Il ventre molle del Paese, manodopera illegale: lettera di un imprenditore del Nordest

Dal punto di vista di un piccolo imprenditore nordestino quale sono, i tre vocaboli di origine greca (politica, etica ed economia) possono apparire quasi sinonimi, quasi fossero una sola, importante parola, e credo che dal punto di vista imprenditoriale dovrebbero esserlo. Faccio l’imprenditore da più di un quarto di secolo, sempre nella stessa azienda di cui sono uno dei fondatori, e non mi serve molto tempo per rendermi conto che il settore “scelto” era tra quelli più difficili nel contesto di quegli anni. Il settore era per me in qualche modo obbligato, visto che per iniziare l’attività servivano pochi macchinari e quindi pochi investimenti, il resto era la manodopera, perlopiù fornita in regime di autosfruttamento.
Al mio debutto, nella seconda metà degli anni ’80 le aziende produttrici del mobile nate dagli anni ’70 nel nordest italiano, stavano iniziando a capire che non bastava più produrre dei beni per venderli ovunque senza discutere molto sul prezzo e fare molti utili, quegli stessi utili che per quantità e facilità di realizzo quasi trasmettevano sentimenti di onnipotenza. Infatti dopo le continue spinte al rialzo date dall’espansione del mercato interno e all’allargamento degli scambi ai paesi europei e mediorientali, la situazione stava velocemente cambiando. Complici l’abbattimento di barriere internazionali e il miglioramento della logistica legata al flusso delle merci, per gli acquirenti (dettaglianti o importatori e distributori delle merci) si determinò l’ampliamento del parco dei fornitori, aumentando di conseguenza la competizione e la concorrenza internazionale, innescando la naturale parabola discendente degli utili aziendali.

Oggi l’azienda che dirigo, nonostante la corrente contraria e le nubi che la sovrastano, resiste ancora, e il costo della manodopera sull’imbottito, risulta ancora una variabile determinante per la competitività dei nostri prodotti sul mercato, nazionale o internazionale che sia. Le possibilità di espansione date dalla nostra reputazione positiva creata nel tempo ci sarebbero, ma paradossalmente alla crisi in atto, anche negli ultimi mesi abbiamo rinunciato a nuovi contratti che in termini di volume d’affari varrebbero da soli almeno un 30% del nostro fatturato 2010. Quest’ultima rinuncia ha alimentato la riflessione che da tempo rimbalza nella mia testa, e che ora provo a descrivere.

Il problema è che per portare a casa quel nuovo lavoro, quei nuovi appalti, con un prezzo attraente per i nostri interlocutori e con una redditività sufficiente alla vita dell’azienda, avrebbe significato contribuire al sistematico smantellamento del nostro tessuto produttivo locale, utilizzando manodopera a BASSISSIMO costo, reperibile ovunque con grande facilità.
Certo, in qualche modo siamo comunque coinvolti nel processo, che in maniera ambigua si sta integrando (si è già integrato) nella nostra vita comune e nei processi produttivi, a dimostrazione della velocità con la quale gli esseri umani tendono ad abituarsi alle situazioni desuete e a integrarle nella consuetudine. In modo particolare, queste ”consuetudini” fioriscono nei settori dove l’incidenza del costo della manodopera mantiene livelli determinanti. Quindi posso affermare che certamente già oggi il costo finale di molti articoli che produciamo è inquinato da costi di manodopera “sospetti”.
Il tasso di “penetrazione” di questi inquinamenti, per quanto mi è dato a conoscere, è per ora inversamente proporzionale alla fascia di mercato di destinazione del prodotto, quindi nel caso degli imbottiti per la casa, o dell’ufficio, più basso è il prezzo finale del prodotto, più alto è il tasso di utilizzo di manodopera a “basso costo”. Quest’ultima affermazione è legata anche al fatto che il livello di finitura richiesto nei prodotti di livello più basso è minore, ma sono altresì consapevole che la grande manualità di cui sono dotate le  genti asatiche, legata alla proverbiale meticolosità che le contraddistingue e all’accuratezza con la quale eseguono i compiti, le porterà comunque a breve ad allargare gli attuali confini fino ai livelli più elevati delle finiture.

Una delle parti più subdole della questione è che data la crisi economica in atto e la drastica diminuzione del volume d’affari delle aziende e la conseguente riduzione del personale, porta a quasi “giustificare” la cosa come utile strumento per combattere l’inflazione e la concorrenza dei paesi emergenti, incombenza questa che invece di essere sulle spalle di poveri disgraziati in cerca di fortuna, sarebbe di pertinenza della nostra amata classe politica.
In linea di massima gli imprenditori, soprattutto nei settori ove gli utili sono più compressi, (e quindi a grande incidenza di manodopera) hanno la consapevolezza della presenza della manodopera a “basso costo”, e la connessione che lega la stessa, utilizzata come coadiuvante alla possibilità di rimanere sul mercato, è evidente. Certamente esisteranno anche degli imprenditori che utilizzano questi “produttori di manodopera a basso costo” per fare delle mere speculazioni, ma sono altrettanto certo che nella stragrande maggioranza dei casi utilizzano il differenziale per sopravvivere, dal punto di vista imprenditoriale, cercando di mantenere attive delle aziende che, semplicemente guardando la realtà dei fatti, dovrebbero chiudere.

ll problema è attuale e reale, riguarda certamente il presente e in maniera più importante il futuro prossimo , ma la questione è:
Di chi è la responsabilità di prevenire nel limite del possibile i problemi che riguardano la struttura della nostra società?
Di chi è la responsabilità di fare rispettare le leggi e le regole dello Stato?
Francamente, credo non possa essere dell’imprenditore, o quantomeno debba essere dell’imprenditore solo, quello che sarebbe il mio desiderio come imprenditore sarebbe potermi confrontare ad armi pari con la concorrenza in generale, italiana o straniera che sia.

Per cui, chi è preposto a farlo, cioè la nostra classe politica dirigente, dovrebbe aprire gli occhi e non far finta di non vedere le luci accese di notte nei capannoni o nelle sedi delle aziende, micro o macro che siano, e quindi di far indagare, facendo appostamenti e chiedendo i DM10, i moduli Inps che attestano la quantità di personale che paga regolari contributi nelle aziende, e pure in che modo li pagano.

Se non ci fosse una legge (che spero esista) o degli strumenti per impedire il lavoro illegale, forse bisognerebbe produrli, vista la rilevanza dell’argomento, di interesse nazionale molte volte superiore a quelle leggi o decreti che penosamente si sentono quotidianamente in procinto di approvazione nei giornali o in tv, palesemente dimostranti che l’attenzione è più rivolta a cercare di appianare/spianare tensioni a livello istituzionale, che al benessere della società italiana, alla quale i nostri politici dovrebbero essere votati. Invece per non smentirsi, la nostra classe politica, non importa di quale colore, mi ha costretto nella fine dell’anno scorso a compilare dei formulari e delle attestazioni, dove devo determinare il grado di stress dei miei dipendenti (D.lgs 81/08), e naturalmente pagare chi si occupa delle relative pratiche e marche da bollo a espletamento del caso.

Purtroppo poi, senza fare della facile dietrologia, in assenza di cambiamenti importanti (fare rispettare la legge) alla situazione in essere, non è difficile immaginare uno scenario che prospetti a breve periodo (5 anni) la pressochè completa desertificazione del nostro tessuto produttivo “legale” legato al manifatturiero, e la certa prosperazione dell’”imprenditoria” che utilizza “allegri” metodi di riduzione dei costi. Scenario questo che lascerebbe a termine questa fetta di produttività italiana in regime di assoluto monopolio, libera di imporre prezzi a quel punto non vincolati da desideri di acquisizione del mercato.

Ora vorrei delle risposte, vorrei che qualcuno magari di serio e degno di fiducia, mi dicesse:
“ok, ora ce ne occupiamo, noi, ristabiliremo la legalità e le regole”, oppure “rassegnati, le cose non cambieranno mai, fai al meglio che puoi e pensa per te, decidi in coscienza” o ancora: “sì, porta a casa tutto quello che puoi, fallo produrre a quelli, poco importa se vivono in fabbrica e sono in regime di semischiavitù, loro stessi lo vogliono, se puoi guadagnarci sopra fallo, tanto se non lo fai tu lo farà un’altro, la morale l’etica sono solo delle belle parole”.

Quest’ultima poi, mi ricorda “Tra demonio e santità”, di Fortis, chissà perché…

“si’ e’ cosi’ che devi fare,
che morisse era destino
ma dimmi un po’, papa’ demonio,
ma non sara’ che e’ un po’ meschino
ho sprecato tempo e amori
con la scusa di pensare
“ma figliolo, vai a donne,
vai a bere, va a mangiare”

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