In mare aperto alla ricerca dell’origine della modernità

   La mente va a Cristoforo Colombo: contro il senso comune, contro il modo corrente di pensare contro ogni tutela trascendente, ma anche immanente, fece la scommessa di viaggiare controcorrente, in senso inverso, verso un mondo che sembrava non tanto ignoto quanto, piuttosto, inesistente. Il genovese aveva pensato con la sua testa, in piena autonomia. Aveva ritenuto che fosse giunto il momento di osare. Osò e vinse. Ma ancor prima di lui qualcuno aveva invitato a viaggiare “per l’alto mare aperto”. Un eroe, ma un eroe moderno ante litteram. Lo stesso personaggio che Omero ci descrive alle prese con gli inganni che la mente umana può escogitare al fine di conquistare, diventa nelle terzine della Commedia dantesca il protagonista di quello scatto verso la modernità che aprì prospettive nuove all’uomo: Ulisse, Odisseo.

   La modernità nasce, allora, molto prima che Colombo scopra l’America, consegnandola a coloro che la conquisteranno mettendo in atto il genocidio delle popolazioni indigene per certi versi ancora attivo. Come Colombo scoprì l’America, Scalfari ci guida in un viaggio affascinante attraverso la modernità al fine di fissarne i tratti caratteristici e sostanziali, le coordinate del pensiero filosofico e della produzione letteraria che essa definì nel suo porsi (E. Scalfari, Per l’alto mare aperto. La modernità e il pensiero danzante, Einaudi, Torino 2010, pp. 286, € 19,50).

   E’ noto ciò che Kant rispose nell’ambito dell’inchiesta intorno a cosa fosse l’Illuminismo: l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli doveva imputare soltanto a se stesso. E benché il filosofo di Königsberg ci avesse messo il massimo impegno al fine di fare con Dio ciò che i rivoluzionari francesi avevano fatto con il re, cioè tagliargli la testa, il Padreterno gli rimaneva non dimostrabile ma non per questo non pensabile, ossia un’idea. Insomma per quanto fosse necessario, per essere moderni, sottrarsi all’idea di Dio (nobile compito nel quale ancor prima di Kant si era cimentato l’ebreo scomunicato Spinoza), quel Dio che Cartesio aveva dovuto far rientrare dalla finestra del suo pensiero dopo averlo cacciato dalla porta, sostituendolo con il “cogito”, logica introduzione all’esistenza con tanto di pronome personale di prima persona e che non ne voleva sapere di morire, sembrava un ostacolo insormontabile.

   C’era bisogno che qualche moderno, ancora più autonomamente pensante rispetto a tutti quanti gli altri, dicesse qualcosa di definitivo intorno al tema di Dio e del suo rapporto con l’uomo e con il mondo. Eccoli, allora, i pensatori del sospetto, che ancora oggi tanto incupiscono vescovi, cardinali, fino a Sua Santità; eccoli, Marx, Nietzsche, Freud. Francamente trovare Marx nel Pantheon dei pensatori della modernità, collocatovi da un non marxista, per quanto aperto ed illuminista, come Scalfari, è cosa notevole. Il materialismo storico è moderno, l’analisi del capitalismo proposta da Marx è moderna: la soluzione, ossia la rivoluzione, è anacronistica. Eppure il lettore attento si rende conto che l’anacronismo infettato di determinismo di cui scrive Scalfari nasconde un tasso di simpatia per il pensatore di Treviri così elevato da introdurre il sospetto che, magari per le vie oggi invero anch’esse anacronistiche e ardue del riformismo, qualcuna delle indicazioni marxiane abbia ancora un senso. Questo Marx introduce Freud che parla del disagio della civiltà e della sublimazione come deviazione verso l’arte o altro di quella ricerca della felicità che il mondo morale nega all’individuo. Nevrosi ed ansie sono l’esito della rinuncia a vivere e a cercare nel mondo la soluzione ai problemi del disagio. Finché Zarathustra non porta l’incendio, annuncia la morte di Dio, pone l’uomo nella natura e lo invita ad accettare la vita così come essa è, al di là del bene e del male.

   L’uomo che, sottrattosi alla primigenia, originaria condizione del cammello (terminus a quo) che è solo in grado di ubbidire e di portare tutti i pesi che gli vengono caricati sul groppone, si rifugia nel deserto della propria solitudine e lì scopre una volontà che non sa soltanto dire di no, ma che sa dire di sì a se stessa: l’uomo diventa leone perché vuole. Ma per affrontare il mondo, in questa danza del recupero della vita, bisogna ritornare ad una situazione di disincanto (quello stesso che Scalfari rinviene in Montaigne), una condizione che preceda il mondo rassegnato e compassionevole creato dal Cristianesimo e dagli artifici della religione, un mondo innocente in quanto non conosce il peccato che è stato creato appositamente affinché l’uomo fosse cammello. L’uomo deve essere fanciullo, pronto a viaggiare e danzare nel cosmo, libero di esperire se stesso e la propria volontà, pronto a porsi nell’eterno divenire ciclico delle cose che non sono create ma sono così da sempre e lo saranno per sempre (für ewig, avrebbe scritto un altro grande moderno che, però, Scalfari non cita).

   Quello stesso uomo che, in quanto moderno, alla maniera di Leopardi, accetta la vita ma da essa non si fa travolgere, rinasce come ginestra titanicamente sopravvissuta al disastro dell’eruzione dello “sterminator Vesevo”.

   Quello stesso uomo che, alla maniera del Montale della Casa dei doganieri, ricorda ai suoi contemporanei che la postmodernità è la fine del libero pensiero: “Tu non ricordi la casa di questa/ mia sera. Ed io non so chi va e chi resta”. Quello stesso Montale che, in un altro luogo non meno famoso della sua opera poetica, fa presente che alla povertà del presente si deve rispondere, proprio in nome della modernità, almeno rifiutandola con lo stesso atteggiamento di “gran dispitto” che Farinata mostra nei confronti dei suoi interlocutori: “Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.  

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