Incertezza e responsabilità

Osservazioni suggerite dal contributo di Fabrizio Barca dal titolo

“L’idea di giustizia di Amartya Sen: sintesi e osservazioni per l’uso quotidiano” 

Gilberto Seravalli

Premessa

Una questione lasciata aperta nel libro di Amartya Sen si trova ben indicata nella presentazione di Fabrizio Barca al punto 32, dove si legge: “[…] Insomma, gli accordi sugli ordinamenti si modificano a seguito delle azioni anziché [come è nell’impostazione prevalente di Sen] le azioni a seguito degli accordi. La voce, la protesta e le minacce svolgono un ruolo importante nello schema teorico di Sen, ma come strumento per attuare la valutazione pubblica e per accrescere il volume di informazioni. Può questo stesso schema teorico dare spazio a un diverso ruolo della voce, della protesta e delle minacce che può esser richiesto quando si restringe lo spazio per accordi fondati sulla ragione? Può questo schema teorico dar conto dell’inversione di ruoli fra azione e accordo?”

La mia impressione è che la risposta sia negativa ma non del tutto. Lo schema teorico di Sen non sembra poter dar conto di quell’inversione perché in esso l’accordo richiede confronto tra posizioni informate. Appare quindi applicabile nei casi in cui gli stati delle cose tra cui scegliere sono noti o conoscibili. Non sembra potersi applicare ai contesti innovativi in cui l’azione è veramente generatrice e anzi procede proprio violando gli eventuali accordi sullo stato delle cose esistenti. Nei processi innovativi si riscontrano impegni condivisi tra diversi agenti portatori di diversi saperi; ma sono contratti procedurali e l’agire per l’innovazione è precondizione dell’accordo sui risultati e sulle conseguenze, che si possono conoscere solo dopo che hanno avuto luogo, non sono prevedibili e non possono essere oggetto di valutazione ex-ante.

Cercherò ora di argomentare brevemente, cominciando dal meccanismo centrale del “dibattito pubblico aperto e documentato”.

Il dibattito pubblico: due declinazioni

Come Fabrizio fa notare, nella proposta di Sen è centrale un meccanismo di dibattito pubblico aperto e documentato. “Stante il convincimento di Sen che tutti noi siamo in grado di essere ragionevoli, mantenendoci aperti a tutte le informazioni e riflettendo sugli argomenti che ci giungono da vari punti di vista, il criterio di oggettività, fondamentale per un’idea di giustizia, finisce per coincidere con ciò che verosimilmente sopravvive a un dibattito pubblico aperto e documentato”. Questo concetto, dibattito pubblico aperto e documentato, non sembra tuttavia univoco. Può avere due diverse declinazioni: una che nel libro di Sen è principale, ma anche un’altra, pure presente nel libro, ma più defilata. Quella principale potrebbe essere indicata come “negoziato”, se inteso quale confronto tra posizioni diverse volto a “ampliare la base informativa delle nostre valutazioni” (p. 179) per giungere ad una decisione evitando il conflitto: negoziato, cioè, come dialogo che, mediante un’estesa esplorazione delle reciproche posizioni, porta a trovarne una comune (scoprendo che i dissenzienti non desiderano insistere oltre perché non sopportano il peso del confronto, ovvero perché sono molto gratificati di contribuire ad uscirne, oppure scoprendo che le posizioni erano solo apparentemente divergenti, o infine scoprendo la possibilità di compromesso). L’altra declinazione di dibattito pubblico aperto e documentato può essere invece in termini di conflitto, che può avere esiti distruttivi (sopraffazione, fuga e disimpegno, scontro continuo), ma anche innovativi a patto che non sia chiuso dagli esiti tipici del negoziato tra cui segnatamente il compromesso. Se infatti si ammette, come si potrebbe argomentare, che il conflitto sia leva d’innovazione in quanto spinta verso l’imprevedibile, il compromesso farebbe prevalere ciò che è noto, ciò su cui è possibile trattare, sacrificando perciò le possibilità di cogliere l’ignoto. Negoziato o conflitto sembrano dunque le due possibili declinazioni di dibattito pubblico aperto e documentato. Il problema è che, come appena detto, esse sembrano mutualmente incompatibili, ed è appunto per questo che sorge un problema interpretativo.

Nella seguente breve esposizione si vedrà, dapprima, che la posizione principale di Sen appare nel senso del negoziato. Si farà notare, poi, che una scelta espositiva di Sen (il racconto tratto dalla Bhagavad-Gita) potrebbe, in realtà, condurre alla considerazione del conflitto. Si vedrà infine che la stessa oscillazione tra due posizioni potrebbe emergere anche da un punto di vista metodologico generale, in cui il funzionalismo si contrappone alla dialettica.

Il negoziato

La natura e la dinamica del dibattito pubblico, in cui si confrontano le posizioni sui diversi valori o visioni recate dagli attori, è illustrata, tra l’altro, nel bel passo del libro di Sen nel quale egli richiama il dialogo tra Arjuna e Krishna contenuto nell’antico poema epico Mahābhārata nella parte nota come Bhagavad-Gita. Il dialogo è fra due posizioni, quella propria dell’etica della responsabilità (Verantwortungsethik per Max Weber) sostenuta da Arjuna, l’uomo, il condottiero; e quella propria dell’etica della convinzione (Gesinnungsethik) sostenuta da Krishna, il dio. Il dialogo avviene nell’imminenza di una grande battaglia, con gli eserciti già schierati: “[il condottiero] Arjuna e Krishna osservano i due schieramenti pronti alla battaglia e riflettono sul grandioso combattimento che sta per iniziare. Arjuna esprime le sue profonde perplessità sul fatto che prendervi parte sia per lui la cosa giusta da fare. Sulla bontà della causa non ha dubbi, né sul fatto che sia una guerra giusta e che alla fine la sua fazione, più forte (anche grazie alla straordinaria abilità militare e le eccezionali doti di stratega dello stesso Arjuna), trionferà. Ma quella battaglia, osserva il guerriero, sarà un’immane carneficina. A turbarlo è anche il fatto che dovrà uccidere di propria mano un gran numero di persone e che la maggior parte di coloro che si affronteranno a rischio della vita non ha commesso nulla di particolarmente riprovevole[1] […] Arjuna dice a Krishna che in verità sarebbe meglio non combattere e non uccidere, e che forse bisognerebbe semplicemente lasciare agli iniqui Kaurava la signoria del regno da loro usurpato, perché potrebbe essere il minore dei mali. Krishna si oppone e la sua risposta si concentra sull’importanza di fare il proprio dovere, senza guardare alle conseguenze.” (p. 220)

Alla fine del dialogo prevale la posizione del dio; ma l’interesse di Sen è rivolto alla natura delle argomentazioni dei due protagonisti. Scrive Sen: “[…] in genere nei dibattiti filosofici sul contenuto della Gita, Krishna è visto come il perfetto esponente del deontologismo, implacabilmente concentrato sul dovere[2], mentre Arjuna è visto come tipico consequenzialista, per il quale il giudizio sulle azioni dipende esclusivamente dalle conseguenze positive o negative che ne scaturiscono[3]. In realtà ambedue le letture sono assai fuorvianti. Nulla può impedire che una prospettiva essenzialmente deontologica tenga in debito conto la dimensione consequenziale […] Allo stesso modo, Arjuna non è affatto il tipico consequenzialista pragmatico, […] La riflessione morale e politica di Arjuna è semmai profondamente sensibile agli esiti nella loro forma comprensiva.” (p. 227). L’atteggiamento di Sen è quindi, mi pare, decisamente nel senso del negoziato, in cui una parte si fa carico della posizione dell’altra.

Il conflitto “nascosto”

Non è però irrilevante l’esito di questa storia che vede il prevalere della posizione di Krishna, dopo un dibattito in cui le due posizioni si sono confrontate in modo aperto e disponibile e non è irrilevante che Sen abbia scelto di esporre questa storia “nonostante” essa abbia questo esito. Credo che la spiegazione debba essere cercata ragionando sull’incertezza.

L’incertezza sembra a prima vista esclusa fin dall’inizio. E’ chiaro sia per Arjuna che per Krishna che ci saranno molti morti, che Arjuna dovrà uccidere degli innocenti, anche dei suoi parenti, e che vincerà. Quindi, superficialmente, questa sembra essere una storia di negoziato non conflittuale. Ma la posizione di Krishna prevale perché il dio apre una prospettiva “altra” che vanifica le certezze di Arjuna. L’argomento di Krishna è in tre parti. In primo luogo egli ricorda a Arjuna che l’uccisione di corpi materiali non deve turbare perché le anime non possono morire né uccidere[4] (“permission”, si direbbe) . In secondo luogo mostra ad Arjuna che egli ha un ruolo importante da svolgere nel futuro per il quale è decisiva la sua fama che verrebbe messa a repentaglio da una ritirata ingloriosa[5] (“action opportunities”). In terzo luogo infine, Krishna prospetta ad Arjuna quale sia la vera vita che vale la pena di essere vissuta e cioè quella che scommette sull’ignoto[6] (“making sense”)[7]

In altre parole, mentre lo scenario del materiale è certo con la sua sofferenza, esso – sostiene Krishna – non esaurisce il reale, che si coglie appieno solo liberandosi da essa per giungere alla “saggezza della mente ferma”; la quale accetta una diversa dimensione dove la previsione di quel che accadrà sulla base del noto non ha più presa. Il dialogo dunque, che non ammette compromessi per costruzione in quanto Arjuna o combatte o non combatte, si chiude con l’azione (combattere) che scommette sull’ignoto vincendo le ragione del noto (i sensi di colpa di Arjuna per dover uccidere parenti e amici[8]). Risulta in tal modo difficile non classificare questo dialogo come conflitto, a meno che non si pensi di banalizzare la posizione di Arjuna attribuendogli scarsa tenacia nel sostenere le proprie posizioni o timore reverenziale o desiderio di ingraziarsi il dio, tutte ipotesi che il testo della Gita mi pare escludano decisamente[9].

Incertezza e responsabilità 

Il conflitto, dunque, appare inevitabile quando i diversi attori trattano in condizioni di incertezza irriducibile. In queste condizioni il consequenzialismo è gravemente impedito non per ragioni di principio ma per ragioni di fatto. Anzi, la natura irriducibile di tale incertezza si definisce proprio come impedimento insuperabile al consequenzialismo. Questo non solo perché mancano le informazioni sulla base delle quali valutare le conseguenze dell’azione, ché in fondo tali informazioni sono sempre incomplete e quindi il caso dell’innovazione sarebbe diverso per grado e non per natura dalla gran parte degli altri casi. L’incertezza nell’innovazione si definisce come impedimento al consequenzialismo soprattutto perché viene meno l’algoritmo che normalmente usiamo per trasformare le informazioni in giudizi. L’incertezza irriducibile, insomma, si definisce come incertezza non solo sui dati ma anche sui criteri da applicare nell’elaborazione dei dati per giungere a valutazioni.

Ponendo, in modo esplicito, al centro della riflessione sulla giustizia ed il mutamento prodotto dalla tecnica e dalla scienza, Salvatore Veca propone il dilemma fondamentale che si presenta in questo caso. “Il dilemma è del tipo: dobbiamo applicare a casi nuovi e non usuali l’arsenale dei criteri e dei principi per la valutazione ereditati o, forse, dobbiamo rivedere tali criteri per il semplice fatto che essi sono stati elaborati, identificati e giustificati in contesti drasticamente differenti rispetto a quelli in cui siamo chiamati a scegliere nelle circostanze generate dal mutamento […]?” (Salvatore Veca, Etica e Verità, Giampiero Casagrande Editore, 2009, p. 74-75). La sua risposta mi sembra per un verso in linea con quella di Sen, ma per un altro verso mi pare che approdi, inevitabilmente, alla questione dell’autorità, e quindi a quella di un’organizzazione del giudizio complessa in cui non bastano le valutazioni e le decisioni decentrate dei singoli individui. “L’aumento delle responsabilità causali si accompagna […] all’aumento delle responsabilità morali: lo spazio occupato nelle nostre vite da eventi e circostanze che siamo abituati a riconoscere come naturali si contrae a favore dello spazio in cui hanno un ruolo saliente le nostre scelte e la nostra responsabilità. […] La risposta della metafisica correttiva, cui sono teoricamente propenso, ci chiede di rivedere o, quanto meno, di mettere severamente e umilmente alla prova i vocabolari valutativi ereditati alla luce del mutamento dei vocabolari descrittivi […] E l’esito di equilibrio riflessivo […] è un esito naturalmente instabile e provvisorio: noi siamo tenuti, per così dire, a convivere con un tasso costante di incertezza quanto alle nostre descrizioni e valutazioni.” (p. 74-75). Tornando alla storia della Gita, si potrebbe dire che la lezione di Sen-Veca apre una prospettiva nella quale Arjuna combatte conservando tutte le sue gravi perplessità e Krishna continua a incitarlo conservando il dubbio che potrebbe aver ragione Arjuna; ed entrambi sono condotti ad esercitare il massimo di responsabilità morali proprio per questo, perché entrambi sono “tenuti a convivere con un tasso costante di incertezza”.

Funzionalismo e approccio dialettico alla teoria della prassi

Eppure mi sembra che questa risposta non sia esauriente. Resta in effetti che Arjuna combatte perché un dio lo induce a farlo. Emerge cioè un profilo di autorità sopra-ordinata. Mi pare, insomma, che in condizioni di incertezza il conflitto sia inevitabile da una parte e, dall’altra, che la sua soluzione innovativa richieda “contratto procedurale e autorità”. Non solo contratto procedurale e non solo autorità, ma contratto ed autorità insieme. Per quanto riguarda il conflitto, osservo che il richiamo alla maggiore responsabilità non sembra poter ammettere una versione riduttiva della forza delle diverse posizioni che si confrontano. Tutto il contrario. Tale aumento di responsabilità sembra portare ad un irrigidimento delle posizioni in quanto nessuno è in grado di dire a priori né può dirlo, pena la fuga dalle responsabilità, che cosa di queste posizioni sia rinunciabile e che cosa sia irrinunciabile. Per quanto riguarda contratto ed autorità, osservo che il contratto è necessario per garantire il mutuo impegno anche se non motivato dai risultati del tutto incerti; che l’autorità è necessaria per evitare esiti distruttivi del conflitto tanto più se l’impegno è garantito dal contratto; che infine autorità senza contratto non riesce ad evitare una deriva di disimpegno.

A meno che, tornando alla domanda sull’azione, non si accetti un approccio strutturalista nella sua versione funzionalista, che ha una risposta secondo il principio: il mantenimento della struttura sociale é strumentale alla realizzazione di obiettivi socialmente rilevanti e il suo adeguamento è strumentale alla sua funzione integrativa. In questo modo si potrebbe concludere di nuovo evitando conflitti e contando solo su decisioni decentrate: se lo sguardo degli attori liberi, razionali e ragionevoli si spinge in una prospettiva non miope nel tempo e nello spazio, essi troveranno comunque il modo di azione che realizzando la giustizia preservi la struttura sociale e adeguandola sia inclusivo.

Tuttavia non si può trascurare a questo proposito che, nella tradizione per noi così importante dell’approccio dialettico alla teoria della prassi, tale principio è fortemente contrastato mostrando come il mantenimento della struttura sociale é da ritenere contro-strumentale alla realizzazione di obiettivi socialmente rilevanti, e il suo adeguamento è da ritenere contro-strumentale alla sua funzione integrativa. Come ha scritto Norberto Bobbio, le due pretese (che escludono i due “contro”) sono proprio quelle verso le quali si rivolgeva la polemica Gramsciana per l’elaborazione del suo pensiero critico che ha al centro la dialettica. “Ci troviamo di fronte, indubbiamente, a uno dei nodi, forse il nodo principale del pensiero gramsciano, in quanto erede, interprete, continuatore del pensiero marxista. Qual è il rapporto tra tesi e antitesi? Vi è un pensiero che tenta di mettere l’accento sulla tesi, sia che pretenda di conservare nell’antitesi una parte della tesi (il ‘lato buono’ di Proudhom) sia che […] pretenda di sviluppare tutta la tesi fino al punto di riuscire a incorporare una parte dell’antitesi stessa. […] L’affermazione che l’antitesi prolunghi e conservi la tesi dà origine alla pretesa […] di elaborare una storia a disegno, e come tale soffoca ogni volontà rivoluzionaria. Questo concetto dà esca ad uno dei motivi polemici più persistenti del pensiero gramsciano, la critica della previsione storica. […] In secondo luogo […la] falsificazione della dialettica […] è una prerogativa degli intellettuali […] quelli che impersonano la sintesi […] che essi manipolano speculativamente nel loro cervello dosandone gli elementi arbitrariamente (Gramsci, Quaderni del carcere[10], p. 1222)” (Bobbio 1958, p. 23-24) [Bobbio, N. (1958). Nota sulla dialettica in Gramsci. Società, XIV: 21-24.]

Anche da questo punto di vista, Sen non è di facile decifrazione. Cita infatti Gramsci (qualificato come “probabilmente il più innovativo filosofo marxista del XX secolo” [p. 129]) per quanto solo a proposito del linguaggio non rappresentazionista ponendo “l’accento sulle convenzioni e sulle regole che conferiscono alle parole il loro particolare significato.” (p. 130). Non mi sembra facile decidere se per Sen questa importante considerazione sul Gramsci dei Quaderni debba intendersi anche come accoglimento delle posizioni di Gramsci sull’approccio critico alla teoria della prassi. Se però fosse così, si giungerebbe ad una nuova conferma di quella sorta di ambiguità già sopra segnalata, che in questo caso si presenterebbe come oscillazione tra un approccio funzionalista e un approccio dialettico, che sono tra loro assai distanti.


[1] Nel testo della Bhagavad-Gita, Capitolo 1 versi da 26 a 31, si legge: “Arjuna vede allora tra le file dei due eserciti i padri, i nonni, i maestri, gli zii materni, e i fratelli, i figli, i nipoti e gli amici, e insieme i suoceri e tutti i suoi benefattori. Vedendo davanti a sé tutte quelle persone legate a lui da amicizia e parentela in differenti gradi, Arjuna, il figlio di Kunti, è sopraffatto dalla compassione e si rivolge al Signore. Mio caro Krishna, vedendo parenti e amici schierati davanti a me in tale spirito bellicoso, sento le membra tremare e la bocca inaridirsi. Tutto il mio corpo rabbrividisce, i miei capelli si rizzano, l’arco Gandiva mi scivola dalla mano e la mia pelle brucia. O Krishna, uccisore del demone Kesi, non posso più a lungo restare qui. Non sono più padrone di me stesso e la mia mente vacilla. Prevedo solo eventi funesti. Non vedo che cosa possa portare di buono l’uccisione dei miei parenti in questa battaglia: mio caro Krishna, non desidero neppure la vittoria che ne seguirebbe, il regno o la felicità.” (La Bhagavad-Gita – Così com’è Con testo sanscrito originale, translitterazione in caratteri romani, traduzione letterale, traduzione letteraria e spiegazioni; di Sua Divina Grazia A.C. Bhaktivedanta Svami Prabhupada Acarya; fondatore dell’Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna. The Bhaktivedanta Book Trust © 2003 (in seguito “Gita”)

[2] Gita Capitolo 2, versi 2 e 3 “Dio, la Persona Suprema, disse: Mio caro Arjuna, da dove viene questa mancanza di purezza? Non è affatto degna di un uomo che conosce il valore della vita. Non ti porterà ai pianeti superiori ma all’infamia. O figlio di Pritha, non cedere a questa umiliante impotenza. Non ti si addice. Abbandona questa meschina debolezza di cuore, o vincitore del nemico, e alzati.” Capitolo 2, verso 38: “Combatti per dovere, senza considerare gioia o dolore, perdita o guadagno, vittoria o sconfitta — così facendo non incorrerai mai nel peccato.”

[3] Gita Capitolo1, versi 36 e 45, 46: “Saremo sopraffatti dalla colpa se uccidiamo i nostri aggressori. Non è degno di noi uccidere i figli di Dhritarastra e i nostri amici. Che cosa ne ricaveremo, o Krishna, marito della dea della fortuna, e come potremo essere felici dopo aver ucciso i nostri stessi parenti? […] Preferirei piuttosto essere ucciso sul campo di battaglia per mano dei figli di Dhritarastra, disarmato e senza opporre resistenza. Dopo aver così parlato sul campo di battaglia, Arjuna lascia cadere l’arco e le frecce e si diede nuovamente sul carro con la mente oppressa dal dolore.”

[4] Gita Capitolo 2, versi da 11 a 14 e 19: “Dio, la Persona Suprema, disse: Sebbene tu dica sagge parole, ti affliggi per ciò che non è degno di afflizione. I saggi non si lamentano né per i vivi né per i morti. Mai ci fu un tempo in cui non esistevamo, Io tu e tutti questi re, e in futuro mai nessuno di noi cesserà di esistere. Come l’anima incarnata passa, in questo corpo, dall’infanzia alla giovinezza e poi alla vecchiaia, così l’anima passa in un altro corpo all’istante della morte. La persona saggia non è turbata da questo cambiamento. O figlio di Kunti, la comparsa non permanente della gioia e del dolore, e la loro scomparsa nel corso del tempo, sono simili all’alternarsi dell’inverno e dell’estate. Gioia e dolore sono dovuti alla percezione dei sensi, o discendente di Bharata, e si deve imparare a tollerarli senza esserne disturbati. […] Non è situato nella conoscenza colui che crede che l’anima possa uccidere o essere uccisa; l’anima infatti non uccide né muore.”

[5] Gita Capitolo 2, versi 35 e 37: “I grandi generali che ebbero un’alta stima del tuo nome e della tua fama penseranno che solo per paura tu abbia abbandonato il campo di battaglia e ti considereranno una persona insignificante. […] O figlio di Kunti, se muori sul campo di battaglia raggiungerai i pianeti celesti, se vinci godrai del regno della Terra. Alzati dunque, e combatti con determinazione.”

[6] Gita Capitolo 2, versi 39, 40, 46, 47, 56: “Finora ti ho descritto questa conoscenza col metodo analitico. Ora ascolta mentre te la spiego col metodo dell’azione compiuta senza attaccamento al risultato. O figlio di Pritha, agendo con questa conoscenza ti libererai dai legami dell’azione. In questo sforzo non vi è perdita o diminuzione, e un piccolo passo verso questa via ci protegge dalla paura più temibile. […] Come una grande riserva d’acqua adempie a tutte le funzioni del pozzo, così colui che conosce il fine supremo dei Veda raccoglie tutti i benefici che i Veda procurano. Tu hai il diritto di compiere i tuoi doveri prescritti, ma non di godere dei frutti dell’azione. Non considerarti mai la causa dei risultati delle tue attività e non cercare mai di sfuggire al tuo dovere. […] Chi non è più turbato dalle tre forme di sofferenza né inebriato dalle gioie della vita, ed è libero dall’attaccamento, dalla paura e dalla collera, è considerato un saggio dalla mente ferma.”

[7] Permission, action opportunities, making sense, sono termini usati da Lane e Maxfield, per caratterizzare le condizioni in cui si hanno relazioni generatrici e innovazione. (Lane, D.A., R. Maxfield (1997) Foresight, complexity and strategy, in Arthur B, Durlauf S, Lane, D.A. (eds), The economy as a complex evolving system 2. Redwood City, CA: Addison-Wesley: 169-198).

[8] Gita Capitolo 2, verso 5: “Meglio vivere in questo mondo mendicando piuttosto che vivere al prezzo della vita di grandi anime, quali i miei maestri. Sebbene avidi di guadagni materiali, essi sono pur sempre i nostri superiori. Se li uccidiamo, tutto ciò di cui potremo godere sarà macchiato di sangue.”

[9] Si consideri per esempio, Gita Capitolo 2, Versi 8 e 9: “Non vedo il modo di allontanare il dolore che inaridisce i miei sensi. Non riuscirò a eliminarlo nemmeno se sulla Terra ottenessi un regno prospero e senza uguali e una sovranità simile a quella dei deva sui pianeti celesti. Avendo così parlato, Arjuna, il vincitore dei nemici, dice a Krishna: «Govinda, Non combatterò», e rimane in silenzio.”

[10] Il riferimento è all’edizione del 1975, Einaudi, curata da Valentino Gerratana.

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