Imprese e “Nuova Europa” dopo Bruxelles

L’economia di mercato nei Paesi dell’Europa Centro-Orientale di prossima adesione è una realtà ma restano molti punti deboli. L’Italia, dopo la Germania, è il secondo partner economico dell’area. Le preoccupazioni legate alla frammentazione del nostro sistema produttivo.

Con un compromesso su agricoltura e fondi strutturali raggiunto in occasione del vertice di Bruxelles dello scorso 24-25 ottobre, l’Europa dei 15 è riuscita a rispettare lo storico appuntamento dell’allargamento a 10 nuovi Paesi dal 2004 (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Lituania, Lettonia, Estonia, Malta e Cipro). In altri termini, è stata data una risposta alle due domande cruciali intorno alle quali ruotava ormai il dibattito sull’allargamento dell’Unione Europea dal lontano 1989: quando? a che prezzo?

Per l’Italia, secondo partner economico dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale di prossima adesione, si tratta di un’importante  sfida.

La quota di mercato dell’Italia sulle importazioni di quest’area è stata nel 2001 dell’8,2%, unico dato positivo a fronte di un declino generale delle nostre esportazioni verso il resto del mondo (Rapporto Ice 2002). Inoltre, la quota italiana di investimenti diretti (Ide) verso l’Europa Centro-Orientale supera il 5% a fronte di un 2% a livello globale (Eiu – Bureau Van Djik).

Quest’ultimo dato relativo agli investimenti diretti è la conferma del generale processo di frammentazione internazionale della produzione verso Paesi a basso costo del lavoro che l’Italia come altre economie industrializzate ha adottato in risposta alla crescente pressione competitiva esercitata nei settori tradizionali dai Paesi emergenti. Per l’industria del tessile-abbigliamento italiana e tedesca, ad esempio, è stata una scelta praticamente inevitabile per poter mantenere le proprie posizioni sui mercati internazionali.

La conseguenza più nota di questa pratica è la crescente rilevanza della quota di commercio mondiale derivante dai circuiti internazionali della produzione (intra-firm trade). E per l’Italia l’area di riferimento principale è l’Europa Centro-Orientale, in particolare quei Paesi che faranno parte fra poco più di un anno del mercato unico europeo.

In vista di questo traguardo e per fronteggiare al meglio le tendenze di complessa interdipendenza, il sistema produttivo italiano dovrà fare uno sforzo straordinario. Alle piccole e medie imprese (Pmi) sarà richiesto di accrescere il grado complessivo di internazionalizzazione in termini di maggiore e più qualificata presenza su questi mercati. In sostanza, si tratta di passare dai processi di internazionalizzazione “leggera” attuati per mezzo di esportazioni dirette e indirette a processi di internazionalizzazione capaci di produrre un’integrazione internazionale delle risorse, competenze e capacità delle aziende.

Questo passo, tuttavia, richiede una graduale modificazione del modello di specializzazione internazionale italiano che mantiene forti peculiarità rispetto al resto d’Europa, restando focalizzato sui settori dei beni di consumo tradizionali e della meccanica strumentale in aggiunta alle specificità strutturali del sistema produttivo incentrato sul ruolo delle imprese di piccole e medie dimensioni.

La frammentazione della struttura produttiva, in particolare, viene sempre più indicata come elemento di debolezza. La letteratura economica contemporanea (Ferragina, Quintieri 2002) sottolinea come il consolidamento e lo sviluppo di quote di mercato all’estero dipenda in misura crescente dalla capacità di servire i mercati internazionali. Per avere successo, l’attività di esportazione deve essere continuativa e superare una certa soglia dimensionale perché è accompagnata alla fornitura di sevizi accessori, alla creazione di reti di relazioni e, soprattutto, alla presenza diretta sui mercati di sbocco. Le imprese piccole sono strutturalmente svantaggiate nell’intraprendere questa attività. Vincoli di natura finanziaria, di disponibilità di risorse umane e di informazioni limitano la possibilità di penetrazione dei mercati esteri.

L’allargamento dell’Unione Europea deve quindi rappresentare per le nostre imprese un incentivo all’improrogabile rilancio quantitativo e qualitativo del grado di internazionalizzazione del nostro sistema-paese, necessario anche alla luce della perdita di competitività registrata in questi anni dall’Italia sui mercati internazionali (si veda la tabella).

Quote di mercato dell’Italia sulle importazioni delle aree (val.%)

AREE

1992

1995

1998

2001

Nafta

2,1

2,0

2,0

1,9

Mercosur

4,3

5,8

5,2

3,7

Europa

7,0

6,4

6,3

5,7

Europa Centro-Orientale

9,2

6,8

7,8

8,2

Africa Settentrionale

12,5

10,0

11,1

10,6

Medio Oriente

6,4

6,0

5,9

5,3

Asia

2,4

2,2

2,0

1,8

Mondo

4,9

4,5

4,4

3,9

Fonte: Rapporto Ice 2002

Un primo segnale positivo in questa direzione viene dal recente rapporto ISTAT (Struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi)  secondo il quale le piccole imprese italiane crescono e diventano più europee e, nella misura in cui sono orientate all’esportazione, mostrano performance economiche nettamente migliori. Più in dettaglio l’analisi (che si riferisce al 2000) conferma la forte presenza di imprese piccole e piccolissime (in queste si concentra il 48% degli addetti), ma allo stesso tempo mostra la significativa evoluzione del peso delle aziende medio-grandi in termini di occupazione, fatturato e valore aggiunto. Nelle imprese esportatrici si concentra il 54,9% degli addetti e il 67% dell’industria manifatturiera. La loro dimensione media (30,7 addetti) è nettamente superiore a quella delle imprese che non esportano (4,6). Le retribuzioni, il costo del lavoro per dipendente come anche gli investimenti pro-capite  sono sistematicamente superiori alle imprese non esportatrici, a testimonianza dell’importanza della produttività rispetto al costo del lavoro come fattore di competitività all’export.

Sul piano del rafforzamento istituzionale e dei relativi strumenti di intervento, alla luce dei dati indicati, sarebbe opportuno saldare sempre più il legame tra politiche commerciali volte a sostenere le esportazioni e politiche di internazionalizzazione che mirano a promuovere sotto varie forme una stabile presenza delle nostre imprese sui mercati internazionali. Allo stesso tempo, proprio in considerazione del decentramento funzionale e territoriale della gestione delle politiche e degli strumenti a sostegno dell’internazionalizzazione in atto, appare sempre più importante il ruolo di un centro strategico di programmazione e monitoraggio delle politiche e degli strumenti di intervento capace di coordinare le competenze relative ai diversi livelli di governo e amministrazione.

In vista dell’allargamento l’Italia, oltre a sviluppare qualitativamente la sua presenza commerciale e imprenditoriale sui mercati dell’Europa Centro-Orientale (dove siamo già importanti investitori, ma solo settimi a livello UE), dovrebbe assumere un ruolo più attivo anche in ambito istituzionale (con progetti di assistenza tecnica e di formazione alle  amministrazioni locali) e presso gli organismi che decideranno la realizzazione dei grandi progetti dell’Europa allargata: dalle opere infrastrutturali ferroviarie e autostradali (ad esempio quelle che riguardano direttamente le nostre regioni del Nord Est destinate a svolgere un ruolo di cerniera tra Europa Orientale e Occidentale) fino ai “corridoi” energetici che dopo la fine del regime di S. Milosevič in Serbia acquistano maggiori prospettive di sviluppo.

Tuttavia, l’allargamento a otto Paesi dell’Europa Centro-Orientale porta con sé anche diversi interrogativi dal punto di vista delle imprese che decidono di delocalizzare parte del processo produttivo in questi mercati, primo fra tutti la corretta valutazione dei vantaggi tenendo presente che: a) i salari andranno via via aumentando con l’integrazione nella UE (solo un aumento della produttività potrebbe mantenere inalterato l’attuale differenziale); b) le aziende locali possono con il tempo sviluppare un autonomo grado di competitività sui mercati internazionali (attraverso i c.d. processi “learning-by-doing”); c) con la piena adesione alla UE decade anche lo strumento del tasso di cambio per riacquistare competitività.

A conferma di questi dubbi è possibile riscontrare un lento ma progressivo cambiamento delle strategie di delocalizzazione, in particolare delle nostre imprese, da Paesi con salari relativamente alti (Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca) verso altri con salari relativamente bassi, appartenenti al c.d. secondo gruppo per l’adesione all’Unione Europea (Romania e Bulgaria) o addirittura verso Paesi della CSI.  Si potrebbe quindi, in prospettiva, assistere ad una sequenza di migrazioni dei processi produttivi “labour-intensive” verso Paesi che mantengono i salari più bassi così come è accaduto nel Sud-Est Asiatico?

In Polonia, ad esempio, le autorità non sembrano assolutamente preoccupate: anche quando il costo del lavoro sarà pari a quello europeo resteranno altri vantaggi, primo fra tutti l’ampia flessibilità (non esiste contrattazione collettiva di categoria, non c’è Tfr e l’arma del licenziamento si può usare con una certa libertà) e poi il fisco (una sola imposta sulle società con aliquota del 28% che si paga con un mese di ritardo).

Di certo, le imprese occidentali non potranno più beneficiare in Polonia (come negli altri Paesi candidati) dei numerosi vantaggi concessi agli investitori nelle ZES (Zone Economiche Speciali) prese di mira dalla Commissione Europea in quanto configurano un caso di concorrenza sleale nei confronti degli altri Stati membri e che pure hanno dato lavoro a più di 12.000 persone. Le condizioni applicate nelle ZES alle aziende straniere sono state ora modificate in vista dell’adesione alla UE, ma i dati (3,2 miliardi di dollari di investimenti esteri. Fonte: UNCTAD, World Investment Report 2002) mostrano che l’interesse degli investitori stranieri non è per questo motivo diminuito perché con un reddito in costante ascesa quest’area non viene più esclusivamente considerata come terreno di delocalizzazione ma anche un mercato di sbocco.

In questi termini, pure a prescindere da fondamentali considerazioni di giustizia sociale in materia di lavoro (che la futura appartenenza alla UE dovrebbe rigorosamente e gradualmente sollevare) e alla luce delle rilevanti esigenze a livello infrastrutturale e in materia ambientale dei Peco di prossima adesione, è difficile immaginare una caduta di appeal per le nostre imprese abituate ad affrontare da tempo in questi contesti le inefficienze della giustizia, la corruzione a vari livelli della Pubblica Amministrazione, l’arretratezza del settore dei trasporti e, soprattutto, la burocrazia “pesante” (per registrare una società in Polonia o in Ungheria occorrono ancora mediamente non meno di 60 giorni lavorativi).

Quanto agli effetti della delocalizzazione produttiva nei Paesi dell’Europa Centro-Orientale sulle economie della UE alcuni autori (Baldone, Sdogati, Tajoli 2002) sottolineano che la perdita di posti di lavoro in settori tradizionali come il tessile-abbigliamento e, quindi, il costo sociale di questa pratica, vada comparato esclusivamente con il costo di  quello che sarebbe avvenuto senza adottare questa strategia ovvero la perdita di competitività del comparto con conseguente calo della produzione.

La delocalizzazione produttiva, invece, permette di tenere in vita le industrie tradizionali nei Paesi della UE dove tendono a concentrarsi le fasi a più alto valore aggiunto (es. progettazione e marketing) con potenziali effetti più che positivi sulla domanda di lavoro qualificato. Tuttavia, è bene sottolineare che per ottenere significativi risultati in questo senso, è necessario un sistema produttivo con caratteristiche  diverse da quello italiano corrente (v. sopra), capace di costituire e gestire complesse reti commerciali tra fornitori e clienti.

Emerge ancora l’importanza della dimensione dell’impresa per l’accesso ai mercati esteri, il che riflette, presumibilmente, l’esigenza di sostenere costi irrecuperabili e cospicui investimenti in conoscenza. Se poi si considera anche il forte ritardo dell’Italia meridionale nelle forme di internazionalizzazione produttiva (meno in quelle di tipo commerciale), la “crescita” delle nostre imprese in vista dell’allargamento dell’Unione Europea diventa un passo fondamentale e non ulteriormente prorogabile che può essere certamente facilitato da efficaci interventi di policy volti a sostenere un abbattimento dei costi irrecuperabili e delle barriere all’ingresso nei mercati esteri attraverso misure di assistenza alle esportazioni/investimenti, programmi di informazione e il potenziamento del credito.

 

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