Innovazione e disuguaglianza dei redditi: un confronto tra le regioni italiane

Marina Capparucci e Alina Verashchagina si occupano del rapporto tra innovazione e disuguaglianza nei redditi. In particolare le due autrici esaminano l’impatto di una maggiore attività innovativa sulla disuguaglianza dei redditi in Italia, considerando anche le forti differenze regionali che si osservano in entrambe le dimensioni. Sulla base dei risultati della letteratura e di un loro recente studio basato su un modello strutturale, le autrici sostengono che vi è un legame virtuoso fra innovazione e riduzione della disuguaglianza.

Negli anni più recenti, l’attenzione verso le differenze nel tenore di vita fra diverse aree geografiche ha seguito un percorso non lineare. Se, da un lato, il processo di globalizzazione ha messo in risalto il problema delle disuguaglianze di reddito a livello mondiale – e l’attenzione si è spesso focalizzata sui movimenti migratori che di queste sono l’effetto – dall’altro, negli ultimi vent’anni sembra invece essersi affievolito l’interesse, almeno sotto il profilo teorico e politico, per la riduzione dei divari socioeconomici interni ad un Paese: divari che per l’Italia in gran parte si identificano con la mai estinta “questione meridionale”.

Partendo da questa constatazione, in questo articolo ci si chiede se l’incremento e la diffusione dell’attività innovativa da parte delle imprese in Italia possa contribuire a ridurre il grado di concentrazione dei redditi (e viceversa), considerando anche le forti differenze regionali che si osservano per quanto riguarda sia la diffusione delle innovazioni sia la disuguaglianza di reddito. Inoltre, laddove sia accertata l’ipotesi di un’influenza “reciproca” tra le due grandezze, si potrebbe individuare un sentiero di policy virtuoso che riduca anche le distanze regionali su ambedue i fronti.

Che esista una correlazione inversa tra l’attività di innovazione e la disuguaglianza nei paesi UE è comprovato dalla fig.1, dove si rappresentano, quali indicatori delle due grandezze in esame, rispettivamente l’indice di brevettazione (misurata dal rapporto brevetti/milioni di abitanti) e l’indice di Gini.

 

Figura 1. Brevettazione versus Disuguaglianza dei redditi, paesi europei, anno 2012

Un quadro simile si ottiene esaminando i dati relativi alle diverse regioni italiane: laddove l’attività di innovazione appare più debole, la concentrazione dei redditi risulta più elevata, e viceversa (Fig. 2).

Dal punto di vista teorico, il legame tra innovazione e disuguaglianza dei redditi richiama quello più spesso studiato in letteratura tra crescita e disuguaglianza (Aghion e Akcigit, in Matyas et al., a cura di. Economics without Borders, 2017). Dal punto di vista empirico, tuttavia, la relazione inversa fra innovazione e disuguaglianza non è poi così scontata. Studi condotti a livello territoriale e/o settoriale hanno, ad esempio, rilevato come un’intensa attività innovativa possa dar luogo ad una maggiore concentrazione dei redditi (Aghion et al. 2018, Review of Economic Studies). Difatti, laddove il mutamento tecnologico comporti uno spiazzamento di alcune figure professionali e una conseguente maggiore disoccupazione (Acemoglu e Restrepo 2018, American Economic Review), è probabile che i meccanismi di mercato conducano ad una maggiore disuguaglianza nei redditi da lavoro, premiando in genere i lavoratori più qualificati (sia in termini di salario, che di conservazione del posto di lavoro) a scapito di quelli meno qualificati: sono questi gli effetti più spesso accertati nel campo della innovazione robotica e digitale.

Per ovviare a questi effetti negativi del progresso tecnologico andrebbero realizzate – sia a livello nazionale che regionale – politiche di sostegno della domanda aggregata e politiche strutturali (formative, istituzionali, ecc.) in grado di compensare gli shock sulle quantità e sui prezzi relativi dei fattori produttivi. A questo proposito Ghignoni e Veraschagina (2014, Journal of Comparative Economics) sottolineano come agire sulla domanda abbia maggiore efficacia nel ridurre l’educational qualifications mismatch soprattutto nei paesi tecnologicamente più avanzati, mentre agire sull’offerta di lavoro potrebbe essere un’opzione migliore per i paesi più arretrati.

Nel quadro comparativo internazionale, l’Italia si colloca su posizioni inferiori alla media Europea per quanto riguarda l’attività innovativa e su livelli più elevati per quanto riguarda gli indicatori della disuguaglianza dei redditi. La stessa relazione di segno negativo si riscontra, come visto, all’interno del territorio italiano, dove però le differenze nelle performance vanno al di là della semplice distinzione tra Nord e Centro-Sud, ma riflettono significative differenze anche all’interno di una medesima ripartizione territoriale.

La dimensione delle imprese, da un lato, e la situazione occupazionale dall’altro, sono tra i principali fattori che spiegano alcune delle differenze territoriali osservate rispettivamente sul fronte innovativo e su quello distributivo. Se si esamina, ad esempio, la propensione ad innovare delle imprese italiane, meno della metà di esse con 10 o più addetti ha introdotto innovazioni nel 2016 (ISTAT, Il Benessere Equo e Sostenibile in Italia, 2018). La caduta del tasso di innovazione nella prima metà del decennio in corso riguardava soprattutto le piccole imprese, mentre le unità di grandi dimensioni mostravano ulteriore crescita. Nell’ultimo triennio, come riporta l’ISTAT, sono presenti alcuni segni di miglioramento, anche per le piccole imprese e in Mezzogiorno, senza aver raggiunto in aggregato il tasso di innovazione osservato nel 2010 (50,3% contro il 48,7% nel 2016). Le differenze tra ripartizioni territoriali e all’interno dello stesso Mezzogiorno riguardano non solo il peso della dimensione d’impresa (laddove al Sud si conta un relativo maggior numero di imprese minori), ma anche la tipologia delle innovazioni stesse, tra cui si distinguono quelle di prodotto, di processo e di marketing (Capparucci e Verashchagina, Quaderni di Economia del lavoro, 2016).

I dati finanziari relativi all’attività di ricerca e innovazione rivelano ancor più la debolezza strutturale del Mezzogiorno: dai dati ISTAT si nota che nel 2016 le regioni meridionali coprivano solo il 18,6% della spesa nazionale e erano anche quelle con la quota più bassa di attività di ricerca sul PIL regionale; inoltre al Sud solo il 40,2% delle imprese tendeva ad innovare, contro il 44,4% del Centro e 53% del Nord d’Italia. La dimensione aziendale rappresenta uno dei fattori più rilevanti anche per spiegare differenze tra le stesse regioni meridionali: difatti, laddove la dimensione media delle imprese risulta più elevata maggiore è la possibilità per le singole regioni di posizionarsi un po’ più in alto nella graduatoria dell’attività innovativa nazionale.

Sul fronte distributivo occorre innanzitutto sottolineare che in Italia, pur essendo il reddito lordo pro-capite in linea con la media europea, la disuguaglianza dei redditi di mercato è tra le più elevate: nell’UE15 l’indice di Gini è inferiore solo ai valori del Portogallo, Grecia e Spagna. Come accennato poc’anzi, le differenze reddituali riscontrate a livello territoriale risentono anche, e soprattutto, della sperequata distribuzione delle opportunità occupazionali: permangono infatti da lungo tempo (anche se in lenta tendenziale diminuzione) gli elevati scarti tra i valori regionali dei tassi di occupazione, distinti per componenti di genere e di età. Se, da un lato, nella media italiana i tassi di occupazione dei lavoratori con 20-64 anni di età differiscono di circa 20 punti percentuali tra quelli delle donne (52% circa) e quelli degli uomini (72% circa), dall’altro, nel Nord-Est le donne hanno tassi di occupazione (64% circa) persino superiori a quelli degli uomini del Mezzogiorno (quasi 61%)! Il peculiare contesto socio-produttivo del tessuto locale condiziona non poco sia le attività formative, occupazionali, imprenditoriali, innovative, sia le performance distributive.

Nel 2015, la maggior parte degli occupati nell’high-tech è ancora concentrata nel Cen­tro-Nord (e in particolare in Lombardia e nel Lazio), dove l’incidenza degli occupati nei settori più innova­tivi raggiunge il 6,9% contro il 3,4% della media nazionale e l’1,8% del Mezzogiorno. Si rilevano, comunque, sensibili differenze regionali nella dinamica del quinquennio: mentre in Basilicata, Abruzzo e Calabria le relative percentuali crescono, l’opposto accade in Sicilia, Puglia e Campania, dove si registrano significative diminuzioni (BES 2016).

In uno studio recente in cui si è indagato sulla possibile associazione tra innovazione e disuguaglianza dei redditi (Capparucci e Verashchagina, in Franzini e Raitano, a cura di, Il mercato rende diseguali?, Il Mulino, 2018), si è da noi predisposto un modello di tipo strutturale che ha portato a convalidare l’esistenza di una relazione di segno negativo – e di influenza reciproca – tra le due grandezze, come ipotizzato all’inizio della presente nota. Se ne deduce che, laddove si agisca “contestualmente” sulle determinanti di ciascuna delle due variabili si potrebbe avviare una spirale virtuosa che, attraverso una maggiore crescita delle innovazioni, renda più efficaci le politiche volte ad una maggiore perequazione del reddito distribuito.

Ci si rende conto che gli interventi necessari a tale scopo non sono né pochi, né semplici da realizzare, ma proposte in tal senso non mancano in letteratura: dalle politiche industriali a quelle fiscali, dalle riforme delle istituzioni economiche agli interventi in campo sociale, dalle relazioni contrattuali all’interno delle imprese alle politiche macroeconomiche di investimento nelle infrastrutture, ecc. Si tratta in sostanza di predisporre “reti” tra soggetti pubblici e privati che, attraverso una diversificazione degli strumenti più idonei, operino nell’obiettivo comune della riduzione delle disparità economiche e sociali (cfr. Agire contro la disuguaglianza. Un manifesto, Laterza, 2018; ISTAT, Rapporto annuale 2018, Cap.1).

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