Il voto per le Regioni

Elementi di preoccupazione e qualche elemento di soddisfazione si intrecciano dopo il voto espresso dagli italiani per il governo delle regioni e di varie amministrazioni locali.

Gli elementi di preoccupazione sono in primo luogo legati alla caduta del tasso di partecipazione al voto. Caduta verificatasi non ostante la diretta discesa in campo del presidente del consiglio e il suo appello ad un plebiscito per la sua persona. I plebisciti non ci piacciono nè gli appelli a convertire il voto per il governo delle regioni in un referendum pro e contro un personaggio. Ma ci eravamo illusi che quegli appelli avrebbero spinto al voto sia a favore di chi li lanciava, sia contro. Il risultato è stata invece una discesa del 10 per cento dei votanti. A testimoniare, forse, che gli italiani non sono distanti dalla politica, ma certamente sono distanti, siano essi di destra o di centro o di sinistra, da questa politica e dalla sua verticalizzazione.

Gli italiani sono stati fin dal 1945 abituati a partecipare in gran numero alla politica e quindi alle elezioni. I partiti cosiddetti di massa, sia pur tra errori, avevano portato ad un elevato livello la socializzazione della politica e quindi a livelli sconosciuti in altri paesi occidentali la partecipazione al voto. E le leggi elettorali erano fatte e votate dal Parlamento – che la Costituzione pone al centro del nostro sistema politico – in modo tale da favorire al massimo questa partecipazione. Ogni cittadino aveva infatti la libertà di votare per il partito che preferiva e per il candidato che preferiva. Oggi, pur conservando nelle regionali, ma non nelle politiche, il diritto di esprimere una preferenza, di fatto l’elettore può votare solo pro o contro una coalizione. Si è detto, per giustificare la cancellazione delle preferenze, che queste portavano al “clientelismo”. E’ vero solo in parte. Ma a fronte di quel rischio – fronteggiabile – c’è il brutale aut aut che viene posto oggi dall’alto dei vertici agli elettori e c’è il venire meno dell’inevitabile controllo sull’operato di amministratori e parlamentari da parte dei cittadini. Conosco parlamentari che due decenni fa hanno perso il loro elettorato per avere usato macchine di Stato per loro faccende personali o per avere avuto comportamenti che i cittadini non considerano etici. E conosco parlamentari che sono stati a forza di popolo riproposti perché onesti e degni di rispetto. Qui c’è una colpa diffusa da riconoscere e c’è una netta modifica da introdurre non solo nel modo di votare ma nel modo di far politica.

Ho letto commenti in cui i risultati positivi della Lega Nord sono stati spiegati con il legame con il territorio. Vero. Ma che altro significa il legame con il territorio – non a caso la Lega ha creato sezioni di base non dissimili da quelle che erano una volta le sezioni  della DC o del PCI – se non, di nuovo un buon grado di socializzazione della politica? Socializzazione che potrebbe essere agevolata oggi – non sostituita – da reti informatiche operanti dal basso in alto e viceversa? Quanti parlamentari o consiglieri hanno un blog aperto ai commenti in cui dar conto ogni settimana del loro operato o dei loro voti in Aula? Ci sono certamente molte cose da fare per tornare a far crescere il numero dei votanti.

E’ da sperare che i partiti le facciano. La differenza del voto tra Torino e Roma e il resto delle rispettive regioni dice ancora di una sottovalutazione dei problemi delle campagne e di una lontananza dei partiti. La clamorosa sconfitta del ministro Brunetta nella capitale del Veneto “leghista” pone in luce la stessa differenza di comportamento. Anche di ciò va subito preso nota.

E veniamo alle soddisfazioni. Quella, innanzitutto, di una critica che dal voto è venuta al PDL che invece di occuparsi dei problemi della crisi, mentre cresce il numero dei disoccupati  – due milioni di disoccupati strutturali – e supera i trecento, secondo la Confcommercio, il numero delle imprese che chiudono ogni giorno in Italia, si occupa da mesi soltanto, o almeno in modo prevalente, dei problemi con la giustizia facendo di essi il centro di ogni comunicazione del premier, venga essa da Bari o da Damasco o da Milano. La critica si è tradotta sul piano nazionale in un calo del partito di Berlusconi di oltre il 5 per cento, a fronte di una coalizione di centro-sinistra che tiene, grazie all’IDV e a Niky Vendola, e di una Lega in forte ascesa. C’è chi, ignorando che Lega e PDL non sono la stessa cosa nega che il voto abbia espresso questa critica.

Ne ha pieno diritto. Ma abbiamo anche noi il diritto di ricordare che la Lega, nel bene e nel male, non si identifica con Berlusconi. E’ la Lega come tale, non Berlusconi, che per un pugno di voti e grazie alla lista di disturbo contro la sinistra e specificamente contro il PD presentata da Beppe Grillo in Piemonte (nella sua Liguria il gioco non gli è riuscito) ha sconfitto Mercedes Bresso: l’aut aut delle coalizioni vale sia per chi vota sia per chi si candida. Ed è la Lega che ha fatto avanzare il carro del centro destra non ostante l’arretramento del PDL. Come la Lega si comporterà è difficile oggi prevederlo e certamente rischi ce ne sono non solo per il Sud. Resta tuttavia il fatto, già notato, della minor verticalizzazione del partito leghista e cioè di un maggior ascolto della base. Se ciò indurrà altri partiti a raccogliere la sfida sul territorio i risultati potranno essere non negativi. Bossi si è già mosso, candidandosi a sindaco di Milano.

 

                                                              l.b.

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