Imprenditori poveri di “capitale umano”: un (altro) deficit italiano

Francesco Ferrante e Daniela Federici si soffermano su un aspetto solitamente trascurato nel dibattito sulla fragilità e la frammentazione del sistema imprenditoriale italiano: l’adeguatezza del “capitale umano” degli imprenditori. I dati che essi presentano suggeriscono che i ridotti investimenti in istruzione e formazione effettuati nel nostro paese si riverberano anche sulle capacità imprenditoriali e sulle performance delle imprese. Per porre rimedio a questa situazione Ferrante e Federici sostengono che occorre prevedere programmi di educazione imprenditoriale

Nel dibattito sulla fragilità del sistema imprenditoriale italiano e sulla sua ridotta capacità di aggiustamento due aspetti, tra loro connessi, sono spesso indicati come gravi debolezze. Il primo riguarda il modello di specializzazione, che è sbilanciato a danno dei settori ad alta tecnologia; il secondo la struttura industriale, che vede prevalere le piccole e micro imprese. L’ampia condivisione di questa diagnosi non si estende, però, all’identificazione dei nessi di causalità e delle cure da adottare. In generale, prevale la tendenza ad imputare il nanismo e l’insoddisfacente performance tecnologica a fattori esterni alle imprese (vincoli finanziari, inadeguatezza del quadro normativo ed eccesso di regolamentazione, deficit infrastrutturali, elevati prelievi fiscali e contributivi) piuttosto che a disfunzioni all’interno di quella scatola nera che è l’impresa.
Il dibattito pone un’ enfasi, che a noi pare eccessiva, sul ruolo negativo giocato da alcuni fattori di contesto e dà poco peso alla questione dell’adeguatezza della struttura imprenditoriale di fronte alle nuove sfide dell’economia della conoscenza e alla necessità di ridefinire la collocazione italiana nella divisione internazionale del lavoro. Viene, quindi, presupposto che il sistema imprenditoriale abbia al proprio interno la capacità di aggiustarsi, una volta “sciolti” i nodi strutturali e deregolamentati i mercati. Anche le previsioni favorevoli sugli effetti del Jobs Act, approvato da pochi giorni, sulla crescita delle imprese e sull’occupazione sembrano basate su un presupposto di questo tipo.
Il successo registrato in passato dalle piccole imprese italiane a gestione famigliare nelle produzioni di nicchia era legato ad un ambiente competitivo relativamente poco turbolento, meno sofisticato di quello attuale, nel quale le caratteristiche individuali dell’imprenditore in termini di esperienza, intuito personale, alerteness, capacità di adattamento interstiziale, prevalevano sul possesso di solide competenze tecniche e culturali in campo manageriale. All’interno dei distretti, tali doti individuali, insieme alla possibilità di accedere ad una ricca dotazione di capitale sociale, consentivano di compensare i divari di natura tecnologica, organizzativa ed infrastrutturale sistematicamente rilevati dalle ricerche sul campo. A questo successo, che legittimava i sostenitori di small is beautiful, faceva riscontro la sostanziale debolezza della grande impresa, spesso incapace di confrontarsi ad armi pari, nell’arena internazionale. Quelli che in precedenza, a ragione o a torto, erano ritenuti punti di forza del sistema imprenditoriale italiano, sono divenuti vincoli stringenti alla sua riqualificazione ed alla crescita.
Il posizionamento tecnologico scaturito da questa matrice imprenditoriale si caratterizza tuttora per strategie di inseguimento tecnologico alimentate da processi innovativi originatisi quasi sempre all’estero, per un ridotto grado di proiezione produttiva internazionale e per un’accentuata volatilità della presenza delle imprese sui mercati esteri.
I limiti di un modello imprenditoriale frammentato, specializzato nello sviluppo incrementale di innovazioni, soprattutto di processo, condizionato da meccanismi concorrenziali distorti, si sono palesati in tutta la loro drammaticità ed in tempi relativamente brevi. Non si tratta, evidentemente, di un deficit di natura quantitativa – i dati mostrano tuttora che l’offerta potenziale di imprenditorialità, misurata attraverso la quota di lavoro autonomo e il numero di imprese attive, è sensibilmente più elevata in Italia rispetto agli altri paesi OCSE – ma di tipo qualitativo. Esso riguarda le piccole e, soprattutto, micro imprese specializzate in attività di subfornitura, che assorbono una quota di occupazione sensibilmente più elevata di quella dei nostri concorrenti, e che costituiscono, in taluni settori di specializzazione per l’economia italiana, l’ossatura del sistema produttivo e tecnologico.
Alcuni contributi recenti (Baumol, NBER WP 10578, 2004; Scarpetta et al. OECD WP 329, 2002) hanno sottolineato l’importanza dei processi di sperimentazione e selezione concorrenziale connessi al turn-over imprenditoriale nel determinare la funzione propulsiva della piccola impresa nell’ambito dei sistemi tecnologici ed il suo ruolo come strumento di creazione di nuova occupazione Purtroppo questa funzione propulsiva sembra essersi notevolmente contratta negli ultimi anni.
Infatti, dalle rilevazioni GEM (Global Entrepreneurship Monitor) del 2012 emerge non soltanto che la nostra economia è in forte ritardo rispetto a quelle comparabili per livelli di sviluppo e per struttura industriale, ma anche che dal 2001 ad oggi, quindi ben prima della recenti crisi, essa ha visto affievolirsi la propensione a fare impresa.
Come mostra la Tab. 1 nel 2012, nostro paese il TEA (che è un indicatore dell’imprenditorialità allo stato iniziale)[1. Più precisamente il TEA considera l’incidenza delle startup (definite come le attività con meno di 3 mesi di vita alla data della rilevazione: è l’imprenditorialità cosiddetta nascente) e delle nuove imprese (definite come le attività con meno di 42 mesi di vita alla data della rilevazione: è l’imprenditorialità considerata non ancora stabile) sul totale della popolazione adulta (compresa tra i 18 e i 64 anni).] è stato pari al 4,32%, tale da collocarci al penultimo posto nelle graduatoria di 24 economie trainate dall’innovazione [2. Secondo la tassonomia adottata dal GEM sono tali le economie in cui l’innovazione tecnologica è il fattore su cui si basa la competitività internazionale.], lontani dai grandi paesi dell’Unione (Francia, Germania e Regno Unito sono, rispettivamente, al 5,17%, 5,34% e 8,98%). Siamo anche molto distanti dal vertice occupato, oramai da molti anni, dagli Stati Uniti ; in questo paese, nel 2012, quasi il 13% della popolazione adulta era impegnata nell’avvio e nella conduzione di una nuova impresa. Particolarmente preoccupante è, inoltre, la bassa incidenza dell’imprenditorialità nascente, pari in Italia al 2,47%. Anche in questo caso, il divario con la testa della graduatoria è ampio, di nuovo occupata dagli Stati Uniti (8,86%), e comunque sensibile è il distacco dalla Germania (3,51%), dalla Francia (3,74%) e dal Regno Unito (5,3%). La Tab. 1 mostra un ulteriore elemento di marcata differenziazione che non può non allarmare: le motivazioni che sottostanno alla scelta di avviare un’attività imprenditoriale.

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Il punto di discrimine è tra gli imprenditori che hanno deciso di avviare un’impresa per necessità, quindi motivati dall’assenza di alternative occupazionali e reddituali, e quelli che, pur disponendo di tali alternative, hanno deciso di cimentarvisi per opportunità, in quanto ritengono che questa opzione occupazionale assicuri migliori prospettive reddituali e/o maggiore autonomia e possibilità di autorealizzazione. L’Italia conquista su questo fronte un primato ampiamente negativo. Infatti, l’incidenza delle nuove realtà d’impresa trainate dalle opportunità,  sul livello complessivo dell’attività imprenditoriale allo stadio iniziale (il TEA) nel nostro paese è pari al 22,3%, un valore molto più basso  di quello del  Regno Unito (42,61%), della Germania (50,74%),  della Francia (58,94%), delle  economie nordiche (capeggiate dalla Danimarca, primatista assoluto con il 70,65%) e degli Stati Uniti (con il 59,45%).

Due temi risultano centrali rispetto alla necessità di riavviare il motore dell’imprenditorialità e di individuare correttamente obiettivi e strumenti di riqualificazione del tessuto imprenditoriale. In primo luogo, quello degli effetti sfavorevoli degli attuali assetti istituzionali sui meccanismi di generazione e di allocazione del capitale umano imprenditoriale. Il riferimento è sia alla dotazione di capitale umano dei soggetti che scelgono di svolgere attività imprenditoriali sia al ruolo effettivamente giocato da tale dotazione come fattore di selezione imprenditoriale nel mercato (Ferrante, Small Business Economics 2005; Ferrante e Federici, Quaderni DEF 141-2006, Luiss Guido Carli). In secondo luogo, quello degli strumenti di politica industriale più idonei a governare il processo di riqualificazione imprenditoriale e a contenerne gli inevitabili costi sociali. La questione della sostenibilità sociale del processo di riqualificazione del tessuto produttivo ha un rilievo centrale in quanto condiziona la fattibilità politica di alcuni degli interventi richiesti (riduzione delle misure di sostegno diretto e indiretto alle imprese marginali, lotta al sommerso). Occorre dunque immaginare soluzioni volte a offrire un’alternativa reddituale a coloro che saranno inevitabilmente espulsi nel corso del processo di selezione.

La carenza di risorse imprenditoriali qualificate si colloca all’interno del deficit di capitale umano dell’Italia rispetto ai maggiori concorrenti tecnologici e ne spiega, almeno in parte, l’origine. E’ noto che il nostro paese si colloca molto in basso nelle classifiche OCSE (Fig. 1) sul livello medio di istruzione della popolazione e sulla quota  di occupati con istruzione di livello terziario (ISCED 5 e 6).

La struttura dell’occupazione per titolo di studio conferma il ritardo nella scolarizzazione della popolazione italiana; il quadro è preoccupante perché il deficit di laureati si accompagna non alla presenza, tra gli occupati italiani, di una quota più elevata di diplomati ma di lavoratori in possesso della licenza media o di titolo di studio inferiore (33,9% per l’Italia contro il 13,1% della Germania e una media EU27 del 20,2%).

Il ritardo nei livelli di scolarizzazione degli occupati riguarda sia il settore privato che quello pubblico, con una maggiore incidenza sul primo, e si riflette significativamente, sui livelli di istruzione della classe manageriale. I dati Eurostat segnalano, ad esempio, che nel 2012 ben il 27,7% degli occupati italiani classificati come manager aveva completato tutt’al più la scuola dell’obbligo, contro il 13,3% della media europea a 15 paesi, il 19,3% della Spagna, paese in ritardo nei livelli di scolarizzazione degli adulti e con tratti socio-culturali simili al nostro e il 5,2% della Germania, paese col quale si è soliti fare i confronti perché caratterizzato da un peso del settore manifatturiero simile al nostro). Nello stesso anno, la quota di manager italiani laureati era meno della metà della media europea.

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Come mostrano alcuni studi empirici (Parker, The Economics of Entrepreneuship, CUP 2009) l’istruzione degli imprenditori influenza sistematicamente la performance delle imprese, mentre il possesso di attitudini individuali innate e di un adeguato background famigliare, costituisce solo una pre-condizione favorevole .

Il rapporto virtuoso tra istruzione degli imprenditori, capacità di valorizzazione del capitale umano e performance imprenditoriale è confermato per l’Italia da una robusta evidenza empirica. Schivardi e Torrini (QEF WP 108, Banca d’Italia 2011) mostrano che un imprenditore laureato assume il triplo di laureati rispetto ad uno non laureato e che la disponibilità di laureati aumenta la propensione delle imprese a realizzare attività di riqualificazione produttiva. Bugamelli e al. (QEF WP 121, Banca d’Italia 2012) rilevano come l’attività innovativa e l’internazionalizzazione si associ positivamente alla presenza di laureati nelle imprese e Ricci (Osservatorio Isfol 3/2012) offre ulteriori conferme

La capacità di valorizzare il capitale umano nelle imprese passa anche attraverso l’adozione di adeguate pratiche manageriali nel reclutamento e nella gestione delle risorse umane, adozione spesso ostacolata dalla gestione familiare, non manageriale, delle imprese che riguarda ben il 66% di queste ultime (contro il 28% della Germania; Bugamelli e al. (QEF WP 121, Banca d’Italia 2012).

La nuova imprenditorialità riconducibile ai laureati, secondo le indagini AlmaLaurea, rappresenta tuttora un fenomeno poco consistente che non lascia sperare in un rapido processo di upgrading del sistema imprenditoriale sostenuto dalla dotazione di capitale umano degli imprenditori: infatti, solo l’1% dei laureati magistrali dichiara, a cinque anni dalla laurea, di essere imprenditore (Ghiselli e Sobrero, XVI Rapporto AlmaLaurea 2014).  Gran parte dei laureati che si rivolgono alle attività autonome, malgrado la loro ridotta capacità di assorbimento, guardano tuttora alle libere professioni.

In conclusione, il dibattito sulla fragilità e la frammentazione del sistema imprenditoriale italiano di fronte alle sfide dell’innovazione e dell’internazionalizzazione produttiva si intreccia in maniera inscindibile con quello relativo al supposto cattivo funzionamento dei meccanismi di generazione ed allocazione del capitale umano. Nei fatti, tale connessione è raramente investigata nei suoi aspetti più profondi e nelle sue implicazioni. Ciò appare miope in quanto i ridotti investimenti in istruzione e formazione fatti registrare dall’Italia a confronto con i maggiori concorrenti si proiettano anche sulle capacità imprenditoriali.

Il rafforzamento della struttura imprenditoriale passa dunque attraverso l’educazione imprenditoriale, anche di tipo curriculare, volta a trasferire competenze e a coltivare stili comportamentali proattivi nelle nuove generazioni. Il vantaggio, come dimostrano alcuni studi, è duplice: i corsi di educazione imprenditoriale promuovono la creazione d’impresa  e, inoltre,  migliorano l’occupabilità di coloro che optano per il lavoro dipendente.

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