Intelligenza artificiale e sondaggi politici

Enrico Menduni ci ricorda che i sondaggi elettorali sono molto richiesti, per la liquidità attuale delle appartenenze politiche, e che il monitoraggio dei social con tecniche di intelligenza artificiale è promettente. Una recente ricerca IZI dimostra però che il successo sui social non si traduce nel successo elettorale. Secondo Menduni l’analisi dei social è utile per individuare le narrative dei vari protagonisti nella campagna elettorale.

Social media e sondaggi. I sondaggi delle opinioni politiche e delle scelte elettorali sono sempre più richiesti, per il vanificarsi delle appartenenze e la liquidità delle adesioni politiche. Il monitoraggio dei social media, che coincidono largamente con l’arena politica appare una strategia interessante, già percorsa dal marketing. IZI Spa è un importante istituto di ricerca che ha compiuto, e recentemente presentato al pubblico (Un anno di IZI Lab, Roma, Palazzo Merulana, 15 dicembre 2021) una ricerca sulle ultime elezioni amministrative a Roma analizzando l’audience Facebook e Twitter delle liste legate ai quattro principali candidati sindaci con una piattaforma tecnologica innovativa che integra web scraping, intelligenza artificiale e machine learning.

Metodologia e risultati della ricerca, relativa al primo turno elettorale, sono di grande interesse e suscitano vari e fecondi interrogativi. Abbiamo scelto, per sintetizzare in breve una reportistica molto complessa, l’analisi dei like alle pagine FB e ai post Twitter dei candidati come forma più esplicita dell’endorsement di un utente per lei/lui. Premesso che la campagna si è svolta prevalentemente su FB (2.322.079 like contro i 186.057 di Twitter), evidenziamo alcuni risultati:

 

Social pieni, urne vuote? La nostra sintesi ha necessariamente ridotto molti aspetti della ricerca, e non tiene conto della localizzazione degli utenti (non tutti elettori romani) né della possibile presenza di account robot, ma è chiaro che se il mondo fosse Facebook Virginia Raggi avrebbe stravinto e se il mondo fosse Twitter sarebbe stato invece Carlo Calenda a diventare sindaco di Roma. Le cose invece sono andate diversamente. Il conteggio finale dei voti per i quattro candidati è quasi l’esatto opposto delle graduatorie sui social.

Viene spontaneo ricordare l’affermazione di Pietro Nenni “Piazze piene, urne vuote” all’indomani della bruciante sconfitta del Fronte popolare nel 1948 dopo un’affollatissima ed energica campagna elettorale: ma sarebbe un paragone improprio. Allora infatti il popolo del Fronte popolare confermava la propria appartenenza partecipando a cortei e comizi in piazza e non vedeva la consistenza dell’altro mondo, quello cattolico e filoamericano, meno propenso ad esibirsi ma deciso nella sua scelta di campo nel segreto dell’urna. Oggi invece le appartenenze politiche scompaiono, si attenuano o si relativizzano: il voto elettorale non è un corollario obbligato di un’adesione partitica pregressa ma la sommatoria di vari fattori anche effimeri, di gradimento, vicinanza, convenienza, che possono anche risolversi nella non partecipazione al voto, non più socialmente sanzionata ma praticata da una vasta e crescente area di cittadini.

Ciò non significa che le analisi dei social siano inutili: sono importanti e lo saranno sempre più, ma le domande a cui possono rispondere sono altre. Più che la previsione delle percentuali, esse rappresentano la mappa delle narrative che vengono espresse durante la campagna elettorale dai vari attori della competizione – i candidati, le loro formazioni politiche, i media, gruppi sociali e singoli individui – che si produce, o si riverbera, sui social media. Poiché ormai siamo in una fase di permanent campaign, dove qualunque consultazione elettorale, anche parziale, è intesa come un referendum sui partiti, le narrative delle campagne elettorali coincidono largamente con quelle che circolano nella società. Forse per la prima volta nella storia le narrative popolari non sono incanalate in contenitori diversi, mediati professionalmente da editori, produttori e giornalisti che assegnano alla gente comune solo il ruolo di lettori, spettatori, ascoltatori: nei social anche le persone comuni possono generare i propri contenuti e condividere o commentare quelli di altri, indipendentemente dal canale in cui sono comparsi per la prima volta. Sui social troviamo, uno accanto all’altro, contenuti generati per il web e altri che migrano dalla stampa, dalla televisione, dalla radio. La persona comune accanto all’operatore professionale, non senza la sgradita partecipazione di qualche organizzazione che diffonde fake news da centinaia di account fasulli, magari da un altro continente.

La comunicazione politica trasloca sui social network. Le considerazioni qui esposte motivano il massiccio trasferimento della comunicazione politica sui social network. I soggetti politici evitano così la mediazione dei giornalisti, sempre fastidiosa. Già i politici pensavano che apparire e parlare in televisione fosse meglio che leggere le proprie interviste sui giornali; però sui social, rispetto ai talk show di cui sono attivi frequentatori, c’è il vantaggio di parlare da soli, non in contraddittorio con altri, ogni giorno e ad ogni ora, e senza chiedere ospitalità a nessuno.

I social forniscono inoltre quella interattività con il pubblico che una concezione tradizionale dei media non riconosce alla televisione. Il “popolo del web”, molto più ampio e vivace di quello che fu il “popolo dei fax” ai tempi di “Mani pulite”, sui social commenta, condivide, risponde, interviene, diffonde, propone. Appare come la perfetta traduzione contemporanea di quel complesso di sezioni di partito, attivisti, organizzazioni fiancheggiatrici o collaterali, gruppi professionali e intellettuali politicamente orientati che costituivano il radicamento sociale dei partiti e lo rappresentavano (o meglio, esibivano) in raduni, convegni, manifestazioni, pellegrinaggi, feste popolari, giornali, manifesti.

Le cose però non sono così semplici. Generalmente chi evocava la complessità del web citava il dossier Casaleggio e Associati rispetto al Movimento Cinque Stelle, e più recentemente il caso di Luca Morisi e della “bestia” della Lega. Il primo inteso come il creatore di una interfaccia tecnologica non trasparente; il caso di Morisi, spregiudicato spin doctor di Matteo Salvini (molti politici ne hanno uno), va rubricato come un tentativo, francamente indegno, di utilizzare vicende private come arma di lotta politica. Indegno ma non nuovo: lo scandalo gay dei “Balletti verdi” nell’Italia del 1960 si rivelò una goffa montatura elettorale. No, la complessità del web (e dei social media, che ne sono soltanto un segmento) sta altrove. Qui a noi interessano particolarmente:

  • l’incessante produzione, migrazione e circolazione di contenuti della più varia provenienza, spesso plurimediali (testo + video, immagine o suono) in tempo reale, in forma gratuita, con potenziale ricezione internazionale, salvo censure da parte di governi non democratici e digital divide;
  • la volatilità estrema dei messaggi, anche effimeri e momentanei, che non contrasta con la impossibilità di rimuovere definitivamente qualcosa dal web. Il post non appartiene più al suo autore; il social network che lo pubblica può legittimamente utilizzarlo come redditizia fonte di dati.
  • la facilità con cui si possono creare falsi account, generare information disorders come le fake news e l’hate speech, che innescano persecuzioni personali o proteste di piazza;
  • la possibilità di esprimere il gradimento o l’insofferenza per qualunque contenuto, prontamente rilevati da apposite metriche;
  • l’effetto di sostituzione di agenzie e apparati che non siano pronti ad adeguarsi alle nuove condizioni nella organizzazione di eventi culturali e politici, raccolte di fondi per fini caritatevoli o di impresa, diffusione e promozione di opere letterarie, scientifiche, artistiche, ricerca di adesioni alle proprie iniziative.

Ménage à trois. La transizione ai social media e alle loro narrative (chiamale, se vuoi, storytelling) è stata rapida ma non totale per un complesso di ragioni economiche, culturali, sociali che assumono di volta in volta l’aspetto di tensioni generazionali, etniche, di genere, tra territori, tra città e campagna. Ai fini del sondaggio delle opinioni politiche, non basta rivolgersi ai social anche se con loro l’intelligenza artificiale lavora benissimo per affinità tecnologica e consente forte automazione nell’analisi. Ci sono anche i media tradizionali: la stampa, la televisione, radio. Essi avranno – ancora per molto – pubblici differenziati tra loro e, pur avendo ciascuno di essi affacciato finestre sul web e nel mondo social, spesso sono ricevuti in forma tradizionale e come tali vanno monitorati e analizzati. Un esempio tratto dalle recenti elezioni municipali a Roma: il candidato del centrodestra Enrico Michetti era un noto conduttore per l’emittente locale Radio Radio. È dunque presumibile che la sua campagna elettorale fosse rivolta preferibilmente al pubblico, e al media, di riferimento: ma un sondaggio dei soli social media difficilmente può cogliere questo rilevante aspetto, senza un monitoraggio radiofonico.

Dobbiamo attrezzarci a tipologie di sondaggio che monitorino contemporaneamente la stampa, i media elettronici e i social media sulla base di assunti e di obiettivi comuni, sia pure con metriche differenziate anche perché le rilevazioni automatizzate che si usano per i social sono ad oggi applicabili solo in parte all’analisi della stampa e dei media elettronici, specie quando ci sono immagini in movimento. È un passaggio necessario: soltanto con un blend di queste diverse metodologie, che studiano oggetti ancora diversi ma anche interconnessi, è possibile raggiungere un’attendibilità che non sia solo effimera, e sia per questo utilizzabile per la ricerca scientifica, per valutazioni economiche, per le politiche pubbliche.

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