Il welfare aziendale e universale nel dibattito di oggi

Marco Leonardi, sostiene che il welfare aziendale non rischia di sostituire quello universale perché il premio fiscale è destinato solo in parte a premi convertiti in welfare e perché la spesa per welfare aziendale è minima rispetto a quella per il welfare universale. Leonardi, inoltre, non condivide la tesi che non bisognerebbe detassare il welfare aziendale perché avvantaggia i lavoratori con retribuzioni più alte e sostiene che tornare a un welfare unilaterale da parte delle aziende, in luogo di quello contrattato dai sindacati previsto dalle attuali norme, sarebbe un errore.

Se all’inizio del 2016 la norma che ristabilisce la detassazione dei premi di produttività e ne permette la conversione in welfare benefits esenti da tasse e contributi fu approvata anche dai sindacati, ora, anche in seguito al successo ottenuto dai contratti che prevedono piani di welfare benefits, sembra prevalere, segnatamente in CGIL, la posizione di chi si lamenta che il welfare aziendale starebbe sostituendo il welfare universale. Questo timore, a mio parere, è del tutto infondato per almeno due ragioni.

La prima ragione è che il premio fiscale è destinato, in primis, ai premi in denaro, e solo in parte a premi convertiti in welfare (pensioni o sanità integrativa e welfare benefits di vario tipo). Circa un miliardo di euro di denaro pubblico all’anno – a tanto ammonta lo stanziamento a regime per la detassazione dei premi – è destinato alle aziende che fanno contratti integrativi che prevedono premi di produttività variabili. La maggior parte di questi premi sono fruiti in denaro e solo 2 lavoratori su 5 (Welfare Index – 2017) sceglie di fruire del premio, totalmente o in parte, in forma di welfare. Si tratta comunque di circa 600.000 lavoratori (di solito quelli con retribuzioni maggiori e i più informati) su un totale di circa 3 milioni che hanno la contrattazione integrativa. Le aziende che prevedono programmi di welfare sono circa 5000 su un totale di 15000 contratti depositati nel 2017 (circa 1/3 del totale). Ricordo che per essere incentivato il welfare deve discendere da un contratto aziendale o territoriale firmato anche dai sindacati e che comunque è una libera scelta del singolo lavoratore quella di usufruire del premio in denaro o in welfare benefits. La maggior parte del welfare va in previdenza e sanità integrativa poi in servizi alla persona a rimborso e poi in altri servizi di intrattenimento (in una quota che può essere stimata a meno di un terzo del totale del welfare aziendale). La previdenza integrativa è troppo poco sviluppata e non c’è ragione di cancellare uno degli incentivi più potenti alla sua accumulazione. Il secondo pilastro pensionistico è quanto più necessario quanto più il primo pilastro a ripartizione incontra difficoltà insormontabili per via del declino demografico. Finora l’accumulazione della previdenza integrativa è stata del tutto insufficiente per il basso livello delle retribuzioni. Chiaramente le retribuzioni più alte contribuiscono di più nella previdenza complementare ma i premi di produttività e il welfare aziendale è diffuso anche sulle retribuzioni medie. Un premio medio di 1300 euro annui versato in previdenza complementare sarebbe da incentivare in ogni modo.

Se poi il timore della sostituzione del welfare aziendale con quello pubblico/universale è riferito alla sanità pubblica che verrebbe sostituita dalle mutue private, bisogna sottolineare anche qui che soltanto un numero minimo di lavoratori decide di convertire il premio in denaro in sanità integrativa ed il motivo è semplice: la sanità integrativa mutualistica non offre benefici proporzionali all’aumento della contribuzione. I fondi sanitari hanno bisogno di una riforma della gestione e dei controlli, le prestazioni dovrebbero essere riviste in modo che siano integrative e non sostitutive ma non si vede a priori l’opportunità di vietare l’opzione aggiuntiva di poter trasformare il premio in denaro in una assicurazione sanitaria il cui valore è di solito superiore al costo (visto che il vantaggio del welfare aziendale è di poter produrre economie di scala che riducono i costi). Anche tutti i servizi di conciliazione vita-lavoro (badante, babysitter, asili convenzionati) usufruiti a rimborso o con servizi convenzionati sono un fattore molto positivo. L’unico punto che andrebbe ridotto sono i beni/servizi di intrattenimento per i quali si vede meno la ragione di incentivare il consumo attraverso denaro pubblico.

La seconda ragione è che i numeri sul welfare aziendale, sebbene vi sia stato un grosso aumento dopo il 2015, sono tutt’ora molto inferiori rispetto a quelli della maggior parte dei paesi europei. Del resto, la spesa in Italia per il welfare aziendale è stata tradizionalmente più contenuta che negli altri paesi Ocse: solo 1,6% della spesa sociale secondo gli ultimi dati disponibili mentre in paesi caratterizzati tradizionalmente da un debole welfare pubblico (come ad esempio UK) la spesa per il welfare privato ha superato il 10%, in paesi con un consolidato welfare pubblico (Svezia, Francia e Germania), la spesa per il welfare privato si aggira tra il 4% e il 6% della spesa sociale (Rapporto secondo welfare, 2015). Ricordiamo che la spesa pubblica in pensioni si aggira sui 260 miliardi annui e quella in sanità sui 120, la spesa di circa 1 miliardo annuo per incentivare i premi di produttività in denaro (che solo in parte e per libera scelta del lavoratore possono essere trasformati in welfare) appare una spesa minima che è destinata solo in parte a fornire ai lavoratori un’opzione aggiuntiva di trasformare il premio in welfare. Da una parte il lavoratore è incentivato a scegliere welfare invece del premio in denaro (fino a 3000 euro annui sotto gli 80.000 di retribuzione annua lorda) perché in quel caso la tassazione è annullata invece della sostitutiva del 10% sul premio in denaro, dall’altra parte però la scelta del singolo lavoratore di convertire il denaro in welfare è limitata dal fatto che il welfare è totalmente decontribuito: il lavoratore guadagna sì il 10% di mancata tassazione, ma perde anche un pezzo di contribuzione ai fini pensionistici. Ci vuole più informazione in modo che i lavoratori siano consci della scelta, ma sarebbe sbagliato toglier loro l’opzione aggiuntiva del welfare.

Una questione diversa dalla sostituzione pubblico-privato è la valenza distributiva di questa norma. Si critica infatti l’allocazione di risorse pubbliche (la detassazione) a favore di lavoratori e aziende che pur hanno già salari superiori al contratto nazionale. La risposta a questa critica è però insita nella filosofia della norma: si premiano le imprese (e i loro lavoratori) più produttive e più efficienti perché si pensa che producano un’esternalità positiva per tutto il sistema paese. Per questa ragione l’incentivo è concesso solo in presenza di obiettivi annuali raggiunti e verificati attraverso criteri di misurazione molto stringenti e incrementali di anno in anno. Per di più si detassa il premio di produttività in denaro (che solo eventualmente può essere fruito in welfare), quindi se si prendesse sul serio la critica che questa norma aumenta la diseguaglianza bisognerebbe cancellare il favore fiscale anche per i premi di produttività in denaro perché sono in primis quelli che vanno alle imprese migliori. Le statistiche deludenti della produttività aggregata possono essere migliorate solo partendo dal basso. Invece di temere gli effetti redistributivi avrebbe più senso parlare della necessità di allargare la platea dei beneficiari, in modo che, in tutte quelle imprese che puntano a portare la propria produttività al di sopra dei contratti nazionali si possa distribuire tale “vantaggio” tra datori e lavoratori. In altre parole, la direzione giusta per sviluppare ulteriormente questa norma non è quella di alzare i limiti (3.000 euro di premio detassato procapite per chi guadagna meno di 80.000 euro lordi annui sono già limiti alti se consideriamo che solo il 4% delle dichiarazioni fiscali sono superiori a 80.000 euro annui e il premio medio di produttività sta sui 1.300 euro annui) ma quella di sviluppare la contrattazione territoriale e l’integrazione con i servizi di welfare locale in modo da ampliare il numero delle imprese e dei lavoratori che possono beneficiare della norma.

Se invece si volesse imporre ai lavoratori solo il premio in denaro e quindi cancellare la possibilità di fruirlo in welfare totalmente detassato (invece della tassa al 10% sul premio in denaro), ricordo che questo vorrebbe dire tornare alla situazione ante 2016 dove l’unico welfare detassato per i lavoratori era il welfare unilaterale.

Prima dell’avvento della norma del 2016, il welfare aziendale era per la maggior parte di natura unilaterale, in quanto solo un welfare inteso come “liberalità” era esente da tassazione per i lavoratori beneficiari; al contrario, il welfare stabilito nei contratti aziendali era tassato in capo al lavoratore e quindi non conveniente. Questo aveva portato al paradosso per cui i sindacati e i lavoratori preferivano il welfare unilaterale dell’azienda piuttosto che quello contrattato, e all’ingiustizia che solo le aziende grandi avevano il welfare aziendale. Infatti il welfare unilaterale era (ed è tuttora) soggetto ad un limite del 5 per mille del monte retributivo, vincolo eccessivamente stringente per gran parte delle piccole imprese per le quali il 5 per mille del costo del lavoro è una cifra irrisoria. Con questi limiti, solo le grandi imprese potevano permettersi di fare piani di welfare unilaterale dotandosi delle strutture legali che permettevano di districarsi tra le norme fiscali e allo stesso tempo sorvegliare la natura di “liberalità” del welfare e il principio generale di non-sostituibilità del salario monetario (tassato) con il welfare unilaterale (esente).

Con l’intervento nella legge di stabilità 2016, il welfare contrattuale è tornato ad essere conveniente per imprese e lavoratori in quanto è l’unico tipo di welfare sostituibile in luogo del premio di produttività monetario e, nei limiti previsti dalla legge (fino a 3.000 euro pro capite per tutti i lavoratori sotto gli 80 mila euro di reddito lordo annuo nel 2017), è totalmente esente sia per l’azienda che per i lavoratori.

Questa norma nacque con il preciso intento di coinvolgere il sindacato nelle scelte (anche dei piani di welfare) della contrattazione decentrata. Sarebbe un peccato tornare ad una situazione dove il welfare è inteso come erogazione esclusivamente liberale.

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