Includere gli esclusi? Alcune idee utili per allargare il perimetro della protezione sociale

Marcello Natili esamina su un recente report curato dall’OCSE sul futuro della protezione sociale e sugli strumenti di policy maggiormente in grado di fornire una protezione adeguata all’amplia platea dei lavoratori con contratti non standard. Natili sottolinea in particolare i rischi che la diffusione di tali contratti pone sulla futura sostenibilità dei sistemi di protezione sociale e riflette su criticità (e potenzialità) delle principali strategie proposte nel dibattito internazionale per far fronte a tali sfide.

Da oramai qualche decennio, la sfida centrale comune a tutti i sistemi di welfare europei è riuscire a proteggere anche la crescente platea di lavoratori non standard, ovvero non in possesso di quel contratto di lavoro dipendente e a tempo pieno pensando al quale sono state disegnate le grandi assicurazioni sociali nel corso del XX secolo. Questa sfida si fa ogni giorno più cogente a fronte della perdurante diffusione del fenomeno – secondo le stime più recenti in media nei paesi dell’area OCSE oltre il 16% dei lavoratori sono “autonomi”, mentre il 13% dei contratti di lavoro subordinato sono a tempo determinato – e dell’impatto che i mutamenti tecnologici hanno sull’organizzazione del lavoro, mutazioni di cui i cosiddetti “lavoratori delle piattaforme digitali” sono solo l’esempio più evidente.

A fronte di tale sfida, sono molti i paesi ad aver introdotto specifiche misure compensatorie. Il recente volume curato dall’OCSE dal titolo The Future Of Social Protection. What Works For Non-Standard Workers? si propone meritoriamente di individuare alcune importanti lezioni dalle esperienze effettuate. Ne emergono suggerimenti e indicazioni preziosi, tra cui mi pare particolarmente rilevante una valutazione molto precisa in merito alle tre principali proposte emerse negli ultimi anni nel dibattito internazionale per “includere gli esclusi”.

La prima di queste strategie di riforma consiste nell’ “individualizzare” sempre più il sistema di protezione sociale, versando tutti contributi effettuati da lavoratore, datore di lavoro o dallo stato in un unico conto individuale. In teoria, questa soluzione permetterebbe a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla tipologia e dalla durata del contratto, di accedere a una qualche forma di protezione sociale. Numerose proposte che muovono in questa direzione prevedono anche la possibilità di utilizzare liberamente questi “conti individuali” per prendersi una pausa, investire in formazione, o decidere di andare in pensione prima di quando previsto dalla legislazione. Il rapporto mette tuttavia in guardia di fronte ai rischi di questa strategia: nella loro forma pura, queste forme di protezione sociale escludono infatti qualsiasi forma di redistribuzione sia verticale che orizzontale, per cui gli individui più deboli nel mercato del lavoro continuerebbero ad avere un basso livello di protezione sociale. Inoltre, tali interventi non risolvono l’annoso problema dei minori contributi di lavoro dei lavoratori autonomi dovuta all’assenza dei contributi normalmente versati dai datori di lavoro – la cosiddetta doppia contribuzione, per cui un lavoratore autonomo per pareggiare i contributi di un lavoratore dipendente dovrebbe versare i contributi per sé e per i datori di lavoro, un problema particolarmente gravoso per le categorie di lavoratori più deboli che non hanno la forza sul mercato del lavoro di “addossare” tali costi sul cliente.

Una seconda soluzione consiste nell’offrire schemi di protezione sociale “volontari” per i lavoratori che non accedono automaticamente alle assicurazioni sociali obbligatorie. Esempi di tale strategia sono la modifica introdotta nel 2009 in Austria alla legislazione sui sussidi di disoccupazione che prevede la possibilità di accedere all’assicurazione contro la disoccupazione per i lavoratori autonomi e i “Fondi volontari di assicurazione contro la disoccupazione” in Svezia. Nel corso del tempo, tali esperienze hanno tuttavia scontato un problema di “selezione avversa”, poiché solamente i membri maggiormente a rischio tendono ad iscriversi a tali fondi volontari, generando un circolo vizioso fatto di progressivi aumenti contributivi e abbandono degli individui a minor rischio. Il rapporto sottolinea, perciò, che per essere sostenibili finanziariamente i fondi volontari debbano raggiungere livelli di copertura elevati ed omogenei tra diverse categorie di rischio, i quali sono difficilmente raggiungibili, come mostrano i casi di Austria e Svezia, a meno di un deciso intervento pubblico che sussidiando i fondi assicuri che i premi rimangano bassi, garantendo così la sostenibilità del sistema ed evitando l’avvitarsi nel circolo vizioso descritto in precedenza.

Una terza strategia prevede di rendere gli schemi di protezione sociale sempre meno associati con i contributi versati. In generale, tutti gli strumenti di sostegno al reddito il cui accesso non dipenda dalla posizione lavorativa tendono ad aumentare la sicurezza sociale per gli individui più lontani dal mercato del lavoro (formale) o con carriere lavorative instabili. Le proposte in questo senso sono numerose (si veda il volume di Granaglia e Bolzoni, Il reddito di base, Ediesse, 2016): i molti “buchi di protezione” che i sistemi di welfare consolidatisi nel corso del ventesimo secolo evidenziano a fronte di un mercato del lavoro sempre più flessibile possono in effetti essere colmati attraverso generosi e protettivi schemi di reddito minimo garantito oppure attraverso strumenti pienamente universalistici, come ad esempio un reddito di base. Seppure questa emerga chiaramente come la strategia da perseguire, dal rapporto emergono anche alcune evidenze su cui appare utile soffermarci, poiché non sufficientemente sottolineate nel dibattito pubblico.

Per quanto concerne gli strumenti socio-assistenziali – ovvero gli schemi di reddito minimo – su cui esiste una maggior evidenza empirica a livello comparato, il rapporto sottolinea in primo luogo che tali strumenti differiscono molto tra di loro, e se alcuni consentono l’accesso anche ai lavoratori poveri – in particolare i lavoratori atipici – altri sono molto meno inclusivi, avendo requisiti formali ed informali che impediscono de facto l’accesso a questi particolari gruppi sociali. Il disegno della prova dei mezzi è perciò essenziale per far sì che tali prestazioni siano adeguate al mercato del lavoro del XXI secolo. In secondo luogo, si sottolinea che muovendosi nella direzione di rendere la protezione sociale indipendente dalla posizione lavorativa, diviene necessario garantire in altro modo che i datori di lavoro continuino a contribuire proporzionalmente al finanziamento del sistema di protezione sociale e che l’importo di tali prestazioni sia adeguato a mantenere condizioni di vita adeguate, condizioni non sempre rispettate nei paesi che maggiormente affidano la protezione sociale a forme non contributive di sostegno al reddito, come l’Australia studiata nel rapporto..

Considerazioni simili valgono naturalmente anche per l’eventuale introduzione di un reddito di base, che oltretutto – se introdotto senza aumentare contestualmente la spesa sociale complessiva – rischia di implicare una riduzione della generosità delle prestazioni in essere, con l’effetto paradossale di peggiorare la situazione per alcune categorie di beneficiari. In altri termini, si avrebbe un effettivo (ed efficace) allargamento della platea dei protetti, ma a pagarne le spese potrebbero essere gli attuali beneficiari di prestazioni sociali. Ovviamente, sono possibili soluzioni che permettano di aumentare l’importo per alcuni gruppi sociali, come i disoccupati o i disabili, ma per far questo è necessario immaginare un incremento della spesa sociale e rinunciare all’idea di abolire ogni forma di selezione.

Il rapporto si sofferma anche sui rischi che la crescita di nuove forme di lavoro pone per la sostenibilità finanziaria dei sistemi di protezione sociale, attraverso meccanismi di graduale erosione della base contributiva: da un lato, perché la creazione di numerose tipologie contrattuali, alcune delle quali decisamente più convenienti anche dal punto di vista economico per i datori di lavoro, crea incentivi perversi in base ai quali le imprese hanno forte convenienza ad utilizzare le forme contrattuali che garantiscono una minore protezione sociale ma che permettono loro di contribuire meno; dall’altro, perché alcune categorie di lavoratori a basso rischio (giovani e con alti livelli di formazione) potrebbero “auto-selezionarsi” verso forme contrattuali che prevedano minori contributi. Queste condizioni minano la messa in comune dei rischi tra individui e gruppi sociali, condizione essenziale per qualsiasi forma di assicurazione sociale. A questo riguardo particolarmente istruttivo è il capitolo sul caso italiano curato da Michele Raitano, che affronta il tema della protezione sociale dei lavoratori parasubordinati, la peculiare tipologia contrattuale introdotta nell’ordinamento italiano a metà strada tra lavoratore subordinato e autonomo, giuridicamente riconducibile a quest’ultima forma pur essendo il lavoratore frequentemente “economicamente dipendente” da un solo datore di lavoro. L’evoluzione dell’utilizzo di tale forme contrattuali nel corso del tempo – così come l’uso fatto più recentemente dei cosiddetti ‘voucher’ – sembra infatti dipendere da ragioni economiche piuttosto che organizzative: al graduale aumentare dei contributi associati a tale contratto, e quindi dei costi per i datori di lavoro, si associa una forte riduzione dell’utilizzo da parte delle imprese. Il caso italiano è particolarmente interessante anche perché mostra come tali categorie di lavoratori, sebbene siano recentemente diminuite le difficoltà nell’accedere a forme di protezione contro la disoccupazione, continuino a rischiare di avere in futuro pensioni non adeguate poiché il nostro attuale sistema pensionistico non include alcun elemento redistributivo al di là della presenza dell’assegno sociale.

The Future Of Social Protection. What Works For Non-Standard Workers? è perciò, a nostro avviso, un volume particolarmente utile, da cui si possono trarre suggerimenti in merito alle migliori strategie per allargare il perimetro della protezione sociale a vantaggio degli individui economicamente e socialmente più vulnerabili. In particolare, se la strada maestra pare essere rendere meno forte il legame tra posizione lavorativa e livelli di protezione sociale, rimane importante garantire un forte impianto redistributivo sia per quanto riguarda le entrate che le uscite del sistema di protezione sociale. Se sia poi politicamente realizzabile tale strategia, considerando che i gruppi che uscirebbero vincenti sono anche dotati di minori risorse politiche e faticano a mobilitarsi, rimane una questione aperta su cui vale la pena interrogarsi.

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