Immaginare oltre la normalità, tra cultura, educazione e digitale

Gabriella Traviglia, dopo aver richiamato il quadro normativo sulle relazioni tra scuola e istituzioni culturali, sostiene che l’emergenza COVID spinge a immaginare pratiche dell’agire volte a creare un’alleanza concreta tra digitale, cultura ed educazione e che appropriarsi degli spazi fisici, facendo ad esempio scuola al museo, nonché degli spazi virtuali, sviluppando progetti digitali basati sulla cooperazione con istituzioni culturali, renderebbe i giovani consapevoli di quanto sia importante riappropriarsi della titolarità partecipata dell’eredità culturale.

La nostra normalità è stata messa in discussione dall’attuale emergenza sanitaria legata al Corona Virus: questa minaccia allo status quo è stata particolarmente visibile nel mondo della scuola e in quello della cultura, che hanno dovuto reinventarsi nell’emergenza. Tuttavia non si può non considerare queste circostanze anche per l’opportunità che offrono: sperimentare e realizzare l’alleanza tra digitale, cultura ed educazione da molti auspicata come asset collaborativo tra due comparti, quello dell’istruzione e quello della cultura, per qualificare ulteriormente la “domanda” di quest’ultima partendo proprio dal mondo dell’istruzione, dando finalmente concretezza ad alleanze fertili per le istituzioni, innovative per l’educazione e con una risonanza civica per il mondo culturale. In poche parole, mettere a frutto intenti e collaborazioni intercompartimentali per immaginare una nuova proposta culturale e formativa.

Rapporto scuola/istituzioni culturali. Dalla fine degli anni ’90 vengono emanati vari provvedimenti legislativi che rappresentano un patrimonio importante da cui partire e creare le condizioni per una collaborazione volta ad uno sviluppo sinergico, interdisciplinare e intercompartimentale:

  • Nel 1998 l’adozione da parte del Consiglio d’Europa della Raccomandazione N.R. (98)5 relativa alla pedagogia del patrimonio culturale (17 marzo 1998) segna il riconoscimento dell’educazione al patrimonio quale elemento cruciale per le politiche educative europee. Questa viene definita infatti “una modalità di insegnamento basata sul patrimonio culturale, che includa metodi di insegnamento attivi, una proposta curriculare trasversale, un partenariato tra i settori educativo e culturale e la più ampia varietà di modi di modi e di comunicazione e di espressione” (art.1.2).
  • Accordo quadro siglato in Italia tra il Ministero Beni Culturali Ambientali e il ministero della Pubblica Istruzione (20 marzo 1998): riconoscendo il “diritto di ogni cittadino ad essere educato alla conoscenza e all’uso responsabile del patrimonio culturale”, con il quale i due dicasteri si impegnano per la prima volta ad attivare un vero e proprio sistema nazionale di educazione al patrimonio culturale;
  • Commissione di studio per la didattica del museo e del territorio (1996-1997): il documento propedeutico all’Accordo-quadro redatto per delineare, nel contesto italiano, una modalità operativa sulla relazione museo patrimonio-educazione e per proporre gli indirizzi metodologici. La commissione portò all’istituzione del Sed-Centro per i Servizi Educativi del Museo e del Territorio (D.M.15 ottobre 1998).
  • Nel perimetro della riflessione europea, nel 2006 viene redatto da Tim Coopeland per conto del Consiglio d’Europa il report European Democratic Citizenship, Heritage Education and Identity, che fornisce una prima definizione del concetto di educazione al patrimonio come global educati
  • Nel 2015 viene emanato il Piano nazionale per l’Educazione al patrimonio culturale predisposto dal MiBACT, che fonda e qualifica le sue indicazioni proprio nel rapporto di collaborazione tra musei, istituti e luoghi della cultura e delle arti e la scuola, in accordo con quanto previsto dalla L.107/2015 (la “buona scuola”), che ha tra i suoi obiettivi primari quello di “promuovere azioni sperimentali in differenti contesti con l’intento di misurarne l’efficacia al fine di verificarne la replicabilità”.

Nonostante queste premesse e la dichiarazione di intenti trentennale, molteplici fattori, tra cui la pressione delle scadenze curriculari, la carenza di fondi appositamente destinati, la scarsità di risorse umane specializzate e dedicate nei musei (soprattutto statali), limitano la possibilità di sviluppare progetti di ampio respiro in grado di sfruttare appieno le potenzialità di questo tipo di convenzioni, mentre la mancata attitudine alla co-creazione progettuale fa sì che il museo sia utilizzato come luogo d’approfondimento per gli argomenti affrontati in classe ma non come co-autore dell’offerta formativa. Tuttavia, l’emergenza sanitaria COVID-19 offre un’opportunità per mettere in pratica in principi di queste convenzioni.

Una scuola diffusa…nelle istituzioni culturali. Sulla base del quadro normativo precedentemente illustrato possiamo dunque immaginare un’alleanza forte tra scuola e cultura, che si sviluppi proprio a partire dall’emergenza sanitaria verificatasi a livello nazionale; parzialmente, queste circostanze hanno già condotto ad un incremento della sinergia e sperimentazione tra settore culturale e settore dell’istruzione, costituite soprattutto dai ‘contenuti’ a disposizione sia dei docenti sia degli studenti per configurare un modo diverso di educare e fare didattica: ad esempio, il portale dell’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa) ha segnalato diverse opportunità durante il periodo di lockdown.

Questa sinergia potrebbe svilupparsi in proposte curriculari trasversali inserite nell’offerta formativa dei vari istituti scolastici che prevedano di recarsi in almeno tre tra musei, siti archeologici, istituzioni culturali, teatri, svolgendo attività didattica in accordo con il programma scolastico: ad esempio trattando il Risorgimento -in tutte le sue declinazioni disciplinari- nei musei del Risorgimento oppure l’evoluzionismo nei musei di storia naturale. Soprattutto adesso, mentre si parla di “scuola a turni”, online e offline, o di aule dotate di plexiglass, potremmo invece pensare all’ideazione di una scuola diffusa tra gli istituti culturali cittadini, tenendo in considerazione che la scuola soffre la mancanza di spazio mentre i musei e gli istituti culturali, che hanno a disposizione spazi ampi anche all’aperto (in caso di siti archeologici o orti botanici) soffrono la mancanza di pubblico, in particolare quello giovanile. Rispetto a quest’ultimo è doverosa una considerazione: i dati ISTAT che monitorano la “non partecipazione culturale” mostrano delle lacune sulla specificità dei segmenti giovanili che frequentano musei e mostre. Quello che sappiamo è che musei e mostre sono disertati dal 66,8 per cento degli italiani di 6 anni e più, tra i meno coinvolti ci sono i giovanissimi (6-10 anni) e gli over 75enni, e che la disaffezione per questa attività del tempo libero si diffonde a partire dai 20 anni. Openpolis ha fatto una serie di considerazioni interessanti sul tema.

Alla luce di questi dati, immaginare una scuola diffusa non si esaurirebbe nel viaggio di istruzione come per ora istituito, ma di mirati momenti di educazione al patrimonio, alla storia, alla geografia, alla matematica, all’educazione civica in situ. Il museo si trasformerebbe in luogo di apprendimento, quale è per la definizione ICOM, in un’agorà di scambio culturale, in un laboratorio didattico in cui è possibile fare esperienza ravvicinata con l’oggetto di studio, il quale può essere esaminato da più insegnati di discipline differenti in coordinamento con il personale museale.

Formalizzare un’alleanza concreta e interdisciplinare concorrerebbe a riformare il sistema cultura e il sistema scolastico, fornendo le chiavi per la conoscenza del nostro patrimonio a chi è chiamato a prendersene cura in futuro.

Sarebbe fonte di un turismo culturale sostenibile, forte e duraturo nel tempo. Sarebbe un momento di scambio intenso e permetterebbe di coinvolgere anche le famiglie in alcune attività costruite ad hoc, ma soprattutto metterebbe a terra un piano che altrimenti rimarrebbe meramente di intenti.

Tecnologia per la cultura. Cultura della tecnologia. Se fossimo in grado di offrire questa esperienza nell’educazione pubblica, potremmo ampliare – realmente – anche le opportunità nella didattica digitale e online, nonché dare sostanza a quelle che vengono denominate STEAHM (Science Technology Engineering Arts, Humanities e Math) in accordo con un altro importante documento programmatico, ovvero il Piano Nazionale per la Scuola Digitale, documento di indirizzo del MIUR finalizzato al consolidamento di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana.

Sulla base di esperienze concrete e di scambio, sarebbe possibile mettere in campo una reale innovazione nell’Education Technology a partire dall’immenso patrimonio di musei, archivi, biblioteche e teatri che gli studenti avrebbero, a questo punto, toccato con mano.

La cultura digitale è assolutamente fertile nell’attivare processi creativi e pratiche co-creative.

Le attività didattiche che si potrebbero fare a distanza si diversificherebbero e permetterebbero anche di sfidare la creatività e autonomia degli studenti: per esempio, annotare una fonte in un documento xml di un archivio, costruire un modello 3D di oggetto culturale, fare un webGIS, creare contenuti in realtà aumentata ‒ confrontare, analizzare e pubblicare dati, scrivere una pagina di Wikipedia, codificare un testo, ma anche indagare, nel contesto familiare, su usanze e tradizioni del patrimonio culturale del proprio territorio in fonti riconosciute. Condizioni come queste permetterebbero al docente di latino di lavorare a stretto contatto con il docente di informatica o il docente di storia dell’arte con quello di matematica.

In Italia ci sono già all’attivo diversi progetti culturali che possono essere presi da esempio, come la recente esperienza condotta da M-Children all’M9 di Mestre, che assieme a Maker Camp ha ideato M9 Contest Urban Landscape, invitando le classi della scuola primaria e secondaria a mettersi in gioco e progettare uno spazio “urbano” attorno al distretto M9, dettagliatamente ricostruito con Minecraft, un videogioco che assomiglia ad un lego digitale in cui è possibile “scavare (Mine) e costruire (Craft)” mondi con blocchi 3D fatti di diversi materiali.

La digitalizzazione del patrimonio culturale è un processo avviato da tempo, abbiamo a disposizione thin e big data, ma al contempo è necessaria una nuova generazione che sia a proprio agio nell’usare non solo gli strumenti ma – soprattutto – a dargli uno scopo, trasformandosi da consumatori passivi della tecnologia ad agenti creativi in grado interrogare e plasmare il patrimonio digitale. La Rete di Centri di Ricerca e Istituzioni Culturali DigiCultHer che si occupa di elaborare un’offerta formativa coordinata con il sistema nazionale per costruire il complesso delle competenze digitali indispensabile al confronto sempre più articolato ed eterogeneo con la smart society, insiste spesso su un obiettivo importante e coerente con quanto scritto finora: restituire ai giovani la consapevolezza di quanto sia importante riappropriarsi della titolarità partecipata dell’eredità culturale, ripartendo proprio dal riconoscimento del valore della cultura digitale. Da questo punto di vista appropriarsi degli spazi fisici, facendo scuola al museo, ma anche degli spazi virtuali, rielaborando e sviluppando progetti digitali che permettono uno studio approfondito della materia con creatività e competenze tecniche specifiche, si configura come la strada per rendere le future generazioni responsabili e interessate alla Patrimonio Culturale nel suo complesso.

In conclusione. Ci sono due modi in cui è possibile agire di fronte alle conseguenze di questa pandemia: lavorare nell’urgenza o rendere urgente l’importante. Credo che si debba alle nuove generazioni una visione a lungo termine e non solo una soluzione temporanea, considerando anche che gli obiettivi dichiarati vanno in questa direzione. È giunto il tempo di immaginare le pratiche dell’agire collaborativo e interdisciplinare tra scuola, cultura e digitale. Questo sforzo è impegnativo, prevede negoziazioni e di studiare un approccio interdisciplinare sul campo: è difficile. Ma è il 2020, l’anno del Corona Virus ma anche il centenario della nascita di Gianni Rodari, educatore e scrittore per l’infanzia, che ci ha lasciato un monito importante: “imparate a fare le cose difficili”.

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