Il welfare fiscale: istruzioni e cautele per l’uso

Matteo Jessoula e Emmanuele Pavolini analizzano un tema cruciale nel quadro dell’attuale dibattito sulla riforma fiscale: il ruolo e l'impatto del welfare fiscale in Italia, sia rispetto alle finanze pubbliche che alla protezione sociale. Essi mostrano che le misure di agevolazione fiscale nel settore del welfare, pur essendo in alcuni casi efficaci a tutelare le condizioni di maggiore bisogno, presentano spesso rilevanti criticità sul piano dell’efficienza e dell’equità; il loro utilizzo dovrebbe perciò essere limitato e sempre attentamente ponderato.

Un attento e sapiente conoscitore dell’economia e della finanzia pubblica italiana, Ezio Vanoni, ricordava molti decenni fa come: “una esenzione, in questo nostro beato paese, … non si rifiuta a nessuno” (Resoconti parlamentari, Camera dei deputati, I legislatura, seduta pomeridiana del 5 luglio 1949, pag. 9926-7).

È da questa sagace e forse sconsolata constatazione dello statista e studioso italiano che prendono avvio le riflessioni contenute in questo nostro intervento dedicato al “welfare fiscale”. Richard Titmuss già oltre 60 anni fa individuava tre diversi canali e forme di redistribuzione attraverso cui gli individui possono ricevere prestazioni di protezione sociale: il «welfare sociale», cioè le prestazioni assicurate dallo stato direttamente tramite servizi o trasferimenti monetari (pensioni, indennità, etc.); il «welfare occupazionale», ossia quell’insieme di prestazioni sociali che emergono dalla contrattazione collettiva oppure sono erogate ai lavoratori unilateralmente dalle imprese; il «welfare fiscale», e cioè gli interventi effettuati sempre dallo Stato per favorire l’ottenimento di prestazioni sociali attraverso il sistema fiscale (tramite forme di detassazione, incentivi, agevolazioni, ecc.. della spesa privata sostenuta da individui, famiglie e associazioni).

A lungo, tuttavia, i suggerimenti di Titmuss non sono stati molto ascoltati. Se si prende in considerazione l’ampia letteratura sulle politiche sociali prodotta negli ultimi sessant’anni, da un lato, le ricerche sul “welfare sociale” hanno ricevuto larghissima attenzione, dall’altro, l’analisi di imprese e sindacati come “produttori” diretti di prestazioni di welfare ha faticato ad affermarsi nell’agenda di ricerca (il “welfare aziendale e contrattuale” è entrato in agenda solo nell’ultimo decennio, soprattutto per l’attivismo imprenditoriale in tal senso). Ancora minore attenzione è stata dedicata allo stato nel ruolo di sostegno indiretto alle famiglie e agli individui tramite la leva delle agevolazioni fiscali, volte a favorire l’acquisto da parte di privati di prestazioni sociali e/o il conseguimento di obiettivi ritenuti socialmente rilevanti.

A livello generale, seguendo la classificazione proposta dall’OCSE, si possono individuare cinque categorie di agevolazioni fiscali: le esenzioni – o esclusione di redditi guadagnati da un individuo dalla base imponibile teorica dall’intero processo impositivo; le deduzioni – cioè spese sostenute da un individuo che possono essere sottratte dalla base imponibile teorica per ottenere quella effettiva; le riduzioni di aliquota applicate alla base imponibile effettiva; le detrazioni e crediti di imposta, gli importi sottratti dall’imposta lorda, calcolata applicando le aliquote alla base imponibile effettiva; i differimenti di imposta.

Nello specifico, a titolo esemplificativo, una classica misura di agevolazione fiscale nel welfare in Italia è la normativa che prevede la detrazione di una parte delle spese medico-sanitarie sostenute direttamente dalle famiglie e dagli individui. Tale previsione normativa ha comportato negli ultimi anni una diminuzione delle entrate pubbliche per circa 3 miliardi annui, e ne hanno usufruito circa 17 milioni di italiani.

Il fatto che la comunità scientifica non abbia dedicato in questi anni una sufficiente attenzione al tema del welfare fiscale in Italia è stato un errore. Sono pochi gli studiosi, quasi unicamente economisti (tra i quali, Massimo Baldini, Francesco Figari e Maria Cecilia Guerra), che nel decennio passato si sono occupati di agevolazioni fiscali e protezione sociale.

A parere di chi scrive occorre invece adottare un approccio multidisciplinare – sociologico, politologico, economico – e integrato allo studio del welfare fiscale, così come abbiamo fatto nel volume, da noi curato, “La mano invisibile dello stato sociale. Il welfare fiscale in Italia”, appena pubblicato da Il Mulino.

Tale approccio è quanto mai necessario in un paese in cui il welfare fiscale gioca un ruolo molto rilevante sotto il profilo sia delle finanze pubbliche che della protezione sociale. Alla fine del decennio passato lo stato italiano ha rinunciato all’equivalente di quasi 71 miliardi di euro di entrate all’anno per poter assicurare agevolazioni fiscali nel campo del welfare. Tale cifra è rispettivamente pari al 14% del totale delle entrate tributarie e al 15% della spesa in protezione sociale.

Non solo il welfare fiscale pesa significativamente da un punto di vista economico sulla finanza pubblica, ma non ha per nulla risentito delle politiche di austerity del decennio passato. Anzi, il suo peso relativo è cresciuto in maniera sensibile nell’ultimo decennio rispetto alla spesa in protezione sociale. Se l’incidenza su tale spesa era pari al 9% nel 2009, questo valore si attestava al 15% nel 2019.

I settori di policy che assorbono maggiormente la spesa in welfare fiscale sono nell’ordine: le politiche abitative (con circa il 29% delle risorse assegnate), quelle a supporto delle famiglie con figli (ma ciò avveniva soprattutto prima della riforma dell’Assegno Unico Universale per i Figli, dato che buona parte delle risorse destinate alle agevolazioni per i familiari a carico sono state reimpiegate per finanziare l’Assegno), e quelle a sostegno del lavoro e del reddito (a ognuna delle voci appena indicate corrisponde circa un quinto del totale della spesa in welfare fiscale). Alle politiche che riguardano la salute e la previdenza vengono destinate risorse più limitate, ma che giocano un ruolo molto importante nell’incentivare e nell’indirizzare la spesa di imprese, lavoratori e cittadini verso fondi complementari.

Pur riconoscendo un ruolo potenzialmente positivo in alcune situazioni specifiche alle agevolazioni fiscali nel campo del welfare, il nostro volume invita alla (estrema) cautela nel ricorso a tale strumento per ragioni sia di efficienza che di equità.

Infatti, non solo il welfare fiscale tende a produrre effetti distributivi prevalentemente regressivi – dato che a effettuare spese soggette a agevolazioni sono, in media, gli individui relativamente più abbienti – ma risulta essere una scelta spesso poco efficiente dal punto di vista dell’allocazione delle risorse pubbliche e, in ultima analisi, inefficace rispetto al perseguimento di obiettivi di interesse collettivo. Si consideri, come esempio emblematico, il fallimento del piano lanciato nei primi anni Novanta volto a far sì che tutti i futuri pensionati potessero contare su una doppia pensione, pubblica e complementare, dal 2030 circa. Tale obiettivo era generosamente incentivato tramite agevolazioni fiscali. Il risultato non è stato raggiunto e, come scritto anche da Raitano in varie occasioni, paradossalmente non ha fatto altro che far aumentare la polarizzazione in termini di generosità delle prestazioni (e del godimento delle agevolazioni fiscali) fra (futuri) pensionati. Ugualmente, le agevolazioni fiscali riservate ai fondi sanitari hanno sortito effetti “perversi” favorendo una spinta ad una crescente dualizzazione fra “cittadini di serie A”, in grado di accedere al servizio sanitario nazionale e, quando, necessario alle prestazioni dei Fondi, e “cittadini di serie B”, destinati alle sole prestazioni pubbliche, in tempi in cui le risorse messe a disposizione dallo stato per la sanità pubblica sono drasticamente diminuite (almeno fino all’inizio della pandemia).

Se il welfare fiscale è in gran parte inefficiente sotto il profilo economico e iniquo sotto il profilo distributivo, perché (crescentemente) “è andato di moda” in Italia nei decenni recenti?

Per rispondere a questa domanda occorre seguire un approccio di “political economy”, che mescoli spiegazioni economiche a spiegazioni sociologiche e politologiche, proprio perché il ricorso a buona parte degli strumenti di welfare fiscale ha origine da dinamiche e processi politici e sociali, più che da considerazioni di efficienza economica.

Le ricerche sui vari settori di policy contenute nel volume (dalle pensioni alla sanità, dal welfare aziendale al sostegno alle famiglie con figli e all’alloggio) mostrano come i decisori politici abbiano fatto ricorso a strumenti di welfare fiscale per convogliare risorse pubbliche verso il settore privato, come avvenuto in campo sanitario e pensionistico. Allo stesso tempo, tali scelte di politica pubblica sono state innescate e significativamente plasmate da dinamiche strettamente di politics che hanno caratterizzato le agevolazioni fiscali nel campo della protezione sociale. Il welfare fiscale tende, infatti, a essere uno strumento formidabile nei processi di «scambio politico», così come definiti tanti anni fa da Pizzorno. Tale efficacia nei meccanismi di scambio politico è riconducibile ad alcuni peculiari attributi del welfare fiscale, due dei quali appaiono particolarmente importanti: l’opacità delle misure e dei relativi effetti; la capacità di operare come catalizzatore di consenso politico immediato. L’opacità va intesa come la difficoltà da parte di soggetti terzi, esterni agli accordi e agli «scambi» – in primis i cittadini, ma anche spesso i rappresentanti dei lavoratori e il vasto mondo del terzo settore che si occupa di advocacy dei diritti sociali dei cittadini – di individuare sia i costi delle misure adottate, sia i luoghi e le modalità con cui queste vengono introdotte, dato che il policy making si sviluppa spesso in tavoli tecnici presieduti da esperti in materie giuridico-economico-finanziarie ad alto grado di complessità. Inoltre, tali agevolazioni fiscali possono assumere un profilo marcatamente «microdistributivo», che permette di assegnare benefici a gruppi ristretti di cui si vuole ottenere il sostegno politico, accollandone i costi all’intera (spesso ignara) collettività. In questo quadro, tali misure possono essere adottate in quanto catalizzatrici di consenso politico immediato in tutte quelle situazioni in cui risulta difficile per gli attori raggiungere un accordo rispetto a riforme e interventi da effettuare. In questi casi il welfare fiscale rappresenta o il punto di convergenza più semplice da trovare o l’occasione per massimizzare in termini molto rapidi il ritorno delle scelte di policy effettuate.

Da questo punto di vista la recente decisione di trasformare una parte consistente delle detrazioni per familiari a carico (in particolare per i figli) in trasferimenti monetari da utilizzare nel finanziamento dell’Assegno Unico Universale per i Figli, di cui si è accennato sopra, va salutata come una buona notizia di una politica che privilegia il “welfare sociale” al “welfare fiscale”, permettendo una disanima più trasparente degli effetti (anche redistributivi) dell’intervento pubblico

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