Il welfare fiscale. Alcuni limiti etici

Elena Granaglia si occupa della tendenzaa utilizzare la leva fiscale a sostegno del welfare e dei problemi che ne derivano. In particolare, richiamal’attenzione su due limiti etici del welfare fiscale, che vengono sottovalutati nel dibattito pubblico. Il primo riguarda il fatto che le agevolazioni sono fonte d’iniquità distributive e rischiano di accentuare ulteriormente la frammentazione del welfare italiano. Il secondo si riferisce alla visione del rapporto fra libertà e uguaglianza su cui tali agevolazioni si basano.

Radicali ristrutturazioni nei confini fra responsabilità private e pubbliche non sembrano oggi all’ordine del giorno per i servizi sociali del nostro paese. Diversi sono, però, i segnali di potenziamento progressivo del welfare fiscale, intendendo per quest’ultimo l’uso della leva fiscale ai fini del sostegno del welfare.

Da un lato, vi sono precisi atti politici. La legge di stabilità per il 2016 ha esteso la detassazione di alcune spese di welfare effettuate dai datori di lavoro a favore dei dipendenti e, benché i decreti attuativi non siano ancora definiti, le agevolazioni hanno un peso importante nella legge delega di riforma del terzo settore approvata lo scorso 25 maggio dal Parlamento. Un rafforzamento dell’incentivazione al welfare aziendale è anche all’ordine del giorno della legge di stabilità per il 2017. Al contempo, nel 2016, il finanziamento pubblico per un servizio centrale quale è il Servizio Sanitario Nazionale è stato tagliato di 5 miliardi rispetto alla versione originaria del Patto per la salute 2014-2016, scendendo da 116 a 111 miliardi (cfr. G. Turati, Soldi alla sanità: una scelta tutta politica, in www.lavoce.info, 20 settembre 2016).

Da un altro lato, vi è un’opinione pubblica sempre più insoddisfatta della qualità dei servizi pubblici, non importa se a seguito anche del disinvestimento che tali servizi hanno subito. Vi sono, poi, i noti vincoli di bilancio, i quali non permetterebbero più di finanziare il welfare che abbiamo conosciuto e, tanto meno, i nuovi rischi sociali. In tale contesto, le agevolazioni fiscali sarebbero benvenute in quanto attiverebbero risorse private aggiuntive. Peraltro, punto non irrilevante, le agevolazioni fiscali sono tipicamente percepite (e contabilizzate) come riduzione della pressione fiscale anziché come spesa nonostante ne siano l’equivalente.

Il welfare fiscale può assumere una molteplicità di configurazioni. In questa sede mi concentro sulle agevolazioni a sostegno della domanda di beni e servizi di welfare. La tesi che intendo sostenere è che il welfare fiscale contempli iniquità distributive e rischi di basarsi su una visione fallace del rapporto fra libertà e uguaglianza.

Incominciamo dalle iniquità distributive. Se introdotte in ambito aziendale e occupazionale, le agevolazioni beneficiano unicamente un gruppo di lavoratori: chi ha la fortuna di essere occupato in imprese e/o in settori che offrono tutele addizionali. Gli altri restano scoperti. Incidentalmente, è curioso che i difensori delle agevolazioni tendano, invece, a diventare i più fieri oppositori della dualizzazione nel mercato del lavoro quando in gioco è la riduzione dei diritti dei lavoratori. In ogni caso, sia che riguardino il contesto aziendale/occupazionale sia che sostengano la domanda di singoli acquirenti, le agevolazioni sono una spesa che è finanziata da tutta la collettività, ma  di cui beneficia esclusivamente chi, fra i contribuenti, ha risorse sufficienti a acquistare tutele aggiuntive rispetto a quelle universalmente disponibili.

Rimarco la duplicità delle iniquità distributive. Chi non ha risorse per fruire delle agevolazioni è escluso dai benefici, mentre i contribuenti, nel complesso, finanziano prestazioni a favore di chi è meno bisognoso. Certo, incoerenze di questo tipo non sono nuove nel nostro paese, da sempre caratterizzato da un welfare frammentato e categoriale. Ma, ovviamente, l’esistenza di un fenomeno non può bastare per giustificarlo.

Le iniquità prescindono dal disegno delle agevolazioni. Se assumono la forma di deduzioni fisse dal reddito, le agevolazioni hanno addirittura un valore crescente rispetto al reddito, il risparmio d’imposta essendo correlato all’aliquota marginale (in altri termini, maggiore l’aliquota che si sarebbe dovuta pagare sulle somme deducibili, maggiore il valore della deduzione). È il trionfo della regressività. L’iniquità resta, però, intatta in presenza di detrazioni. Imposte pagate da tutti i contribuenti permettono solo ad alcuni di avvantaggiarsi (chi è sufficientemente ricco per pagarsi servizi addizionali ed è capiente sotto il profilo tributario). Al contempo, agevolazioni decrescenti rispetto al reddito attenuano il favore fiscale per chi ne gode, a costo, però, di nuovi problemi: interferiscono con il disegno della progressività dell’imposta personale e, come non si stanca di ripetere la senatrice Guerra, realizzano  la  selettività unicamente sulla base del reddito.

Si considerino, poi, altre configurazioni di welfare fiscale, quali le agevolazioni a favore dei soggetti più abbienti che escano dai servizi pubblici. In tal caso, i più svantaggiati continuerebbero ad accedere ai servizi pubblici; addirittura, secondo i difensori della prospettiva, potrebbero avvantaggiarsi delle risorse liberate dall’uscita dei più abbienti. Il punto è che se l’uscita fosse circoscritta ai più ricchi, questi ultimi, già oggi, in larga maggioranza, non usano i servizi pubblici. Dunque, non ci sarebbe alcuna liberazione di risorse: anzi, si aggiungerebbe la spesa per le agevolazioni fiscali. Se si allarga la platea, il rischio è la trasformazione del servizio pubblico in servizio di ultima istanza. Al settore pubblico si rivolgerebbero tutti coloro che non riescono più ad assicurarsi privatamente, con la conseguenza di un incremento della spesa pubblica, come dimostrato dalle vicende passate della sanità olandese. Si aggiungano, poi, rischi di dequalificazione dei servizi pubblici connessi all’uscita dei più avvantaggiati. Siamo ben lontani da un contesto di maximin, dove le disuguaglianze sono finalizzate a aumentare il benessere di chi sta peggio.

In ogni caso, le agevolazioni sono una spesa pubblica (anche se le norme contabili le registrano come riduzione della pressione fiscale). Il reddito impiegato nelle agevolazioni potrebbe essere speso nei servizi pubblici.

Passando al rapporto fra libertà e uguaglianza, la difesa delle agevolazioni tende a basarsi su una visione della libertà come valore che può esistere solo al di fuori del perimetro dell’offerta pubblica. Quest’ultima sarebbe, invece, il regno di un’uguaglianza inevitabilmente paternalistica e uniformante, insensibile alle differenze nei bisogni e nelle preferenze. Come ricorda A. Gamble (in Can the welfare state survive?), “la creazione, il mantenimento e il futuro dello stato sociale non sono mai stati soltanto una questione di economia politica strettamente intesa. Sono sempre stati una questione di economia morale”. Il neo-liberalismo, per quanto possa essere diversamente declinato, ha vinto anche grazie a argomenti valoriali di questo tipo.

Si tratta di una visione inaccettabile. Possiamo divergere circa i valori da preferire. Le questioni in gioco devono, però, essere impostate correttamente, anche perché le modalità di definizione dei problemi ne influenzano potentemente le soluzioni.

Innanzitutto, la libertà resa possibile dalle agevolazioni fiscali è esclusivamente la libertà di mercato. Ora, in ambito sociale, i mercati sono esposti a diverse carenze. Non sono, ad esempio, in grado di assicurare contro eventi incerti (cui non sia possibile attribuire una probabilità) o dominati da asimmetrie informative e neppure sono in grado di produrre beni non escludibili, quali spazi urbani favorevoli all’esercizio di relazioni sociali. Oppure, anche qualora fossero in grado di offrire le prestazioni desiderate, i mercati potrebbero essere inefficienti rispetto alla soluzione pubblica. Il confronto fra la spesa sanitaria complessiva degli Usa e quella dei paesi con servizio sanitario nazionale è emblematico. Se così, anche  se si fosse unicamente mossi dalla ricerca del benessere personale,si potrebbe liberamente scegliere di rivolgersi al pubblico per fruire di beni che il mercato non è in grado di fornire o fornisce in misura inefficiente.

Inoltre, anche se fossero esistenti e efficienti, i mercati sono in grado di produrre soltanto beni il cui valore è espresso dal prezzo che gli individui sono disposti a pagare, date le proprie e diverse preferenze.Esistono, però, altre declinazioni di valore. Ad esempio, gli individui potrebbero desiderare che i beni sociali riflettano il valore della comune cittadinanza, il “noi” che tutti potremmo essere. Tale valore non può essere soddisfatto attraverso meccanismi di mercato, neppure in presenza di distribuzioni ugualitarie del reddito. Il mercato è il regno dove i gusti, compresi quelli per la separazione gli uni dagli altri, sono sovrani. L’offerta pubblica, al contrario, offre, esattamente, la possibilità di uno spazio aperto a tutti, indipendentemente dal background socio-economico e culturale, in cui i diversi imparano a rapportarsi “come uguali”. Questo, ad esempio, era e rimane il sogno della scuola pubblica. Alla mercificazione operata dal ricorso alla disponibilità a pagare, le agevolazioni aggiungono, dunque, la mercificazione nelle modalità di erogazione dei beni.

Non è tutto. La stessa offerta pubblica potrebbe essere perfettamente compatibile con l’esercizio della libertà e con il riconoscimento delle differenze nei bisogni. Detto in altri termini, non vi è nulla che condanni inesorabilmente l’offerta pubblica al paternalismo e all’uniformità, come se, parafrasando V. Hugo, l’obiettivo fosse di rendere tutti esattamente uguali come una vegetazione della stessa altezza. Addirittura, l’offerta pubblica potrebbe permettere dimensioni aggiuntive di libertà, quali quelle connesse alla partecipazione democratica.

Certo, le carenze odierne sono sotto gli occhi di tutti.  Ma, già oggi, nonostante i tanti limiti, il SSN non offre l’insulina a tutti e se non si può  rinunciare alle cure quando si è malati terminali non è certo per ragioni intrinseche alla proprietà pubblica. Inoltre, non mancano le indicazioni su come rendere l’offerta pubblica più sensibile alle differenze individuali. Ancora, proprio l’interazione fra i diversi, resa possibile dai beni di cittadinanza, favorisce la costruzione delle basi sociali che rendono possibile la libertà di tutti di perseguire il proprio piano di vita.

Alla luce di questi limiti etici, individui dediti alla giustizia sociale dovrebbero, allora, sempre e comunque osteggiare il welfare fiscale? Nel cercare una risposta, sento forte il monito di Sen (L’idea di giustizia, Mondadori, 2011) contro la ricerca della perfetta giustizia che mai otterremo e a favore dell’impegno al contrasto delle più patenti ingiustizie.

Si consideri un settore come quello della non-autosufficienza, dove, nel nostro paese, bisogni fondamentali (non prestazioni integrative) sono insoddisfatti e dove la superiorità dell’offerta pubblica è meno netta rispetto a quello che potrebbe avvenire in altri ambiti.Si assuma poi che i vincoli di bilancio non siano allentabili, pur riconoscendo che anche su questo fronte i margini di manovra non sono indifferenti. Basti pensare alle misure di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale; alle misure di pre-distribuzione volte a riportare in capo alle imprese costi oggi scaricati sul bilancio pubblico, quali quelli associati all’assenza di minimi salariali adeguati,nonché alle scelte in materia di composizione delle spese pubbliche (abbiamo scelto, ad esempio, di dedicare 23 miliardi alla decontribuzione). Ebbene, mi sembra difficile osteggiare qualsiasi agevolazione nel nome della perfetta giustizia.

I limiti etici delle agevolazioni rappresentano, però, un elemento importante di cui tenere conto nella scelta. Un’implicazione aggiuntiva, se si condividono tali limiti, è quella di evitare interventi che pregiudichino la possibilità di contrastarli nel corso del tempo. Cruciale, in questa prospettiva, è impedire il radicarsi di gruppi d’interesse, quali grandi società di  assicurazione o grandi catene di case di cura, che diventerebbero i maggiori oppositori del cambiamento.

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