Il welfare nel PNRR. Riconoscere quanto c’è, ma non trascurare i rischi

Elena Granaglia si occupa del ruolo del welfare all’interno del PNRR. Pur riconoscendo l’importanza dei finanziamenti previsti, Granaglia sottolinea due rischi della visione soggiacente di welfare come sostegno all’inclusione lavorativa e aiuto per chi resta indietro. Da un lato, il PNRR trascura il ruolo dei mercati nell’assicurare redditi decenti, così indebolendo anche l’efficacia delle politiche su cui fa leva. Dall’altro, il PNRR sembra dimenticare che il welfare è anche spazio per una forma di vita diversa da quella che caratterizza il mercato e i meccanismi che nel pubblico lo mimano.

Il PNRR dedica al welfare ben tre delle sei missioni prospettate, destinando 66,32 miliardi di euro dei 191,5 disponibili, oltre un terzo, dunque, dello stanziamento complessivo. Le missioni sono istruzione, inclusione e coesione sociale e salute. A ciò si aggiungono le disposizioni trasversali presenti nelle altre missioni, in primis, quelle relative al sostegno all’occupazione di giovani e donne, nonché gli importi addizionali previsti dal fondo accompagnamento.

Rispetto all’istruzione, gli interventi programmati vanno dalla creazione di 152.000 posti in nidi per i bambini fino a 3 anni e 76.000 posti in scuole materne per i bambini tra i 3 e i 6 anni al potenziamento dei dottorati, includendo il risanamento degli edifici scolastici, il miglioramento delle aree per lo sport e dei laboratori, l’estensione del tempo pieno, delle mense e della didattica digitale integrata, il sostegno all’orientamento e il potenziamento della formazione tecnico- professionale, grazie sia a un più diretto rapporto con l’industria sia al rafforzamento del canale delle lauree brevi.

La missione “inclusione e coesione sociale”, dal canto suo, prevede il rafforzamento delle politiche attive del lavoro, grazie alla Garanzia Occupabilità dei lavoratori e, con essa, alla presa in carico dei disoccupati; al Piano Nuove Competenze e, con esso, alla garanzia di livelli di formazione da acquisire nel ciclo di vita; alla certificazione della parità di genere e all’estensione del servizio civile universale. Prevede, altresì, politiche per le infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore, con un focus sulla resilienza dei più vulnerabili anche grazie alla riduzione della istituzionalizzazione (bambini, malati, disabili, anziani non auto-sufficienti), all’housing sociale, alla rigenerazione urbana, alle carceri e, inoltre, interventi speciali per la coesione sociale – finalizzati alla riduzione dei divari territoriali e al contrasto alle povertà educative.

Infine, rispetto alla salute, il PNRR punta, da un lato, alla realizzazione della rete territoriale di prossimità, con la costruzione di 1288 Case della Comunità (punto unico di accesso, caratterizzate dalla presenza di team multidisciplinari per cure primarie) e di 381 Ospedale di Comunità e, dall’altro, al sostegno della casa quale luogo di cura (l’intervento domiciliare dovrebbe riguardare il 10% popolazione sopra 65 anni). Sarebbe così posto in essere un primo passo innovativo per l’assistenza (sanitaria e sociale) agli anziani non autosufficienti. A ciò si aggiungono interventi finalizzati all’ammodernamento dell’assistenza (macchinari, telemedicina, etc….) e alla ricerca.

Sebbene non lo inserisca in una missione, il PNRR sottolinea altresì la centralità di un sistema di ammortizzatori sociali universali.

Tutto ciò non può non attrarre chi abbia a cure le sorti del welfare, dopo tanti anni in cui il welfare è stato invece visto come qualcosa che non ci potremmo più permettere, una minaccia inevitabile alla crescita. E rallegra che il PNRR rifletta anche un mutamento in corso nell’Unione reso evidente, oltre che dal finanziamento del dispositivo di Ripresa e Resilienza e da molti altri programmi sociali – da Sure a React -, dal recente vertice di Porto dedicato all’attuazione del Pilastro dei diritti sociali europei.

Non vorrei cadere nel vizio ricorrente di concentrarsi sugli aspetti critici o in quello del benaltrismo, trascurando quanto di condivisibile ci offre il presente. Ciò nondimeno, vorrei sottolineare alcuni limiti del PNRR che non mi paiono di poco conto sotto il profilo della giustizia sociale e ambientale e che andrebbero e potrebbero essere sanati.

Non mi riferisco tanto ai rischi, che pure ci sono, sia di non mantenere gli impegni, date la genericità e la circolarità che accompagnano molte indicazioni programmatiche, dove lo strumento tende a coincidere con il fine, sia di contemplare finanziamenti inadeguati per alcuni obiettivi. Rimando, sul tema, alla valutazione del Forum Disuguaglianza Diversità.

Mi riferisco soprattutto a limiti nella visione di fondo, che sintetizzerei in un insieme di social investment state, flexicurity e attenzione agli “ultimi”. Gli elementi di social investment state traspaiono dall’attenzione che il PNRR pone agli elementi chiave che caratterizzano tale prospettiva, ossia la centralità dell’investimento in istruzione e formazione, dai primi anni lungo tutto il ciclo di vita, e il sostegno alle responsabilità di cura in modo da favorire l’inclusione lavorativa. Nonostante il finanziamento sia ancora insufficiente al raggiungimento del target europeo del 33% di copertura nazionale, paradigmatica è l’attenzione prestata dal PNRR ai nidi. L’accesso ai nidi è sia un primo passo nello sviluppo formativo dei bambini sia uno strumento indispensabile alle donne per entrare e rimanere nel mercato del lavoro. Favorisce, dunque, sia il capitale umano sia l’occupazione. Gli elementi di flexicurity traspaiono, invece, dal fatto che l’universalizzazione degli ammortizzatori è effettuata in congiunzione con la richiesta di una maggiore flessibilità dei mercati. Infine, il riferimento agli “ultimi” è esplicitamente desumibile dall’indicazione presente nella missione “inclusione e coesione sociale” secondo cui “gli interventi previsti interessano le persone più fragili”.

Ora, è ovvio che occorra investire in capitale umano. I dieci punti in più che abbiamo nella percentuale di NEET rispetto alla media europea (27,8% nella fascia 20-34 vs. 16,4%), le povertà educative, la produttività del lavoro stagnante e quella totale dei fattori declinante non possono non richiedere più investimento in istruzione. Similmente, i quasi 15 punti di distacco nella partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro rispetto a quella della media europea (53,1 vs. 67,4) non possono non richiedere più sostegno pubblico alla cura. La pandemia poi ha ancor più messo in evidenza la frammentazione categoriale e, con essa, le iniquità orizzontali del nostro sistema di ammortizzatori sociali. Dunque, ben vengano movimenti nella direzione di un’universalizzazione delle protezioni. E, ovviamente, ben venga occuparsi di chi sta peggio, nella consapevolezza che servizi universali non rappresentano garanzia automatica di attenzione nei loro confronti.

Ma, la visione di welfare prospettata dal PNRR lascia fuori almeno due ambiti cruciali. Il primo ambito è quello delle disuguaglianze di mercato. L’idea prevalente continua a restare quella secondo cui una volta potenziata l’istruzione e sostenute pubblicamente le responsabilità di cura, gli individui sarebbero in grado di aiutarsi da sé. Così non è.

L’uscita dal nostro paese di 182.000 laureati in un decennio (dunque, di soggetti che sono stati istruiti) dovrebbe dire qualcosa sull’inadeguatezza della domanda di lavoro (anche perché tale uscita non è stata bilanciata da un ingresso di stranieri con simili livelli di titoli di studio). E, comunque, anche nei paesi in cui i nostri laureati trovano lavoro o nei paesi dove maggiore è l’innovazione, il mercato del lavoro inesorabilmente presenta una vasta parte bassa (fino al 50% dei lavoratori) che da decenni si caratterizza per la stagnazione in termini reali delle retribuzioni (o addirittura la leggera decrescita) e l’aumento della quota dei lavoratori poveri (siano essi tali su base familiare o in termini di retribuzione). Ancora, l’istruzione spiega ben poco della disuguaglianza retributiva, dirimenti essendo il tipo di impresa in cui si lavora (grande o piccola; impresa che lavora in regime di esternalizzazione o no) e di contratto.

Il mercato deve fare la sua parte producendo lavori decenti, grazie sia ad un’adeguata politica industriale sia alla messa in discussione dei cambiamenti nella distribuzione del potere che hanno così indebolito i lavoratori negli ultimi decenni, come argomenta, fra gli altri, il recente documento Governare la società. Nel PNNR, tuttavia, vi è ben poca consapevolezza sul tema. Non solo il welfare si presenta in larga misura come ancella del mercato e non anche viceversa, ma l’auspicata combinazione di dosi ulteriori di flessibilità e ammortizzatori universali potrebbe aggravare ulteriormente le disuguaglianze di mercato. Preoccupa, al riguardo, l’esclusione di qualsiasi riferimento al salario minimo (presente in bozze precedenti), strumento certo parziale (concerne i dipendenti e si limita alla paga oraria, quando tanta disuguaglianza dipende dal numero di ore lavorate), ma comunque necessario. Aggiungo che i maggiori successi dello stato sociale hanno avuto luogo esattamente in presenza di mercati che limitavano le disuguaglianze così contribuendo a quello che è stato denominato il “moltiplicatore” dell’uguaglianza.

E, comunque, in tanto in quanto il mercato non sia in grado di offrire una retribuzione decente, rimane la responsabilità della collettività di intervenire, assicurando un reddito decente. Date le condizioni attuali, i soggetti interessati sono ben di più che gli “ultimi”.

Il secondo ambito lasciato fuori dal PNRR concerne il ruolo del welfare quale spazio per una forma di vita diversa da quella che caratterizza il mercato e i meccanismi che nel pubblico lo mimano, come gli schemi di quasi-mercato centrati sul consumo individuale di prestazioni e sulla gara competitiva. Detto in altri termini, il welfare non è solo strumento per competere al meglio, tutelare chi sta peggio (ancorché in una prospettiva più estesa di quella che fa leva sugli “ultimi”) o assicurare beni e servizi divisibili. È anche uno spazio dove si realizzano capacità che individui uniti da una comune uguaglianza morale reputano per tutti e tutte fondamentali a prescindere dai singoli piani di vita. Proprio perché basati su tale uguaglianza morale, i beni e i servizi offerti in tale spazio richiedono non solo dotazioni della stessa qualità, ma anche spazi comuni in cui i diversi si incontrano, sulla base di relazioni fra pari e nel riconoscimento delle diversità di genere e culturali e modelli produttivi che privilegiano la ricerca delle finalità intrinseche connesse alle capacità. a prescindere dalla mediazione del profitto. Poiché le finalità intrinseche possono essere variamente specificate, la comune uguaglianza morale richiede altresì la pari partecipazione di tutti nella loro definizione. L’opportunità di praticare forme di vita non di mercato contribuisce così anche all’ampliamento delle libertà. Certo, il welfare oggi è spesso molto lontano dal soddisfare queste aspettative. La sfida è tuttavia quelle di realizzarle, mentre il PNRR le ignora.

A questi più tradizionali contributi del welfare si aggiungono i possibili contributi in termini di cura dell’ambiente. Non solo le attività che contraddistinguono il welfare hanno una bassa impronta ecologica. L’attenzione ai valori intrinseci può anche rafforzare i comportamenti di cura dell’ambiente. Ancora, edifici (case, scuole, ospedali….) e spazi pubblici sono elementi cruciali del welfare. Qualificarli significa anche meglio proteggere l’ambiente.

In conclusione, il PNRR offre molte opportunità al welfare. Dimentica, tuttavia, le responsabilità del mercato nella produzione delle disuguaglianze e il ruolo del welfare quale spazio per una forma di vita diversa da quella che caratterizza il mercato. Su questi fronti, sarebbe necessario un netto cambio di marcia.

Schede e storico autori