In-work poverty: che fare?*

Andrea Garnero, Silvia Ciucciovino, Mariella Magnani, Paolo Naticchioni, Michele Raitano, Stefani Scherer, Emanuela Struffolino presentano i punti principali della relazione del Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia preparata su richiesta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. Dopo aver richiamato una serie di statistiche sul numero dei lavoratori che possono essere considerati a rischio di povertà, gli autori descrivono brevemente il pacchetto di proposte di riforma contenute nella relazione.

*Questo articolo è stato scritto da: Andrea Garnero, Silvia Ciucciovino, Mariella Magnani, Paolo Naticchioni, Michele Raitano, Stefani Scherer, Emanuela Struffolino

Avere un lavoro non è sufficiente per non cadere in povertà, particolarmente in Italia. Nel dibattito pubblico, la povertà lavorativa è spesso collegata a salari insufficienti. Tuttavia, la povertà lavorativa, così come la povertà in generale e la disuguaglianza, sono il risultato di un processo che oltre al salario orario riguarda i tempi di lavoro (ovvero quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati nel corso di un anno), la composizione familiare (in particolare quante persone percepiscono un reddito all’interno del nucleo) e l’azione redistributiva dello Stato (Figura 1).

 

Figura 1: La “catena” di creazione di povertà e disuguaglianza

 

Come si definisce un lavoratore povero? Secondo l’indicatore adottato dall’Unione Europea, un individuo è considerato in in-work poverty (IWP) se dichiara di essere stato occupato per almeno sette mesi nell’anno e se vive in un nucleo familiare che gode di un reddito equivalente disponibile inferiore al 60% del reddito mediano nazionale. Nella Relazione che abbiamo preparato su richiesta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Andrea Orlando, abbiamo deciso di andare questo indicatore per mostrare più chiaramente l’interazione fra i rischi di bassi salari individuali e di povertà valutata su base familiare e di includere nelle nostre analisi anche i lavoratori occupati per meno di sette mesi all’anno che sono tra i più esposti al rischio di povertà.

Usando i dati EU-SILC per il periodo 2006-2017, troviamo un’incidenza della povertà lavorativa (valutata su base familiare) pari al 13,2% (un valore più alto di 0,9 punti percentuali rispetto a quello riportato dall’indicatore UE), in netta crescita dal 10,3% del 2006 e concentrata in particolare tra i lavoratori autonomi e a tempo parziale (Tabella 1).

 

Tabella 1: Percentuale di lavoratori poveri

Nel 2017 il rischio di povertà lavorativa era pari, rispettivamente, al 14,2% fra gli uomini e all’11,8% fra le donne. Un risultato paradossale, viste le note difficoltà delle donne nel mercato del lavoro. Tuttavia questo dato dipende quasi esclusivamente dal fatto che le donne in molti casi sono “solo” il secondo percettore di reddito: l’incidenza della povertà lavorativa nel 2017 passa, infatti, dal 22,1% nelle famiglie con solo un percettore di reddito al 7% nelle famiglie con due percettori. Se, invece, muoviamo dal livello familiare a quello individuale (Tabella 2), quindi considerando la quota di lavoratori con retribuzioni individuali inferiori al 60% della retribuzione mediana, la quota di lavoratori poveri risulta, nel 2017, pari al 16,5% fra gli uomini e al 27,8% tra le donne.

 

Tabella 2: Rischio di bassa retribuzione individuale (percentuali), 2017

La Tabella 2 mostra, inoltre, che il sistema fiscale e di trasferimenti gioca un ruolo importante nell’attenuare i rischi di bassa retribuzione, seppure senza riuscire a compensare sufficientemente i rischi legati a un lavoro a tempo parziale e autonomo (sul quale incide, peraltro, la più elevata aliquota contributiva).

A fronte dell’aumento della povertà lavorativa, l’unica misura introdotta con l’obiettivo esplicito di aumentare le retribuzioni medio-basse sono stati gli “80 euro”, che, va ricordato, si basano sul salario individuale e non sono corrisposti a chi ha un reddito talmente basso da risultare incapiente a fini fiscali. Il Reddito di Cittadinanza è, invece, una forma di reddito minimo indirizzato primariamente a chi ha reddito e patrimonio molto limitati. Per questo motivo, seppur sottolineando come la povertà da lavoro dipenda primariamente da politiche macroeconomiche e misure che incidano su struttura produttiva e partecipazione attiva, nella nostra relazione, a cui rimandiamo per i dettagli, abbiamo avanzato cinque proposte indirizzate a supportare i redditi individuali e familiari.

  1. Minimi salariali adeguati sono una condizione necessaria (ma non sufficiente) per combattere la povertà lavorativa tra i lavoratori dipendenti. Nel caso italiano sono due le opzioni da tempo in discussione: estendere l’applicazione dei contratti collettivi principali a tutti i lavoratori del settore oppure introdurre un salario minimo per legge. Le due opzioni si scontrano con ostacoli politici e tecnici che da anni bloccano ogni avanzamento in materia. Per questo motivo, oltre a queste due opzioni, suggeriamo di partire con una sperimentazione di un salario minimo per legge o griglie salariali basate sui contratti collettivi in un numero limitato di settori, caratterizzati da maggiore criticità per valutarne gli impatti economici e sul sistema di relazioni industriali.
  2. Al di là della fondamentale attività ispettiva, il Gruppo considera cruciale potenziare l’azione di vigilanza documentale, cioè basata sui dati che le imprese e i lavoratori comunicano alle Amministrazioni pubbliche costruendo indici di rischio a livello di impresa o settore per permettere un confronto sulle anomalie riscontrate e, in caso di persistenza nel tempo, studiare strategie di intervento interagendo con le imprese oppure guidando la vigilanza ispettiva.
  3. In Italia, manca uno strumento per integrare i redditi dei lavoratori poveri, un in-work benefit (letteralmente trasferimento a chi lavora), che, invece, permetterebbe di aiutare chi si trova in situazione di difficoltà economica e incentiverebbe il lavoro regolare. Un in-work benefit in Italia dovrebbe assorbire gli “80 euro” (ora Bonus dipendenti) e la disoccupazione parziale per arrivare a uno strumento unico, di facile accesso e coerente con il resto del sistema (in particolare, Reddito di Cittadinanza e Assegno Unico e Universale per i Figli). Sulla base delle esperienze internazionali, il trasferimento dovrebbe essere definito a livello individuale per non disincentivare il lavoro del secondo percettore e crescere fino a una certa soglia di reddito per poi stabilizzarsi e poi decrescere. Tuttavia, per evitare che un in-work benefit possa trasformarsi, surrettiziamente, in un incentivo al lavoro povero, una misura di questo tipo deve accompagnarsi alla presenza e al rispetto di minimi salariali adeguati e, più in generale, al controllo del numero di ore di lavoro e dei salari dichiarati.
  4. Alle tre misure precedenti è possibile affiancare forme di accreditamento per incentivare le imprese a pagare salari adeguati (si veda l’esperienza del Living wage nel Regno Unito) oppure di name and shame per chi, al contrario, non rispetta la normativa sul lavoro. Per i lavoratori, poi, servono strumenti e campagne per aumentare la leggibilità dei CCNL e dei vari strumenti di sostegno al reddito per assicurarsi che i lavoratori che ne hanno bisogno possano avervi effettivamente accesso. È importante, inoltre, un’adeguata e tempestiva informazione sulle prospettive pensionistiche (la c.d. “busta arancione”) per mettere in risalto i rischi derivanti dal cumulo di situazioni di svantaggio. Infine, seguendo l’esperienza del programma “VisitINPS”, un più facile accesso ai tanti dati che le Amministrazioni pubbliche (nazionali e locali) raccolgono nell’espletamento delle loro funzioni consentirebbe di promuovere la ricerca in materia e misurare l’effetto che strumenti diversi possono avere nel contrastare questo fenomeno.
  5. Infine, riteniamo utile che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali si faccia promotore di una revisione dell’indicatore europeo con l’obiettivo di estendere la platea di riferimento a tutti coloro i quali sono occupati almeno una volta in un anno e prendere in considerazione anche i redditi da lavoro degli individui oltre che il reddito equivalente di cui dispongono all’interno del nucleo familiare in cui vivono.

 

Figura 2: Come le cinque proposte per combattere la povertà lavorativa si inseriscono nella catena di creazione di povertà e diseguaglianze

Ciascuna proposta insiste su uno o più degli anelli della catena di creazione di povertà e disuguaglianza (Figura 2) e vanno considerate nel loro complesso. Infatti, nessuna di esse presa isolatamente appare risolutiva, ma soprattutto perché, se non combinate con altre, alcune proposte rischiano di essere inefficaci (un salario minimo senza controlli più stringenti) o dannose (un in-work benefit senza minimi salariali adeguati e rispettati). Se prese insieme, invece, le cinque proposte potrebbero permettere di fare un passo avanti per garantire condizioni di lavoro dignitose nel presente che siano anche fonte di sicurezza economica nel futuro.

 

 

*Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano esclusivamente il punto di vista degli autori e non riflettono la posizione delle istituzioni a cui appartengono né quella del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. L’articolo viene pubblicato in contemporanea su lavoce.info.

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