In Italia ci sono ancora contadini?

L’agricoltura, l’economia agraria, lo spazio rurale non sono mai stati al centro dell’attenzione della politica, degli economisti e dell’opinione pubblica. Da qualche tempo ne sono usciti completamente. Qualcuno s’interroga di tanto in tanto, mentre fa la spesa al supermercato o mentre mangia, da dove provengono i prodotti alimentari che si consumano; generalmente si limita a leggere le etichette sull’involucro e pensa di avere risolto il problema con la tracciabilità, il mitico strumento della sicurezza alimentare. Il fatto che i sapori sono sempre uguali, che gli stessi prodotti sono disponibili tutto l’anno a dispetto delle stagioni, che non esiste differenza tra le agricolture dei diversi continenti perché la biodiversità è stata dimenticata, costituisce al massimo una lamentela, unita a quella più sentita del costante aumento dei prezzi.

Come stanno realmente le cose? Esistono ancora i contadini o la produzione agricola è diventata una immensa azienda senza diversificazione? Una recente pubblicazione della sociologa Silvia Pérez-Vitoria, dal significativo titolo Il ritorno dei contadini, pubblicato da Jaca Book, ha per qualche giorno riaperto il dibattito sul tema, almeno tra gli esperti. Salvo tornare, subito dopo, al vuoto di sempre. La tesi dell’autrice si basa su studi condotti in ogni parte del mondo, principalmente nei paesi più poveri e si basa sulla constatazione elementare che la presenza dei contadini è condizione indispensabile per la sopravvivenza e quindi ne auspica il ritorno anche nei paesi più industrializzati, come in Europa. Ma ciò sarà possibile? E’ certamente auspicabile un’agricoltura più dimensionata sull’uomo che sulla macchina e sul mercato globale, ma sarà possibile un ritorno al passato?

Negli ultimi cinquant’anni l’agricoltura europea, compreso quella italiana, è profondamente cambiata. Il contadino tradizionale non c’è più, è stato sostituito dall’imprenditore agricolo, il quale molto spesso è un componente della famiglia originaria che ha preso in mano le redini dell’azienda. Magari ha studiato, si è laureato, conosce le regole dell’amministrazione pubblica, della finanza e del mercato, è inserito nella politica. L’impiego della tecnologia ha trasformato il vecchio podere in una sorta di fabbrica a cielo aperto dove meccanizzazione, fertilizzanti chimici di ogni tipo, lotta alle parassitosi con sistemi sempre più mirati sfidano le stagioni e il ciclo vegetativo e animale. Ne consegue un aumento costante della produttività, ma anche i costi di produzione crescono e di conseguenza ne risente il prezzo finale per il consumatore. Colpa della filiera troppo lunga, è vero. La produzione di qualità e il recupero della tradizione sono stati vincenti sul mercato, ma hanno richiesto notevoli investimenti in ricerca e in tecnologia, non sempre sostenuti dall’intervento pubblico, nazionale ed europeo. I maggiori costi si sono scaricati sul prezzo per i prodotti che sono riusciti a imporsi anche per effetto di massicce e continue campagne promozionali pubbliche, mentre per i prodotti standard si è verificato addirittura un calo del prezzo alla produzione.

Da qualche anno si assiste a un aumento della domanda di derrate alimentari, anche di qualità, sui mercati di tutto il mondo. Quasi due miliardi di abitanti sono usciti dalla soglia di povertà in Cina e in India, dove il fabbisogno alimentare cresce costantemente e non sempre è soddisfatto dalla produzione locale. Nello stesso tempo la strisciante crisi energetica, provocata dall’aumento inarrestabile del prezzo del greggio, ha spinto molti paesi a destinare produzioni cerealicole e leguminose all’estrazione di etanolo. Raoul Gardini sarà soddisfatto, avendo combattuto e perso venti anni fa la battaglia per la produzione di bioetanolo in Europa. Nello stesso tempo continua la tragedia delle carestie in Africa, con la morte di migliaia di bambini, non solo per colpa delle guerre tribali.

Di fronte a tutto ciò, nell’Unione Europea e in Italia nessuno denuncia lo scandalo delle quote di produzione, del set-aside, della limitazione imposta burocraticamente alla produzione agricola. Anche lo sforzo di pesca risente di questa impostazione restrittiva, in nome di culture ambientaliste mai dimostrate. Si tratta di una situazione intollerabile. In Europa si bruciano miliardi di euro all’anno per mantenere alto il prezzo dei prodotti agricoli, mentre cresce la povertà negli stessi paesi industrializzati tra i pensionati, le famiglie monoreddito, i giovani precarizzati. Non sono soltanto immigrati, regolari e clandestini, a non potersi permettere tutti i giorni il latte a quasi 2 euro il litro, il pane a 2,5 euro e il prosciutto a circa 3 euro l’etto.

Come affrontare questa vera e propria emergenza? L’Unione Europea non sembra percepire la drammaticità della situazione. Il ministro Paolo De Castro, su cui erano state riposte tante speranze, ha annunciato la scorsa primavera una conferenza agraria per affrontare i nodi strutturali ancora esistenti nelle campagne italiane e le conseguenze spesso sconvolgenti dei mutamenti climatici, ma non si vedono risposte e segnali di scelte innovative. A ciò si aggiunge la totale inefficacia del controllo dei prezzi al consumo, mentre cresce la delusione degli agricoltori. La sacrosanta abolizione dei prezzi amministrati e le liberalizzazioni sono state introdotte all’italiana, facilitando la speculazione da parte dei soliti furbi.

Si può tornare ai contadini, per rispondere alle nuove emergenze? Una recente inchiesta del sociologo Corrado Barberis ha messo in evidenza che nel Lazio, Roma esclusa, l’autoconsumo è in crescita, sfiorando il 25%. In alcune zone delle regioni meridionali raggiunge il 45%. Si tratta di micro-agricoltura, pur sempre utile per soddisfare il fabbisogno di frutta, verdure, uova e pollame, spesso latte, formaggi, carni suine insaccate e conservate. Ma può essere questa la strada, tornare al passato, all’azienda contadina che impegna il coltivatore tutto l’anno, senza ferie e festività? Non credo possa essere questa la risposta sul piano strutturale e neanche su quello economico. E dunque?

Per circa vent’anni si è discusso sulla biodiversità produttiva per dare risposte moderne alla domanda di reddito dei produttori e di derrate alimentari di qualità e a prezzi accessibili per i consumatori. Questa strada è stata imboccata per quelle produzioni tipiche che sono riuscite a imporsi sul mercato. Ma quanti possono permettersi di bere vini blasonati affinati in barrique, condire i cibi con oli pregiati, consumare carni provenienti da alpeggi e pascoli naturali, frequentare ristoranti dove cucinano cuochi rinomati? Chi si occuperà di soddisfare le esigenze di milioni di pensionati e di famiglie monoreddito, per restare all’Italia? La risposta non può essere lasciata soltanto alle corporate alimentari che operano in ogni parte del globo, annullando la stagionalità e la distintività produttiva. I prodotti destinati alle crescenti masse popolari debbono essere per forza dequalificati?

Bisogna dunque agire sullo standard qualitativo medio e su prezzi accessibili, accorciando la filiera, riducendo i costi e combattendo la speculazione. Sembra ineludibile un grande processo di riorganizzazione degli agricoltori sul lato dell’offerta, attraverso la programmazione produttiva da parte delle associazioni dei produttori e della cooperative agro-industriali, tagliando sprechi e destinando risorse soltanto a chi produce secondo precisi standard. Ma chi ha la forza di avviare una simile strategia, destinata a tagliare investimenti pubblici improduttivi e assistenziali da destinare al finanziamento della riorganizzazione strutturale, a toccare interessi consolidati e non sempre trasparenti, a rendere più fluido il mercato fondiario ingessato dalle quote di produzione che hanno provocato una lievitazione scandalosa del prezzo dei terreni agricoli. I Piani di Sviluppo delle Regioni hanno finito per trasformarsi in mera carta di orientamento produttivo, assegnando finanziamenti in modo non sempre legato alla produttività. I Distretti rurali, annunciati come strumenti di riorganizzazione produttiva, non sono ancora concretamente decollati e il raccordo dei differenti segmenti della filiera non è mai stato realizzato, con conseguenze negative per agricoltori e consumatori.

La ricerca scientifica è stata concentrata in una struttura nazionale, ma non si vedono segnali di cambiamento. La discussione sugli OGM (Organismi geneticamente modificati) prosegue tra ideologismi, rinunciando a sperimentazioni controllate per coltura che potrebbero fornire un contributo per la difesa del territorio, sia mediante la riduzione dei fitofarmaci e delle concimazioni, sia combattendo la siccità ricorrente. Infine, la produzione biologica, divenuta vero business in Italia e in Europa, deve essere sorretta da un’assistenza tecnica che combatta approssimazioni e astuzie, anche attraverso una rete severa di controlli.

Le infrastrutture pubbliche, dagli acquedotti alla rete irrigua, debbono essere costantemente riorganizzate e rinnovate, con il concorso finanziario degli utenti. Impianti efficienti consentono di risparmiare acqua, bene sempre più prezioso, e di ridurre i consumi di elettricità e di gasolio.

La tutela dell’ambiente si pratica non solo costruendo discariche e termovalorizzatori. Anche l’agricoltura deve dare un contributo responsabile su questo fronte: non si può dimenticare che gli agricoltori sono il principale presidio ambientale. Anche se porcilaie, fitofarmaci e plastiche da serra bruciate provocano seri guasti al territorio.

Occorrono quindi risorse pubbliche adeguate che si possono e di debbono reperire, quando è in gioco il futuro del Paese. Oggi, il legame sempre più stretto tra ambiente, produzione agroalimentare, prezzi al consumo e l’interdipendenza al suo interno, obbliga a fare rapidamente scelte organiche e strutturali. Rinviare anche su questo fronte sarebbe letale per il futuro dell’Italia.

A proposito di risorse pubbliche, c’è qualcuno che si ricorda il numero delle abitazioni rurali esentate dal pagamento dell’ICI? Sono milioni. Moltissime sono ville lussuose con piscina, sui cui piazzali stazionano SUV e talvolta automobili Ferrari. Segno di benessere e di ricchezza, di cui bisogna compiacersi. Ma non si può chiedere a questi “agricoltori” facoltosi un segnale di solidarietà verso il Paese, dicendo basta a chi non ha bisogno di assistenza? Anche questo è rigore.

Roma, 14 gennaio 2008

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