In difesa del Parlamento. La High Court of Justice britannica entra in campo sul Brexit

Alessandro Torre analizza il referendum che ha visto prevalere il Brexit nella prospettiva delle sue complesse implicazioni sul sistema costituzionale inglese. Torre si sofferma in particolare sull’effetto dirompente che la recente decisione della High Court of England and Wales - R. (Miller) v. Secretary of State for Exiting the European Union – sta producendo sulla controversa questione del rinvio alla sovranità del Parlamento per quanto concerne la procedura di cui all’art. 50 del Trattato CE per la fuoriuscita del Regno Unito dall’UE.

Nella questione della sovranità (nazionale? popolare? parlamentare?) si individua il fondamentale nucleo argomentativo che caratterizza l’attuale dibattito costituzionalistico sulle implicazioni del referendum del 23 giugno 2016, con cui un esiguo ma determinante 51,9% degli elettori britannici si è pronunciato a favore del Brexit. Schierandosi a difesa della sovranità nazionale, l’UK Independence Party ha animato la campagna che, con il sostegno di una nutrita componente del partito conservatore, ha prodotto l’esito separatista del referendum.

Un risultato, questo, che ha rivelato quale sia la posta in gioco in questa fase dell’evoluzione costituzionale del Regno Unito, in cui stanno per giungere alle loro estreme espressioni alcuni prioritari nodi politici e istituzionali che rischiano di riproporre il nodo della decomposizione della struttura stessa dello Stato unitario. Ne è sintomo il revival di quella opzione indipendentistica scozzese che sembrava sopita per effetto del referendum celebrato nel settembre 2014, infatti nel referendum sul Brexit la Scozia ha espresso una netta maggioranza a favore dell’opzione remain, e su tale base ha minacciato di riaprire la questione del proprio separatismo. Analoghe prospettive si sono delineate anche in Irlanda del Nord. Ed è, quindi, ancora sotto l’egida della sovranità e del suo esercizio che si colloca l’attuale diatriba sull’applicazione dell’art. 50 del Trattato europeo.

In particolare, quale corpo politico è oggi legittimato a rendere concreto, innanzi all’Unione, il procedimento di cui tratta questo articolo? Il Governo, il Parlamento o forse il Popolo, nuovo soggetto para-istituzionale che ha acquistato forza e visibilità attraverso una lunga pratica referendaria che nel 2016 ha raggiunto il culmine della propria efficacia politica fino a condizionare in profondità le sorti del Paese? La questione è tutt’altro che pacifica poiché, a prima vista, vi entrano a confronto due istanze opposte: da un lato, sembra evidente che l’apertura del procedimento debba essere attivata dall’Esecutivo sotto l’egida di quella Royal Prerogative che un tempo governava l’azione della Corona nei rapporti con gli altri Principi e ne legittimava l’azione sulla scena internazionale. Questa opzione, con qualche remota eco monarchista, esclude che la decisione debba essere preventivamente soggetta a un voto parlamentare e ben si adatta alla definizione della forma di governo britannica “a Primo ministro” che in particolare, a proposito del Brexit, si declina attraverso l’azione del Secretary of State for Exiting the European Union appositamente istituito per gestire il distacco. Dall’altro lato, v’è chi sostiene, invocando il principio di sovranità parlamentare, che il potere di dare corso al procedimento ex art.50 debba essere senz’altro esercitato dal Legislativo: è in tal senso, ovvero in direzione schiettamente parlamentaristica, che si dirige la dogmatica che nella tarda età vittoriana era stata enunciata dal A.V. Dicey e che tuttora è difesa da una corrente di costituzionalisti (e, come si vedrà, anche di giudici di alto rango) continuatori del suo pensiero, i quali respingono la tesi del transito del Regno Unito in una stagione “post-parlamentare”.

In un contesto di costituzione non scritta, è evidente che entrambe le soluzioni appaiono sostenute da solidi argomenti, e su tale terreno sono entrate in un acceso dibattito, ricco di elementi di incertezza definitoria, le interpretazioni dei giuristi e dei politici: la valanga di papers che giunge quasi quotidianamente dalla riflessione della UK Constitutional Law Association dimostra quanto del tutto esposta a diverse visioni sia la questione della titolarità della funzione ex. Art.50. Ma fin qui il confronto si muove entro i limiti classici del costituzionalismo tradizionale di matrice inglese. In realtà un terzo soggetto opera sullo sfondo, e sul suo riconoscimento come rilevante ai fini della determinazione del processo che dovrebbe rendere efficace la separazione dall’Unione sembra che ruoti l’intera querelle. Tale è il corpo elettorale, agente politicamente attivo di quella società civile che fin dai tempi di Locke e della Gloriosa Rivoluzione è lì a sorvegliare il percorso delle istituzioni. Lo stesso Dicey, cultore della sovranità del Legislativo ne riconosceva, sebbene in via incidentale, la forza di autentico “sovrano politico” del Paese capace di dirimere i conflitti tra gli organi costituzionali: da qui il suo favore per il referendum pur in un sistema che era dominato dal primato di una democrazia rappresentativa che all’inizio del Novecento era ancora imperfetta. Sosteneva Dicey che un referendum arbitrale sarebbe stato un efficace strumento di composizione di conflitti tra organi costituzionali, ma l’esperienza del referendum sulla Brexit ha invertito i termini: anziché dirimerlo, il responso popolare ha suscitato il conflitto. Oggi, l’incombenza della volontà popolare influenza, anche con sguardo retrospettivo, l’interpretazione del senso costituzionale del referendum (e non solo di quello sulla Brexit, bensì di “ogni” referendum mai attuato nel Regno Unito): è esso advisory o mandatory, ovvero meramente consultivo o pienamente imperativo?

Sulla questione, in un contesto dominato da questo impegnativo dilemma e caratterizzato da un clima di relativa incertezza sul percorso da seguire e sui suoi tempi attuativi, si è soffermata la recente decisione R. (Miller) v. Secretary of State for Exiting the European Union [2016] EWHC 2768: con cui la High Court of England and Wales, pronunciandosi sul caso, ha enucleato ed analizzato comparativamente alcuni princìpi che si desumono dal “combinato disposto” della prassi costituzionale e della dottrina costituzionalistica (leggasi: Dicey). Questa Corte di giustizia, nella sua Division formata per l’occasione dai titolari delle cariche di Lord Chief Justice of England and Wales e di Master of the Rolls, e dal Lord Justice Philip Sales, è stata adita su ricorso di due combattivi imprenditori britannici (Gina Miller e Deir Tozetti Dos Santos) che, in occasione della campagna referendaria del 2016, si erano strenuamente impegnati a favore della permanenza nell’Unione. Ad esito di un complesso ragionamento che ha preso le mosse dalla lettura dell’European Communities Act 1972 (l’Atto che aprì la strada alla rinegoziazione dei termini di adesione alla CEE e le cui determinazioni trovarono conferma politica nel memorabile referendum del 1975), la High Court ha individuato alcuni princìpi che suonano come una chiara, inequivocabile conferma del costituzionalismo classico di stampo parlamentaristico: A) sostanzialmente illimitata è la potestà del Parlamento (e più precisamente della Queen in Parliament) di fare con propri Acts, le leggi; B) nessuna legge scaturita dall’esercizio della potestà parlamentare e ratificata con l’Assenso reale può essere mai dichiarata priva di efficacia, quand’anche sia contrastante con la volontà espressa, a qualsiasi titolo, dal corpo elettorale; C) l’Esecutivo, in qualità di gerente costituzionale della Royal Prerogative, esercita legittimamente funzioni nel campo della politica internazionale, ma la sua discrezionalità, per quanto ampia, resta soggetta ai limiti imposti dalla legge del Paese; D) l’esercizio dei poteri di prerogativa non possono entrare in alcun modo in contrasto con le leggi di produzione parlamentare; e, infine, E) la Royal Prerogative, senza il supporto di leggi del Parlamento, non può in alcun modo incidere sui diritti di singoli cittadini o di formazioni sociali, che siano loro conferiti dal diritto del Paese o dalla common law.

Dal concatenamento di questi princìpi posti in sequenza logica scaturisce, attraverso un’argomentazione sviluppata in oltre trenta pagine, questa conclusione semplice ma non per questo meno perentoria: «For the reasons we have set out, we hold that the Secretary of State does not have power under the Crown’s prerogative to give pursuant to Article 50 of the TEU for the United Kingdom to withdraw from the European Union»

Come prevedibile, questa sentenza (resa nota il 3 novembre 2016) ha suscitato reazioni contrastanti, su di un versante si è manfestato un relativo sollievo del fronte anti-Brexit a cui, come sottolineato dall’Economist, si è unito il coro degli operatori finanziari che dall’abbandono dell’Unione si attendono il peggio. Mentre nelle sedi governative è emerso molto sconcerto insieme alla furiosa reazione dei sostenitori del Brexit, che temono che il risultato del referendum sia posto nel nulla da un voto parlamentare di non ratifica e che il responso popolare sia defraudato di questa storica opportunità di essere partecipe della sovranità. Netto è il dissenso del Governo retto da Theresa May e formalmente impegnato ad attivare e condurre ad esito, ovviamente per via di prerogativa e non prima di un biennio, il fatidico procedimento ex art.50.

Ancora una volta il potere giurisdizionale, attraverso la voce di giudici soggetti unicamente al diritto, ma non per questo meno efficaci depositari di un potere politico che soccorre nei momenti di incertezza nazionale, non ha perso l’occasione di riaffermare che al cuore del sistema costituzionale del Regno Unito si trova pur sempre il Parlamento e che né la potestà dell’Esecutivo, né la volontà di un corpo elettorale che attraverso il referendum ambisca a proporsi come nuovo sovrano del Paese possono sostituirsi ad esso.

Il conflitto interistituzionale che si è delineato in relazione all’attivazione dell’art.50 e alla designazione del centro di potere che sarà legittimato all’emanazione del cd. “Great Repeal Bill” che formalizzerà la fine della parabola europeistica del Regno Unito si proietta, con il caso Miller, direttamente al centro dell’ordinamento costituzionale, poiché la sua risoluzione definirà in quale modo la sovranità, una volta affermata verso l’esterno attraverso il chiaro – ma non schiacciante – indirizzo emerso dal referendum, dovrà essere interpretata verso l’interno dell’intero sistema politico nazionale.

È presumibile che non si giungerà a chiarire il dilemma sulla vincolatività del referendum popolare, a meno di non respingere il classico assunto per cui questo strumento di democrazia diretta, del quale la prassi britannica si sta molto giovando dagli anni Novanta del secolo scorso, sia puramente di indirizzo: qualsiasi indirizzo contrario minerebbe la supremazia parlamentare, e ben difficilmente ci si può attendere dai giudici un orientamento del genere. A un punto fermo dovrà pervenire, in altri termini, la mera questione dell’investitura del centro di potere preposto ad attivare l’art.50, al quale altri se ne potrebbero aggiungere e non necessariamente in posizione di affiancamento: infatti sta prendendo corpo la pretesa del Parlamento scozzese a partecipare, in forza dell’accrescimento del suo potere contemplato dalla formula di devolution max realizzata in seguito al referendum indipendentistico del 2014, alla decisione stessa sull’esecuzione del Brexit e ad opporre eventualmente un proprio veto sul distacco dall’Unione. Ma, Scozia a parte, a seguito del ricorso presentato dall’Esecutivo che contesta la decisione della High Court, della questione è già stata investita la Corte Suprema del Regno Unito, alto e incontrovertibile tribunale d’appello (ma già una quasi-corte costituzionale per via dell’impegno che gli è richiesto) la cui pronuncia è attesa entro il dicembre 2016. Per l’occasione si riunirà, per la prima volta nella sua storia, en banc ovvero nella totalità degli undici magistrati che lo compongono, a conferma della rilevanza epocale della contesa, entro lo sciame di complicazioni costituzionali che l’affare Brexit sta producendo nel quadro evolutivo della costituzione britannica.

Schede e storico autori