«In a spirit of solidarity between Member States». Noterella a prima lettura sulla proposta della Commissione di una «cassa integrazione europea»

Stefano Giubboni offre una prima lettura «a caldo» della proposta europea di regolamento per l’introduzione di uno strumento – SURE, nel rassicurante acronimo inglese – che la stessa Presidente della Commissione europea, in un intervento pubblicato su Repubblica il 2 aprile 2020, ha voluto chiamare «cassa integrazione europea». La nota di commento è molto critica, soprattutto sul richiamo – reputato mistificatorio e abusivo – alla solidarietà tra Stati membri.

1. Il SURE – ovvero, nel rassicurante e certamente ben pensato acronimo, lo strumento per un «temporary support to mitigate unemployment risks in an emergency» – deve stare davvero a cuore alla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che per la seconda volta da quando è esplosa la pandemia da COVID-19 rivolge nella nostra lingua un messaggio di solidarietà all’Italia (Scusateci, ora la Ue è con voi, recita il titolo, indubbiamente d’effetto, del suo intervento su Repubblica del 2 aprile 2020).  «L’Europa vuole dare una mano – si legge nel passaggio chiave dell’intervento –, stanziando nuove risorse per finanziare la cassa integrazione. L’Unione stanzierà fino a cento miliardi di euro in favore dei Paesi colpiti più duramente, a partire dall’Italia, per compensare la riduzione degli stipendi di chi lavora con orario ridotto. Questo sarà possibile grazie a prestiti garantiti da tutti gli Stati membri – dimostrando così vera solidarietà europea».È un messaggio indubbiamente importante. I più ottimisti (non quindi chi scrive, che vuole in anticipo dichiarare il proprio inguaribile pessimismo, almeno della ragione) vi hanno subito intravisto un primo passo verso quello schema permanente di riassicurazione europea contro la disoccupazione, di cui si parla (per vero in modo alquanto inconcludente) ormai da anni (io stesso, in tempi non sospetti, e a riprova che quel che segue non intende esser animato da alcun atteggiamento di sterile e aprioristico disfattismo verso le proposte della Commissione, ne accennai, in fine, credo con sincero spirito riformistico, nel mio Diritti e solidarietà in Europa, Bologna, il Mulino, 2012, pp. 233-234). Anche chi si accosta alla proposta della Commissione con maggior cautela (con cauta diffidenza, stavo per scrivere) non può però non apprezzarne il valore, quantomeno simbolico, che è infatti qui fuori discussione.Quello di cui è bene invece discutere è, più banalmente, se, ed eventualmente in quale misura, il SURE, così come tecnicamente abbozzato nella proposta di regolamento, possa davvero definirsi uno strumento di «solidarietà europea». Ed è quel che si farà qui tra un momento, non prima, però, di aver anticipato la nostra – negativa – conclusione: ovvero che non solo non si tratta di una forma di solidarietà (fiscale) europea, cioè propria dell’Unione, ma che a rigore non si è alle viste neppure di una forma di solidarietà tra gli Stati membri (a dispetto di quel che si afferma nel primo considerando della bozza regolamento, da cui è tratto il titolo di questa noterella critica).

2. Il SURE intende essere uno strumento temporaneo, aggiuntivo alle misure emergenziali già attivate dalla Commissione nell’ambito del vigente quadro legale, volto a procurare agli Stati membri dell’Unione (con esclusione, ovviamente, del Regno Unito: art. 15) mezzi finanziari idonei ad alleviare l’impatto della pandemia sui mercati nazionali del lavoro (art. 2), in particolare contribuendo al finanziamento – come «seconda linea di difesa» – degli schemi funzionalmente corrispondenti (come ha scritto la Presidente della Commissione) alla nostra cassa integrazione guadagni (cioè, come si legge nella proposta, agli ammortizzatori sociali, esistenti negli ordinamenti nazionali, che siano «directly related to the creation or extension of short term work schemes and to similar measures for self-employed persons»). Basato sull’art. 122 del TFUE, al pari dell’EFSM (European Financial Stabilisation Mechanism), cui è espressamente ispirato, il SURE assumerà la forma di meccanismo temporaneo di assistenza finanziaria abilitato ad erogare prestiti, finalizzati (e vincolati) al predetto scopo (art. 3), agli Stati membri che ne chiedano l’intervento previa sottoscrizione di adeguate garanzie (art. 11).

Infatti il SURE («a lending scheme underpinned by a system of guarantees from the Member States») ha lo scopo di consentire alla Commissione di rivolgersi al mercato dei capitali (o alle istituzioni finanziarie) per conto dell’Unione (art. 4) – sino ad un tetto massimo di 100 miliardi di euro (art. 5) – per approvvigionarsi, alle migliori condizioni di mercato, delle risorse necessarie per assolvere alla sua funzione, che è appunto quella di prestarle a propria volta agli Stati membri, che facciano richiesta di assistenza per i fini indicati, nel rispetto di precisi vincoli e condizioni. In particolare, lo Stato membro – che ne faccia richiesta sul presupposto di un «sudden and severe increase in actual or planned expenditure directly related to short time working schemes and similar measures» – accederà al prestito alle condizioni e nei termini che saranno di volta in volta specificati nella decisione della Commissione (art. 6, par. 3): tra questi, ovviamente, oltre all’ammontare del prestito e alla sua durata, il tasso di interesse applicato («its pricing formula») ed il piano rateale di restituzione, alla stregua di un accordo che deve essere regolato in conformità dell’art. 220, par. 5, del regolamento UE 1046/2018.  La quota di prestiti accordati ai tre Stati membri che rappresentino cumulativamente la maggiore quota di prelievo non potrà superare il 60 per cento dell’ammontare massimo previsto dal già citato art. 5 della proposta di regolamento (art. 9, par. 1). E l’ammontare dovuto in un anno dall’Unione non potrà superare il 10 per cento di quella somma (art. 9, par. 2).

Gli Stati membri contribuiscono – su base volontaria – al SURE concedendo garanzie irrevocabili, incondizionate, attivabili a semplice richiesta («on demand»: art. 11, par. 2). La individuazione di dette garanzie, che ovviamente costituisce condizione di accesso al SURE, è rimessa all’accordo con lo Stato membro interessato. L’escussione delle garanzie fornite dagli Stati membri andrà se del caso effettuata pari passu, sino al soddisfo del credito erogato (art. 11, par. 3).

È infine previsto che il SURE diventi operativo non appena potrà contare, grazie alle garanzie fornite dagli Stati membri che intendano contribuirvi (in proporzione del loro peso relativo rispetto al PIL dell’Unione), su una massa pari almeno al 25 per cento dell’ammontare fissato dall’art. 5 (come detto in cento miliardi di euro). Questo significa che l’effettiva operatività del meccanismo di assistenza finanziaria potrebbe risultare pericolosamente disallineata rispetto all’urgenza delle misure di sostegno al reddito dei lavoratori, che sono infatti già all’opera nei sistemi nazionali.

3. Siamo dunque in grado – sulla base di questo pur schematico abbozzo del design dello strumento proposto dalla Commissione – di valutare se il SURE costituisca effettivamente una forma di solidarietà europea (o, almeno, tra gli Stati membri dell’Unione) ed in quali limiti ciò sia contemplato.

Per cominciare, possiamo escludere con certezza che si realizzi una forma di solidarietà autenticamente o propriamente europea. Visto che il SURE utilizza la stessa tecnica dell’EFSM – lo strumento che, come si ricorderà, servì nella fase inziale della crisi finanziaria del 2010 a fornire una prima assistenza a Portogallo, Irlanda e Grecia (e basterebbe questo …) –, fondandosi infatti sulla stessa base giuridica (l’art. 122 TFUE, che dispone in generale per i casi in cui uno Stato membro si trovi in seria difficoltà o sia minacciato «a causa di gravi calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo»), non siamo né di fronte ad un embrione di solidarietà fiscale europea (il tabù tedesco della transfer union è dunque intatto), né ad un utilizzo in chiave solidaristica di risorse proprie dell’Unione, attinte cioè dal bilancio comune (che infatti viene scrupolosamente preservato).

Non pare proprio, quindi, di essere in presenza – come invece si afferma con non poca disinvoltura nella presentazione della proposta – di «a tangible expression of Union solidarity», visto che l’unico tangibile segno dello spirito di solidarietà evocato dall’art. 122 del TFUE sta qui unicamente nel fatto di poter avere accesso al mercato dei capitali, grazie al più elevato credit rating del SURE, a condizioni prevedibilmente più vantaggiose di quelle che sarebbero possibili per Paesi come l’Italia o la Spagna. Non è certo poco: ma è appunto questo (i.e.: accesso temporaneo a prestiti a tassi ragionevolmente inferiori a quelli che si potrebbero scontare sul mercato, onde concorrere ad affrontare situazioni socioeconomiche eccezionalmente calamitose, peraltro comuni agli Stati membri). E (solo) questo, per onestà, si deve dire.

Ma non si è, a ben vedere, neppure di fronte ad una solidarietà tra Stati membri, perché il contributo di questi al SURE è previsto che avvenga su base volontaria. La costruzione del sistema di garanzie che dovrà sorreggere la capacità di assistenza finanziaria del SURE è infatti rimessa al contributo volontario degli Stati membri, che vi aderiranno appunto se lo vorranno.

La solidarietà è un’altra cosa, persino nella logica ristretta ed emergenziale nella quale è evocata dall’art. 122 del Trattato: è un legame che obbliga, un dovere di assistenza («Les secours public sont une dette sacrée», affermava già la Costituzione giacobina del 1793 all’art. XXI), una forma istituzionalizzata di redistribuzione di risorse in favore del membro della comunità che si trovi in difficoltà (si veda, volendo, il mio Solidarietà, in Politica del diritto, 2012, pp. 525 ss., e soprattutto Stefano Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Roma e Bari, Laterza, 2014, spec. pp. 48 ss.). Nulla di tutto questo trapela dal disegno del SURE, che confonde lo spirito di solidarietà con la benevolenza interessata degli Stati membri che decideranno di contribuire al sistema di garanzie finanziarie poste peraltro a carico – prima di tutto – degli Stati maggiormente bisognosi.

4. Possiamo allora tornare ad interrogarci sul senso del messaggio della Presidente Ursula von der Leyen, dopo averne precisato il significato depurandolo dai richiami impropri ed abusivi alla solidarietà europea, che per l’appunto non c’è (è questo, in fondo, il compito del dialettico: svelare, in nome dell’ideale logico ed etico della chiarezza, le fallacie argomentative, laddove «La distinzione dei significati è il principale rimedio contro la capziosità dell’argomentazione» – nelle parole indimenticate di Alessandro Giuliani, Giustizia e ordine economico, Milano, Giuffrè, 1997, p. 15). Il senso politico di quel messaggio – che plana con perfetto tempismo nel bel mezzo di una negoziazione tanto dura quanto cruciale tra i governi nazionali – sta tutto, o quasi, nel tentativo di avallare una lettura di una crisi, che è davvero in nuce definitiva per le sorti dell’integrazione europea, dentro le coordinate logiche e le categorie giuridiche, ed i conseguenti asimmetrici assetti d’interesse e di potere, esistenti – oggi – nell’Unione.

Se è così, non sarà allora difficile scorgervi un importante atout negoziale in favore della Germania e dei suoi irremovibili alleati: da un lato contro qualunque ipotesi di mutualizzazione del debito (anche solo in quella modalità limitata e contingente, ragionevolmente prospettata da Italia e Francia, della emissione di bond europei per l’emergenza in atto: i cd. «corona-bond»); dall’altro a sostegno del ricorso – magari con la concessione (per spirito di solidarietà, bien sur) di regole d’accesso adattate alle circostanze – agli strumenti esistenti, a partire ovviamente dal MES. I due architravi normativi della egemonia tedesca in Europa.

Ma se è così, riteniamo che il Governo italiano farebbe bene a tener ferma la sua posizione negoziale, sperabilmente con il sostegno importante dei partner (Francia e Spagna, anzitutto) che ne condividono – in questo drammatico tornante della vicenda dell’Unione – interessi e visione. Il SURE può certamente essere uno strumento utile (specie per l’Italia, vista la mole degli interventi di cassa integrazione disposti in via emergenziale con il decreto-legge n. 18/2020), ma solo se viene inserito in un riassetto complessivo dei meccanismi (di fondo) di funzionamento dell’Unione: nel nome di una autentica solidarietà europea.

Senza questo, nel migliore dei casi, il SURE servirà solo a guadagnare altro tempo, senza poter arrestare l’implosione, già avviata, della zona euro e della stessa Unione. E nel peggiore, ci sia almeno di monito il verso del Poeta: Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis (Eneide, Libro secondo, 49).

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