ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 172/2022

19 Maggio 2022

Imposta su titoli obbligazionari, inflazione e sistema duale

Ruggero Paladini richiama l’attenzione su un possibile problematico effetto dell’inflazione sulla ipotesi, prevista dalla legge delega di riforma fiscale, di una tassazione proporzionale dei redditi da capitale. Infatti, l’inflazione determina su depositi e obbligazioni un peso maggiore rispetto agli altri redditi da capitale creando un problema per l’imposta proporzionale. Tale problema potrebbe, invece, essere meglio affrontato con un’imposta progressiva, come dimostra il caso olandese.

1. L’inflazione, che sembrava pressoché scomparsa, è riapparsa all’improvviso con la ripresa mondiale del 2021 e ora, con il conflitto ucraino, sembra destinata a rimanere ben più a lungo tra di noi di quanto non sperassero policy maker e banche centrali. Oltre all’evidente e percepito effetto sul potere d’acquisto, l’inflazione ha una conseguenza più sottile sull’imposizione dei titoli obbligazionari. Infatti, anche se i rendimenti dei titoli aumentano (come in effetti sta avvenendo) determinando una differenza positiva rispetto al tasso d’inflazione, il peso fiscale dell’imposta (proporzionale) cresce tanto più quanto più alta è l’inflazione.

Supponiamo una situazione di completa assenza di inflazione; si consideri un titolo obbligazionario pluriennale con rendimento 1% (acquisto alla pari di 1000 e cedola di 10), tassato con aliquota fissa (ad esempio, con l’aliquota vigente in Italia del 26%). L’imposta sarà di 2,6 ed il rendimento netto di 7,4.

Con un’inflazione all’1% per tutto il periodo, supponiamo che il rendimento salga al 2%, in quanto metà della cedola serve a ricostituire il valore del capitale di 1000 alla fine. Tuttavia, se si applica a tutta la cedola di 20, l’imposta sale a 5,2 ed il netto, costituito dalla metà della cedola meno l’imposta, scende a 4,8.

Con un’inflazione al 2% e un rendimento al 3% l’imposta sale a 7,8 (0,26×30) ed il netto, ora costituito da un terzo della cedola, scende a 2,2. Con un’inflazione al 3% il rendimento netto svanisce e l’imposta incide sul valore capitale. Se si aggiunge un’imposta sul valore dei titoli (come la nostra imposta di bollo allo 0,2%) il processo è ovviamente ancora più rapido.

Tutto questo nell’ipotesi (sulla quale si potrebbe discutere a lungo) di un tasso d’interesse “reale” costante. Nel caso, come quello attuale, di un’inflazione inattesa, all’incidenza dell’inflazione sul capitale si aggiunge quella dell’imposta. Diverso il discorso che riguarda i dividendi da azioni o il reddito da immobili; qui gli effetti sono più complessi, in quanto i valori ed i redditi azionari, così come i prezzi degli immobili e degli affitti, hanno una loro dinamica, quindi crescono con l’inflazione, anche se non è detto che la crescita sia di pari entità, se non in un arco pluriennale di tempo.

In teoria la correzione dovrebbe consistere nel limitare l’imposta alla componente reale, nell’esempio ai 10 della cedola. Tuttavia, da sempre si è opposto il principio nominalistico della moneta e l’idea che un’inflazione moderata favorisca il debitore ai danni del rentier e quindi lo sviluppo. L’ipotesi di una riduzione dell’aliquota per i titoli obbligazionari presenta ovvie controindicazioni. Vedremo fra breve l’interessante esperienza olandese.

Da notare che il fenomeno descritto si verifica con un’imposta strettamente proporzionale. Anche nel caso dei redditi da lavoro o pensione vi è un effetto dell’inflazione, ma perché in questo caso l’imposta è progressiva; si determina infatti il fenomeno del bracket creeping, da noi noto da decenni come fiscal drag (che invece in inglese indica un altro fenomeno). Cioè la lievitazione dei redditi nominali determina un maggior peso dell’aliquota dello scaglione o il passaggio ad un successivo scaglione con aliquota più alta. In linea di principio la correzione sarebbe semplice: il reddito imponibile viene deflazionato, si calcola l’imposta, la quale viene poi riflazionata (la cosa è in pratica più complicata per via di deduzioni in cifra fissa, che devono essere ritoccate). Ciò non è peraltro stato fatto durante gli anni settanta ed ottanta, probabilmente più per un problema di perdita di gettito che di principio nominalistico.

2. In un sistema compiutamente duale, come si è illustrato sullo scorso numero del Menabòquale quello previsto dalla legge delega fiscale, tutti i redditi da capitale dovrebbe essere assoggettati alla medesima aliquota l’imposta. Ma in presenza di inflazione (anche moderata) i redditi dei titoli obbligazionari subiscono, come si è visto, un peso effettivo maggiore; non vi è quindi parità di trattamento rispetto ad altri redditi da capitale. Ora un aspetto che viene visto come un vantaggio, nell’applicare un’imposta proporzionale, è che ciò si può fare con imposte cedolari sui singoli redditi (con la stessa aliquota). Ma se il sistema è cedolare, e l’aliquota sui redditi obbligazionari è la stessa, in realtà questi redditi subiscono un peso maggiore. Si potrebbe allora ipotizzare un’aliquota più bassa per i redditi obbligazionari, giustificandola con l’argomento della maggiore incidenza sostanziale. Ma sarebbe una scelta insidiosa, perché allontanarsi dal principio di un’aliquota unica può aprire la strada a deroghe di tutti i tipi. Più interessante la strada scelta in Olanda.

In questo paese il sistema di tassazione diretta è articolato in tre distinti tipologie, dette Box.

Nel Box 1 entrano i redditi da lavoro, da pensione ed il reddito imputato della casa d’abitazione (anche se quest’ultimo è calcolato con un tasso molto basso – lo 0,5% – sul valore dell’immobile). Gli scaglioni sono attualmente due: il primo al 37,07% fino a poco più di 69.000 ed il secondo al 59,5% per redditi superiori. Sono riconosciuti una serie di costi deducibili, e vi è una detrazione fissa di 2.888 euro.

Nel Box 2 entrano i redditi, compresi i capital gains, percepiti da coloro che hanno almeno il 5% della proprietà della società. In questo caso vi è un’aliquota fissa, ora al 26,9%.

Nel Box 3, fino al 2016, si applicava un rendimento del 4%, con possibili variazioni, sull’insieme della ricchezza finanziaria + immobili (con l’eccezione della prima casa tassata nel Box 1). Dal 2017 fino all’anno scorso il sistema era basato sempre su redditi imputati con aliquota d’imposta al 31%, ed era articolato in una fascia esente fino a 50.649 e successivamente in tre scaglioni:

I° scaglione da 50.650 fino a 101.249; si ipotizza un rendimento composto da 0,03% per il 67% del patrimonio e dal 5,69% per il 33%.

II° scaglione fino a 962.349; si ipotizza un rendimento composto da 0,03% per il 21% e da 5,69% per il 79%.

III° scaglione oltre i 69.350 rendimento 5,69% al 100%.

In sostanza l’ipotesi era che con patrimonio limitato predominassero rendimenti bassi, mentre al crescere del patrimonio i rendimenti più elevati acquisissero peso via via crescente. La Corte costituzionale ha dichiarato invalido questo sistema, probabilmente perché troppo arbitrario, che è stato sostituito dal seguente: l’aliquota d’imposta rimane al 31% e rimangono anche la fascia esente ed i tre scaglioni, ma invece di esserci un mix di rendimenti nei primi due scaglioni vi sono tre rendimenti imputati: 1,82% nel primo scaglione, 4,37% nel secondo e 5,53% nel terzo.

In sostanza l’andamento dell’aliquota media sul valore patrimoniale nella versione modificata ha un profilo molto simile, e solo leggermente più basso, di quello precedente bocciato dalla Corte; ad esempio l’incidenza sul valore patrimoniale è passato da 0,29% a 0,28% a 100.000 euro e da 1,3% a 1,26% ad un milione. Il sistema rimane caratterizzato da una crescita lenta dell’aliquota che, all’infinito, tende verso il 1,71%.

Per completare il quadro impositivo va poi aggiunta la property tax immobiliare gestita dai municipi, articolata tra proprietario dell’immobile e usufruttuario, con aliquote 0,1-0,2%.

Il sistema introdotto nel 2017 teneva conto della forte discesa dell’intera struttura dei tassi d’interesse, con alcuni rendimenti (su titoli pubblici) divenuti nominalmente negativi, in paesi come la Germania e, appunto, l’Olanda. Come è noto in tutti i paesi la composizione delle attività finanziarie muta al crescere delle classi di reddito; ai livelli più bassi abbiamo depositi in conto corrente e banconote (per ammontare relativamente modesti), poi compaiono titoli obbligazionari, progressivamente fondi d’investimento e fondi pensione, quindi polizze assicurative, azioni, hedge fund ecc… Secondo i dati di Bankitalia (2020) la ricchezza finanziaria delle famiglie è costituita per un 32% da depositi e banconote, mentre le obbligazioni detenute dalle famiglie direttamente, ma soprattutto indirettamente tramite fondi d’investimento e fondi pensione, costituiscono circa un quarto del totale.

Questi asset finanziari sono caratterizzati da coppie di rendimento-rischio tendenzialmente crescenti rispetto all’ammontare complessivo. L’idea di base del Box 3 è quindi che al crescere della ricchezza finanziaria il rendimento medio cresca; in un primo momento questo effetto era ottenuto con la combinazione di percentuali diverse di un rendimento molto basso e di uno decisamente alto.

Ovviamente in questo modo si ottiene anche un effetto di progressività del sistema di tassazione. Da notare che i redditi di coloro che possiedono quote rilevanti delle società, erano esclusi dalla progressività e tassati con un’aliquota proporzionale (Box 2), senza il sistema di imputazione di un rendimento usato per le altre attività finanziarie; qui si nota la preoccupazione di evitare lo spostamento di residenza dei proprietari di piccole società (si veda il precedente articolo). Una volta dichiarato incostituzionale il sistema varato nel 2017 esso è stato sostituito da uno a scaglioni (una prima fascia esente, e tre scaglioni con rendimenti imputati crescenti), che come si è visto, ottengono un andamento del peso dell’imposta sul capitale complessivamente molto simile; e che effettivamente è più diretto.

Il ritorno dell’inflazione, che non sarà transitoria come in un primo momento sembrava, sta portando ad una correzione delle politiche monetarie e ad un graduale di aumento dei tassi. Una struttura come quella del Box 3 è già predisposta per attenuare il peso dell’imposta sui rendimenti nominali delle obbligazioni, e può essere rivista ulteriormente aumentando la fascia esente e/o abbassando il rendimento imputato del primo scaglione.

Questo ovviamente avviene in un sistema dove le attività finanziarie (a parte quelle del Box 2) sono sommate in capo al singolo contribuente. Pertanto se si vuole tener conto del maggior peso dell’imposta dovuta all’inflazione, un’imposta all’olandese, che è di fatto, se non formalmente, un’imposta personale sui valori patrimoniali, permetterebbe – con la deduzione di base e aliquote crescenti al crescere del patrimonio – di alleggerire il peso sulle quote di depositi a basso o nullo rendimento nei livelli patrimoniali più ridotti.

Si rimarrebbe nell’ambito di un sistema duale come indicato dalla legge delega; ma invece di un’imposta progressiva sul lavoro ed una proporzionale sul patrimonio, si avrebbero – tra loro affiancate – due imposte personali e progressive, con evidenti effetti sulla distribuzione dei redditi.

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