In lotta per il potere: l’impossibile sfida dei partiti politici europei?

Giorgio Grasso si interroga sull’effettiva capacità delle formazioni politiche europee di competere per il potere, in modo analogo ai partiti politici nazionali. Dopo avere ricordato il ruolo che svolge la norma sui partiti inserita nei Trattati, Grasso individua nel potere del Consiglio europeo uno dei fattori principali di impedimento per una vera competizione tra i partiti europei per il potere e delinea alcune vie di uscita, non immediate ma neanche impossibili, che condurrebbero ad una radicale trasformazione della fisionomia complessiva dell’Europa.

La circostanza che le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del maggio 2014 abbiano visto, perla prima volta, la personalizzazione dei candidati dei principali schieramenti politici europei alla Presidenza della Commissione europea, in ragione delle modifiche intervenute nel sistema dei Trattati (esaminate nella scheda di Mario Gervasi, in questo numero della rivista), secondo le quali la proposta di candidato Presidente della Commissione, deliberata dal Consiglio europeo e rivolta al Parlamento europeo, deve avvenire tenendo conto delle elezioni di quest’ultimo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, offre lo spunto per ragionare sul significato che i c.d. partiti politici europei hanno nel contesto della vita politica dell’Unione e delle dinamiche della forma di governo disegnata dal Trattato.
In particolare, anche dopo la designazione di Jean-Claude Juncker come Presidente della Commissione nel Consiglio europeo del 26-27 giugno 2014 e in attesa che si perfezioni la sua elezione parlamentare e si definisca la composizione della nuova Commissione, il tema cruciale sul quale queste osservazioni andranno ad incentrarsi riguarda l’effettiva capacità delle formazioni politiche europee, raccolte intorno alle tradizionali famiglie dei popolari europei, dei socialisti europei, dei liberaldemocratici europei, della sinistra unitaria europea e dei verdi europei (ma ora con un quadro sempre più variegato per il numero molto elevato di nuovi parlamentari appartenenti a schieramenti frontalmente antieuropeisti, euroscettici o eurocritici, secondo la distinzione proposta su questa rivista da Alfio Mastropaolo), di essere davvero in competizione, nell’arena politica europea, per il potere, in lotta per il potere, per meglio dire, come è abitualmente riconosciuto ai partiti politici nazionali, pur nella profonda crisi che attraversa questo tradizionale strumento di rappresentanza e mediazione politica.
Invero, tale domanda presuppone di riconoscere effettivamente agli organi di governo dell’Unione europea la titolarità di funzioni di indirizzo politico in senso proprio, contro quell’autorevole ricostruzione dottrinale (Gianni Ferrara) che contesta la possibilità di utilizzare il concetto di indirizzo politico in riferimento al diritto comunitario, constatando che all’interno del Trattato tutto sarebbe già enumerato, previsto, incorporato, non lasciandosi spazio alcuno a quella forma di libertà d’azione che connota davvero il perseguimento dei fini politici, veicolati nell’indirizzo politico e, prima che in esso, nell’indirizzo partitico.
Se non ci fosse indirizzo politico, politica generale, per dirla con l’art. 95 della Costituzione italiana, che cosa servirebbe discorrere infatti di lotta per il potere, per la determinazione della politica nazionale, tracciata in un’altra disposizione della Costituzione italiana, l’art. 49?
Ma forse più che alle vicende dei partiti politici italiani, la storia degli euro partiti è legata a quelle dei partiti politici dello Stato oggi egemone in Europa, la Germania, le cui disposizioni costituzionali in tema di partiti politici hanno rappresentato certamente un modello di riferimento, quando con il Trattato di Maastricht venne inserita nel testo dei Trattati la norma sui partiti.
Norma che, nella sua attuale formulazione, prevede che “i partiti politici a livello europeo contribuisc[a]no a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione”, affidandosi alla fonte regolamentare la determinazione dello statuto e delle norme relative al loro finanziamento.
Il Regolamento concernente il finanziamento e lo statuto dei partiti politici europei, risalente al 2003 e successivamente emendato, ha avuto il merito di imporre alle formazioni politiche europee una serie di obblighi, anche con esili orientamenti in tema di democrazia interna, in cambio dei quali assicurare cospicui finanziamenti, tanto che il numero dei partiti politici europei, talvolta solo debolmente collegati con la consistenza dei gruppi parlamentari al Parlamento europeo, è cresciuto ben al di là delle tradizionali formazioni politiche europee (le cinque che si sono già citate e che nelle elezioni dello scorso mese di maggio avevano indicato le loro candidature alla carica di Presidente della Commissione, a cui può aggiungersi l’Alleanza libera europea). Anche se in tono minore, cioè, pure a livello europeo, come già era accaduto in Germania nel 1967 con l’adozione del Parteiengesetez, una vera e propria auto-imposizione sul piano politico, per dirla con le parole di Leopoldo Elia, ha rappresentato la moneta di scambio per risolvere lo scottante problema del finanziamento (così Cesare Pinelli).
Ma tornando al tema principale dell’intervento, perché la lotta per il potere rischia di essere una sfida impossibile per i partiti politici europei, anche dopo le elezioni del Parlamento europeo di un mese fa?
La logica maggioranza-opposizione ha fatto sempre fatica a emergere all’interno del Parlamento europeo e il legame tra la Commissione e l’Assemblea di Strasburgo non è riconducibile pienamente nella logica della fiducia, tipica dei regimi parlamentari.
In passato, in alcune occasioni il Parlamento europeo ha avuto la capacità e la forza di orientare la composizione della Commissione, come nelle vicende della Presidenza Santer nel 1994 o nel caso Buttiglione nel 2004, all’interno della Commissione Barroso I. Ma si è trattato di avvenimenti episodici, che non hanno inciso profondamente sui rapporti tra i due organi.
L’esito elettorale di maggio 2014 ha consegnato un Parlamento nel quale nessun partito politico a livello europeo ha da solo la maggioranza per poter “governare”, imponendo al Consiglio europeo un nome secco per la presidenza della Commissione. Certo tra i cinque (anzi sei) candidati Presidenti, Juncker, che alla fine l’ha spuntata, ha dalla sua parte la maggioranza relativa dei seggi in Parlamento, ma è una maggioranza che, senza un accordo politico preso a livello di Consiglio, non sembrava in grado di spingere nella direzione di una designazione alla presidenza della Commissione del candidato del Partito popolare europeo.
Se la proposta del Consiglio europeo non fosse corrisposta a quella del candidato del partito più votato, si è scritto che l’Europa avrebbe perso forse l’ultima occasione per fare contare la voce della democrazia. Ma così impostato il ragionamento sembra davvero provare troppo, sia perché tenere conto delle elezioni del Parlamento europeo avrebbe potuto anche implicare la mera presa d’atto che quel candidato relativamente più votato non aveva il sostegno della maggioranza del Parlamento europeo, sia perché, soprattutto, la scelta compiuta su Juncker ha evidenziato comunque la preponderanza del Consiglio europeo, in cui siedono i Capi di Stato e di Governo.
Il vero punto di svolta, forse, oramai per scenari futuri, dovrebbe passare per la valorizzazione del momento elettivo del Presidente della Commissione, con un Parlamento in grado, attraverso le indicazioni dei suoi gruppi parlamentari, opportunamente consultati, di orientare in modo robusto il potere di proposta del Consiglio.
Ma per questo versante la difficoltà dei partiti politici europei di lottare appunto per il potere sembra emergere in tutto il suo nitore, perché rimane troppo forte il potere di proposta del Consiglio europeo, dimostrato per l’appunto dalla designazione di Juncker, mentre quei partiti sembrano non avere la coesione per poter essere i protagonisti dell’investitura della Commissione, tanto rimane consolidata l’impressione di alleanze politiche con vincoli troppo esili tra i componenti, in un’Europa sempre più grande ed eterogenea.
Quali possono essere, allora, le vie di uscita per un rafforzamento del ruolo partitico nel contesto europeo, che finirebbe anche per accentuare la natura politica della Commissione?
Riuscire a innestare i partiti europei in una dinamica di vera alternanza, di schieramenti fortemente contrapposti, potrebbe giovare, benché sia complicato (e non auspicabile) prefigurare un bipolarismo centro-destra centro-sinistra, un po’ annacquato anche nei lidi nazionali, in ragione della preferenza irrinunciabile di sistemi elettorali proporzionali e non selettivi della rappresentanza politica europea. Il rischio vero è che la partita finisca per esser bipolare, nel senso della distinzione tra partiti europeisti e non europeisti (spesso populisti), laddove però l’idea di Europa per i primi potrebbe essere molto diversa alla fine, penalizzando le posizioni minoritarie (ciò spiega l’accordo tra Partito popolare europeo, Partito socialista europeo e probabilmente Liberali su Juncker, con la tendenziale emarginazione di sinistra europea e verdi, forze pur certamente a vocazione europeista).
Un espediente per rinvigorire la dimensione di politicità della lotta partitica potrebbe essere quello di ricorrere, mediante una riforma dei sistemi elettorali nazionali, a una circoscrizione unica europea per una quota significativa di parlamentari.
Ma forse solo una radicale revisione del diritto dei Trattati potrebbe permettere ai partiti politici europei di compiere un autentico salto di qualità, nella loro trasformazione in partiti che concorrono e confliggono per promuovere indirizzi politici contrapposti: quella di sganciare l’elezione del Presidente e la successiva formazione della Commissione dal potere di proposta del Consiglio europeo.
Tuttavia questa sarebbe un’altra Europa, assai diversa da quella di oggi, che partendo dal basso metterebbe al centro la politica, dei cittadini europei che con il loro voto riuscirebbero forse, attraverso i partiti, a prendere in mano i destini del Continente.

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