Il Welfare del Trentino tra impegno riformatore e avvisaglie di controriforma

Ugo Trivellato presenta e discute un'ambiziosa riforma del welfare del Trentino, che, accanto a innovazioni decisamente positive, in chiave di coordinamento e potenziamento degli interventi, mostra incongruenze e debolezze di non poco conto. Trivellato ritiene che esse ne intacchino l'equità redistributiva e, verosimilmente, ne riducano l'efficacia e per questo auspica che la riforma si caratterizzi come un 'cantiere aperto', che consenta significativi miglioramenti, anche alla luce dell'esperienza del primo anno.

In tema di contrasto della povertà il 2018 si apre con l’avvio del Reddito di inclusione (REI), disegnato in modo convincente ma atteso a due cruciali prove: di efficace gestione, in particolare delle azioni di attivazione (come richiamato da Leone nello scorso numero del Menabò), e di incremento del finanziamento per accrescerne l’importo e estenderne la copertura a tutti i soggetti in povertà assoluta.

Novità si hanno anche nelle regioni. Particolare attenzione merita la Provincia autonoma di Trento (PaT),tra le poche a vantare positive, consolidate esperienze di politiche sociali, che ha recentemente introdotto, con un’ambiziosa riforma, l’Assegno unico provinciale (AUP).

L’AUP si propone tre obiettivi: (i) realizzare un unico portale di accesso alle misure di welfare della PaT; (ii) unificare le principali misure in un assegno unico; (iii) ampliare la platea dei beneficiari. La riforma comporta un notevole rafforzamento delle risorse per le politiche sociali, con una previsione di spesa di 77-80 milioni di euro a fonte dei 57 del 2017.

È bene chiarire subito in che senso le diverse misure sono unificate nell’AUP. Unico è il portale di accesso, unica è la domanda del nucleo familiare, unico è l’assegno erogato per l’insieme delle misure alle quali la famiglia è ammissibile. Ciò migliorerà in maniera significativa i rapporti dei cittadini con l’amministrazione. Sotto il profilo sostanziale si è tuttavia di fronte a quattro misure differenti per finalità, requisiti di ammissibilità, trasferimenti monetari, condizionalità per i beneficiari. In questo articolo si valutano le due principali:

  • il Sostegno al reddito (AUP1), un reddito minimo affiancato da azioni di attivazione;
  • il Sostegno al mantenimento dei figli minori (AUP2), che mira a far fronte a un bisogno particolare in una logica prossima al targeting within universalism, in linea con quanto suggerito da Granaglia nello scorso numero del Menabò.

Sotto l’ombrello dell’AUP ricadono altre due misure, con impegni di spesa minori: il Sostegno alle esigenze di vita degli invalidi civili e il Sostegno per l’accesso ai servizi per la prima infanzia.

 Il Sostegno al reddito. L’AUP1 sostituisce il Reddito di garanzia, in atto dal 2009. Il Reddito di garanzia per persona equivalente aveva una soglia di povertà di € 6.500 l’anno; il confronto con i 2.250 euro del REI ne chiarisce la rilevanza. Il trasferimento monetario era pari alla differenza fra tale valore e il reddito disponibile calcolato tramite l’Indicatore della condizione economica familiare (ICEF, analogo all’ISEE e con la scala di equivalenza della Tab. 2); nel 2013, però, si introdusse un massimo di € 11.400 al trasferimento per nucleo familiare.

L’AUP1 si differenzia dal Reddito di garanzia per l’introduzione di due linee di povertà. La prima vale per redditi ICEF inferiori a € 4.000 ed è confermata a € 6.500: detto altrimenti, per i più poveri tra i poveri nulla cambia. La seconda, non più costante, vale per redditi ICEF compresi fra € 4.000 e 8.000 – quindi per l’insieme dei meno poveri tra i poveri – e cresce linearmente da € 6.500 a 8.000, il che comporta i trasferimenti monetari riportati nella Tab. 1A, col. 2. La seconda linea di povertà è così argomentata: «un innalzamento graduale della soglia per chi ha una capacità reddituale non modesta […] e vuole comunque migliorare la propria situazione senza perdere i benefici». Il proposito, dunque, è contenere il rischlo della trappola della povertà, che si materializza quando il beneficiario preferisce continuare a ricevere il trasferimento monetario del Reddito di garanzia piuttosto che accettare un lavoro, stabile o meno, con un salario di poco superiore.

Per contenere tale rischio servirebbe un dispositivo transitorio che, entro un dato eccesso di reddito rispetto alla soglia, operasse in maniera graduale (ad esempio, una franchigia decrescente del reddito da lavoro), sicché in caso di successo accompagnerebbe il soggetto all’indipendenza economica. L’aggiunta di una seconda linea di povertà, invece, è un intervento strutturale, che porta a soglie stabilmente più alte per i segmenti di famiglie via via meno povere. Quindi, la trappola della povertà non viene contrastata, ma si ripropone per tutte le famiglie con reddito prossimo alle soglie via via più alte. D’altra parte, l’AUP1 ha effetti redistributivi non banali. Certo, esso non stravolge il disegno originario del Reddito di garanzia, perché la modifica apportata è modesta; la redistribuzione che esso produce, rispetto ai redditi ICEF, rimane dunque “equa”, secondo la dizione adottata nella Tab. 1A. Ma se si guarda specificamente alla modifica, cioè alla differenza fra l’AUP1 e il Reddito di Garanzia, essa viola l’equità: il suo esito è una minore uguaglianza rispetto alla redistribuzione prodotta da quest’ultimo (Tab. 1A, col. 6 versus coll. 4 e 5).

È importante notare, poi, che l’AUP1 mantiene il tetto al trasferimento per nucleo familiare. Nel contesto di una profonda riforma delle politiche sociali, la scelta sorprende, dato che risultano penalizzate le famiglie numerose, già a partire da 3 componenti, tipicamente una coppia con un figlio (Tab. 1B).

Il Sostegno al mantenimento dei figli minori. Tra le misure che si propongono di far fronte a specifici bisogni, l’AUP2 ha un rilievo particolare, perché assorbe oltre il 50% della spesa per l’AUP e adotta criteri fortemente innovativi per distribuirla. L’AUP2 si caratterizza per tre tratti essenziali: (i) utilizza come indicatore della condizione familiare una variante di ICEF, che per chiamo ICEF2, la quale ha limiti superiori e franchigie del patrimonio notevolmente più alti e avvantaggia quindi i nuclei con maggiore ricchezza; (ii) introduce un’ulteriore scala di equivalenza per numero di figli minori – per brevità “Scala figli” – con pesi che partono da 1 e aumentano almeno di 1 con il loro numero (Tab. 2); (iii) fissa la soglia di ammissibilità a € 15.000. Essa impiega la “Scala figli” per stabilire minimi e massimi del trasferimento; entro ciascun gradino di tale scala – cioè per un dato numero di figli – determina poi l’entità del trasferimento, al massimo di € 800 l’anno per il primo figlio per redditi ICEF2 fino a € 5.000 e variabile tra le coppie di massimi e minimi in modo linearmente decrescente per redditi ICEF2 compresi fra € 5.001 e 30.000.

L’utilizzo di due scale di equivalenza già contraddistingueva le politiche sociali del Trentino. Che l’ambiziosa riforma non abbia modificato questo aspetto lascia, tuttavia, perplessi. Per politiche sociali ispirate all’universalismo selettivo e all’equità il ricorso a più scale è ragionevole quando esse si distinguano per caratteristiche dei componenti: disabilità, lavoro di entrambi i coniugi, area di residenza, ecc.. Non lo è,invece, se le scale si distinguono per una differente valutazione delle risorse familiari.

Incomprensibile, poi, è l’aggiunta della “Scala figli”, con pesi crescenti all’aumentare del loro numero. Una sconcertante bizzarria, in contraddizione con tutte le scale di equivalenza, accademiche e ufficiali. E ciò per una ragione ovvia: le scale di equivalenza hanno pesi decrescenti perché al crescere del numero dei componenti vi sono forti economia di scala.

Altra questione è come il costo dei figli vari in funzione dell’età. Al riguardo torna utile il metodo utilizzato per determinare le soglie di povertà assoluta. L’Istat stima direttamente la spesa per un paniere di beni essenziali per una vita dignitosa, in funzione anche del numero e dell’età dei componenti. Ciò consente di trarne scale di equivalenza implicite. Ora, la scala di equivalenza implicita per età, riferita a due figli in età rispettivamente 4-10 e 14-17 anni, è dell’ordine di [1; 1,05]. E la parallela scala di equivalenza implicita per numero di componenti, riferita a soggetti tutti in età 18-59 anni e a nuclei familiari di numerosità da 1 a 3, è dell’ordine di [1; 1,38; 1,72]. Risulta pertanto evidente che la “Scala figli” è irragionevole, mentre potrebbe essere ragionevole una scala di equivalenza per età dei figli, con pesi crescenti ma molto moderatamente.

Sotto il profilo sostanziale, v’è da considerare che l’utilizzo della “Scala figli” produce forti discontinuità. Ad esempio, una coppia con un figlio 17enne, e con reddito ICEF2 per persona equivalente fino a € 5.000, al compimento del suo 18 compleanno vede il trasferimento ridursi di € 2.800.

Meno agevole è valutare gli effetti redistributivi delle combinazione delle incongrue disposizoni confermate e introdotte. Per stimarli in maniera accurata servirebbero microdati longitudinali. È indubbio, tuttavia, che esse comporteranno iniquità redistributive (in parte già documentate nella Tab. 1) e una torsione della spesa sociale in favore dei ceti medi e al margine medio-alti, come mostra un grossolano esempio. Consideriamo una famiglia composta da due genitori, entrambi lavoratori dipendenti (il che comporta un innalzamento della soglia) e 3 figli minori; la sua soglia di reddito è di € 45.600. Tenendo conto dei parametri di ICEF2, ad essa corrisponde un reddito disponibile familiare netto dell’ordine di € 50-60.000. Una famiglia con un reddito appena inferiore è quindi ammissibile a un AUP2, sia pure modesto. Ora, tale reddito – € 17,5-21.000 pro-capite – si colloca intorno al reddito medio ed è del 20% superiore a quello mediano della Provincia

Riflessioni conclusive. Si sono documentate incongruenze e debolezze delle due principali misure dell’AUP. Peraltro, in parte sono figlie dell’inerzia delle misure precedenti: in particolare, ciò vale per il mantenimento di due indicatori della condizione economica, ICEF e ICEF2. Non vanno sottaciute, inoltre, le significative innovazioni dell’AUP segnalate nell’introduzione. II merito dell’unitarietà, che ne contraddistingue parzialmente il disegno e compiutamente l’accesso e l’erogazione, risalta con nitidezza quando lo si confronti con l’assenza di coordinamento delle misure nazionali – REI e i molteplici bonus categoriali. Infine, è ragionevole attendersi che l’erogazione di un unico assegno riduca la percezione di stigma sociale associata a qualche misura, segnatamente all’AUP1, e ne aumenti quindi il take-up rate.

Ma essere guerci in un paese di ciechi è magra consolazione. L’incipit della relazione illustrativa dell’AUP è stentoreo: «L’attuazione dell’assegno unico rappresenta per le politiche sociali provinciali una svolta che proietta il Trentino tra le realtà più avanzate non solo a livello nazionale ma anche europeo». Sfortunatamente, è anche sbagliato: non tanto per l’inopportuno overstatement, ma perché le cose non stanno così.

L’eredità delle misure precedenti include un fardello troppo gravoso. Perché non eliminare il tetto al trasferimento del Reddito di garanzia per nucleo familiare, tanto più nel quadro di un incremento della spesa sociale dell’ordine del 35%? Difficile trovare risposte convincenti, anche perché la storia della Provincia di Trento in tema di welfare induce a escludere il proposito di penalizzare le molte famiglie di immigrati, notoriamente più numerose.

Anche due scelte marcatamente innovative, poi, l’estensione dell’AUP1 tramite l’aggiunta della seconda linea di povertà e l’utilizzo della stravagante “Scala figli” per l’AUP2, non muovono nella direzione giusta. La prima non serve l’obiettivo dichiarato – il contrasto della trappola della povertà – e, semplicemente, beneficia i meno poveri fra i poveri. La seconda è davvero irragionevole. Restando alle congetture, si potrebbe azzardare che sia motivata dal proposito di estendere la spesa sociale ai ceti medi e medio-alti.

Una torsione dell’AUP in favore del ceto medio ci sarà per certo; resta da quantificarne l’entità. E per certo comporterà dei prezzi da pagare in termini di minore equità e, verosimilmente, anche di minore efficacia. Se l’AUP sarà un “cantiere aperto”, come ripetutamente affermato, sarà possibile apportarvi significativi miglioramenti, anche alla luce dell’esperienza del primo anno.

Si noti: ciò non significa negare che vi sia una “questione del ceto medio”. Tale questione esiste, ed è corposa. Ma non si può risolvere, in società avanzate, con politiche di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale. Occorrono strumenti diversi, in primis, politiche salariali e fiscali.

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