivare a questioni a noi direttamente più legate. Mi chiedo spesso se gli accordi del luglio ’93, volti a scambiare moderazione salariale con ingresso in Europa e risanamento delle finanze, si siano dimostrati vantaggiosi per il mondo del lavoro.

I prezzi pagati sono stati altissimi, i risultati scarsi. Sono stati bevuti tutti i luoghi comuni dell’epoca post-industriale. Risanando la finanza lo sviluppo non è ripartito, perché la politica dei due tempi non si può verificare senza conflitto. I servizi non hanno raccolto il testimone della manifattura e la disoccupazione è endemica. L’economia della conoscenza, salvo rari casi, non ha creato lavori ad alta qualificazione, ma ha prodotto un’enorme massa di lavoratori dotata di parziali saperi e ridotta a lavori servili. Vi sono nuovi servi della gleba. Non solo dequalificati e precari, come nei call center. Guardiamo quello che sta succedendo con i ricercatori nelle facoltà scientifiche, ridotti a schiavi dei propri direttori di ricerca: è incredibile, che possa convivere il loro livello di preparazione con le condizioni in cui sono costretti a produrre.

Puoi spiegare meglio questo processo, possiamo dire “di abbassamento” della qualificazione nel lavoro?

Un tempo la qualifica era un dato stabile nel tempo. Si faceva un corso di formazione per diventare, che so, tornitore o fresatore, e la competenza acquisita durava nel tempo.

Oggi questo processo di qualificazione ha bisogna di continuo aggiornamento, un aggiornamento che non è definibile secondo segmenti specifici. Le qualificazioni si fanno per prove ed errori, secondo percorsi informali, reti di conoscenza e a poco servono i corsi di formazione professionale che spesso arricchiscono solo i formatori.

Per una qualificazione autentica servirebbe una garanzia di reddito che permetta già durante l’università e da giovani di sperimentare nuovi percorsi. In alternativa fare il lavapiatti a Londra, che può offrire una rete di conoscenza, o il giornalista free-lance o quant’altro sia possibile per creare un percorso autogestito, sarà più utile che buttare i soldi in corsi di formazione che non preparano all’economia della conoscenza.

L’argomento di oggi sono i movimenti studenteschi e sindacali francesi contro il CPE. Quello che mi sorprende è che, mentre in Italia i giovani hanno accettato le “riforme” Treu e quelle “Biagi” senza colpo ferire, in Francia, per molto meno, sia sceso in piazza l’intero Paese. Possiamo dire che Italia e Francia sono i due poli opposti in Europa di una sensibilità sul lavoro consapevole della sua dignità, e perché? Che fine ha fatto il sindacato italiano?

Anche me ha sorpreso la quiescenza dei giovani italiani. In Francia la protesta si spiega forse con il fatto che le leggi sul lavoro sono più conosciute che in Italia e che sono patrimonio del dibattito politico sui valori della “république”.

I sindacati italiani, che sono sempre stati al centro della battaglia sul lavoro, appaiono oggi alquanto, per usare un’espressione forte, “servili”. Sono deboli in confronto ad un mondo politico molto impreparato sui temi del lavoro.

Le eccezioni mi paiono la FIOM che sta tentando una sua riforma di pensiero legandosi al movimento no-global, alle battaglie sulla TAV che una volta sarebbero state impopolari fra i lavoratori, sta mettendo in discussione i nuovi temi dello sviluppo e della crescita. Dimostra una certa capacità ridefinirsi. Lo stesso vale per alcuni settori della Funzione pubblica.

Ultima domanda. A me pare che, rispetto alle condizione estranianti e disumane delle fabbriche degli anni ’60, in fondo gli ambienti di lavoro di oggi siano più salubri e che alcuni tipi di lavoro diano luogo a spazi di creatività e di socialità molto maggiori.

E’ vero ci sono aspetti positivi nel lavoro di oggi. In alcune nuove aziende, nei settori informatici ad esempio, ci sono spazi di socialità e cooperazione intellettuale impensabili in passato. Si potrebbe dire che il capitale abbia bisogno della socialità della gente perché ha scoperto che questa socialità produce.

Il punto è che resta una società in cui i frutti del lavoro restano appropriati altrove e che le logiche cooperative rimangono a livello della produzione e non del controllo e della gestione. Alcuni segnali positivi vengono dal mondo delle nuove tecnologie, come ad esempio Linux, in cui il prodotto è sviluppato in comune e i frutti del lavoro appartengono a tutti.

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