Il Vecchio e il Nuovo

L’anno passato Silvio Berlusconi, presidente del gruppo Mediaset e di altre società, risultato vincitore delle elezioni politiche, è stato rieletto presidente del Consiglio. Questa volta, salute permettendo, sembra poter restare al governo per un’intera legislatura.

Grandi dibattiti hanno seguito il successo elettorale di Forza Italia. Come mai un magnate televisivo, con nessuna esperienza politica alle spalle, è riuscito a tirare su dal nulla un partito politico e vincere per ben due volte le elezioni?

Le risposte di politologi e osservatori di formazione varia (non simpatizzanti) riposano da un lato sull’evidenza che Berlusconi ha potuto manovrare a suo piacimento almeno metà del sistema televisivo italiano, dall’altro sul ‘populismo’ del suo messaggio politico.

Altre spiegazioni, forse più raffinate, arrivano dall’Esagono. Lo storico francese Max Gallo, biografo e agiografo dei grandi statisti d’Oltralpe, ha osservato che l’Italia ha anticipato tutti i grandi sommovimenti politici europei del Novecento. E’ stata la prima a subire il fascino della risposta fascista di Mussolini alla crisi democratica; la prima a giovarsi dell’ondata della contestazione giovanile negli anni Sessanta; la prima, appunto con Berlusconi, ad accogliere il ritorno del populismo.

Personalmente, arriverei a dare un significato ancora più forte all’elezione di Berlusconi. Arriverei a dire che la sua elezione rivela una ‘rottura’ nella storia italiana, una rottura che si colloca a cavallo dell’eterno conflitto fra il vecchio e il nuovo, fra modernità e ‘medioevo’.

Innumerevoli studiosi hanno interpretato la storia dell’Italia Unita come un eterno inseguimento della modernità. Inseguimento che si tradurrebbe in un tentativo di emulazione degli altri paesi dell’Europa occidentale, quando non degli Stati Uniti.

Luigi Salvatorelli, in quello che è considerato il suo saggio storico più influente, ha descritto lo stesso Risorgimento, l’episodio storico alle radici della nostra Italia, come: “ricongiungimento d’Italia al moto generale della civiltà europea, all’indirizzo generale della vita politico-sociale europea”. In sostanza, la nostra patria si fonderebbe sull’esempio tracciato dalle altre nazioni europee.

Ma l’idea di un’Italia che insegue incessantemente la modernità non riguarda solamente le sue istituzioni politiche, ma anche la cultura. In un recente articolo pubblicato dal Sole24Ore, il critico Alfonso Berardinelli ha mosso un atto d’accusa al romanzo italiano: “la nostra società moderna è stata poco dinamica, non ha creduto negli individui. E quindi la narrativa italiana ha prodotto in prevalenza anti-personaggi inetti, pigri, disperatamente contemplativi e sempre sul punto di annegare nell’irrealtà”. Anche qui l’Italia segnerebbe il passo rispetto agli altri paesi.

Personalmente sono convinto che la vittoria di Berlusconi, dopo una decina d’anni di predicazioni del centro-sinistra sulla necessità di ‘non perdere il treno dell’Europa’, ‘entrare nell’euro’ e, ancora, di ‘risanamento delle finanze’, derivi da una presa di coscienza indiretta che ormai l’Italia fa parte dell’Europa occidentale: un paese “moderno e normale”. Se mai il termine modernità ha un senso e se ha un senso quello di normalità.

L’Italia è di fatto da tempo un paese al passo con l’Europa perché la sua ricchezza per abitante è più alta di quella francese, perché inflazione e spesa sociale sono comparabili a quelle degli altri paesi Ue, perché non è più un paese di emigrazione ma di immigrazione, perché la vita media degli abitanti è fra le più alte del mondo, perché il settore dei servizi ha superato quello dell’agricoltura e dell’industria. La vittoria di Berlusconi è il sintomo che la necessità di aggrapparsi all’Europa come una scialuppa non è stata e non è più sentita dall’elettorato come valida e che come slogan quello caro a certa sinistra di ‘non perdere il treno dell’Europa’ non è più di quelli vincenti.

Se è vero quanto detto sopra, non ha più significato usare le categorie di vecchio e nuovo nel senso che vecchio è ciò che ci allontana dall’Europa mentre nuovo è ciò che avvicina ad essa. Vecchio e nuovo devono diventare ( di fatto sono già diventate) due categorie ‘europee’ e non termini di confronto fra le nazioni.

All’avvicinamento fra le condizioni economiche e le dinamiche sociali interne ai paesi europei mi pare abbia dato una spinta decisiva l’integrazione europea, non solo con la creazione di un mercato unico, ma anche con le crescenti possibilità offerte ai cittadini di spostarsi fra le nazioni, progettare insieme e studiare nelle diverse università.

Ma cosa c’è di nuovo sul palcoscenico della politica europea?

Sul piano politico, mi sembra che il tentativo più coerente , anche se non nuovo nell’Inghilterra della Thatcher, di superare i programmi e le ideologie dell’Europa pre-caduta del muro di Berlino sia quello di Tony Blair e del suo mentore, direttore della London School of Economics, Anthony Giddens. La loro idea è che la difesa da parte della Sinistra della protezione sociale offerta dallo Stato sia una battaglia persa in partenza, latrice di inefficienza e spreco. Piuttosto bisognerebbe fare di tutto per incentivare attivismo sociale ed economico da parte dei privati: attivismo sociale, attraverso uno stimolo all’immigrazione e all’integrazione, attivismo economico, grosso modo con una diminuzione delle tasse ed un affinamento delle possibilità offerte dalla formazione ‘durante tutto l’arco della vita’. Nel mondo di Blair tutta una serie di garanzie sociali, come i sussidi di disoccupazione o le pensioni, diventerebbero inutili perché ci sarebbe sempre richiesta di lavoro, capacità di offrirne qualificato, espansione economica favorita dagli investimenti. Nel mondo ipotizzato da Blair, lo Stato si ritirerebbe nel suo ruolo di tutela della sicurezza pubblica. I Laburisti britannici chiudono dunque il cerchio di una storia che da fautori dell’interventismo totale dello Stato nell’economia li ha portati a teorizzarne la scomparsa (salvo poi cercare di salvare il sistema sanitario nazionale –NHS- con un gigantesco piano di spesa pubblica). La novità del New Labour risiede nel fatto che, per la prima volta dal Dopoguerra, un partito della Sinistra non vede nello Stato la risoluzione del problema della giustizia sociale.

Se l’approccio di Blair è nuovo, non è certo che possa venire qualificato come moderno per l’Europa occidentale, e non piuttosto come il ritorno alla concezione Ottocentesca del primato della creatività e dell’iniziativa individuale sull’azione collettiva.

Mentre il New Labour di Blair, pur attraente per alcuni leader della sinistra europea, rimane un fenomeno essenzialmente nazionale, ci sono crescenti indizi di movimenti politici che aspirano ad assumere una dimensione organizzativa europea. L’esempio più clamoroso è quello dei Verdi. Nel 2004 terranno a Roma una Convenzione per fondare un unico gruppo europeo che spingerà il suo candidato, il francese Daniel Cohn Bendit, alla presidenza della Commissione europea. Il tentativo è quello di fare dello sviluppo sostenibile, della difesa delle risorse naturali e dei sapori del cibo, nonché del nostro patrimonio genetico, un programma politico europeo alla base di un’organizzazione unitaria.

Un simile progetto, di creare cioè una struttura partitica sovranazionale, è stato avanzato anche dal leader populista austriaco Haider. Ma è dubbio che i vari movimenti populisti che di recente vanno prendendo piede, come quello di Le Pen in Francia o del compianto Fortuyn in Olanda, possano superare il loro radicamento nazionale e coordinarsi a livello europeo. Tanto più che gran parte del loro successo si basa sulla figura di un leader e non su un programma elettorale.

Al livello istituzionale, che riguarda le istituzioni comunitarie, la novità è il tentativo di costituzionalizzare l’Unione europea e, nello stesso tempo, rafforzarne l’autorità centrale. Il lavoro è per superare il ‘Community method’ che pure attraverso l’interazione fra Commissione, Parlamento e Consiglio ha prodotto una crescente integrazione economica e una costante espansione delle competenze di Bruxelles. Per molti leader europei è finalmente giunto il momento di stabilire in via definitiva quali siano le competenze dell’Unione europea e quali quelle degli stati membri. Si vanno delineando, negli ultimi giorni, due diverse proposte.

La prima, avanzata da Tony Blair e appoggiata dal neo rieletto presidente francese Chirac, è in sostanza un ritorno del metodo ‘intergovernativo’. Verrebbe creata, tra il 2005 ed il 2006, la figura del presidente del Consiglio europeo con competenze in materia di politica estera e di difesa. Questi verrebbe scelto fra gli ex capi di Stato e di Governo e resterebbe in carica per cinque anni.

Nella proposta rimangono molti punti oscuri tra i quali la relazione fra il ‘presidente dell’Europa’ e il presidente della Commissione europea, il rapporto con il Parlamento europeo, come verrebbe modificata la rotazione semestrale della presidenza del Consiglio dei ministri. Ma questi sono aspetti tecnici. Quel che conta nel progetto Blair è la coerenza fra il disegno nazionale e quello europeo: i laburisti vorrebbero un’Europa in cui lo Stato, le istituzioni europee, si concentrino sulla sicurezza e sulla capacità di offrire pari opportunità a tutti evitando discriminazioni di ogni genere e, allo stesso tempo, si allontanino dal legiferare in ambito sociale ed economico.

L’altra soluzione che sembra emergere, sotto il pressante stimolo teorico dell’allargamento, è quella di un’Europa alla stesso tempo più federale e più decentralizzata.

Nel rapporto che dovrebbe essere reso noto a breve da Romano Prodi si guarda con una certa simpatia all’idea di un presidente del Consiglio europeo che potrebbe coincidere con il capo dell’esecutivo di Bruxelles. Il Parlamento europeo resterebbe l’organo che garantisce la legittimità democratica all’esecutivo, mentre le competenze dell’Unione verrebbero iscritte, una volta per tutte, in una Costituzione europea. In questo schema c’è spazio anche per la rinazionalizzazione di alcune competenze (vedi Politica agricola comune) e per lo sviluppo di tutti i vari livelli di governo decentrato, comprese regioni e comuni.

Secondo Prodi i cardini del potere del nuovo esecutivo europeo dovrebbero riguardare la politica estera e della sicurezza, nonché il coordinamento delle politiche economiche, il cosiddetto ‘governo dell’economia’.

Ci sono dunque molte novità sia nel tentativo di organizzare i movimenti politici europei che nel tentativo di riorganizzare le istituzioni comunitarie. Sono novità, ma queste novità costituiscono anche un passo verso la modernità?

Purtroppo l’era della modernità è finita con la fine delle grandi correnti del pensiero politico e ci troviamo nell’era della sperimentazione. La modernità si tende ad identificarla con i cambiamenti economici e sociali, la crescita economica viene perseguita con sperimentazioni sul breve termine. Il dibattito sull’integrazione europea potrebbe essere uno stimolo a riaffrontare il dibattito sulla modernità.

Le potenzialità del progetto Unione europea sono enormi. Per afferrarle bisognerebbe però liberarsi dagli schemi legati al concetto di stato-nazione e della politica estera come braccio di ferro militare. Potrebbe forse essere d’aiuto il concetto, ora molto utilizzato, di civil power. L’Europa ha una capacità d’influenza basata più sull’attrattiva del proprio modello organizzativo che sull’imponenza del proprio arsenale militare. In fondo, il concetto di potenza civile è una riproposizione, nello schema dei rapporti fra le nazioni, di quanto è avvenuto nella società umana. Ci siamo allontanati da una società in cui il più influente era l’uomo più forte e muscoloso, per arrivare ad una società in cui il più influente è chi usa al meglio intelligenza e, forse, cultura.

Ma, per svolgere appieno il suo ruolo di potenza civile e costituire un modello da imitare, l’Europa deve anzitutto definire all’interno il suo modello sociale. La Convenzione europea, guidata da Giscard d’Estaing, sembra focalizzata sull’elaborazione di una struttura istituzionale che possa sostenere l’impatto dell’allargamento. Non esiste un vero e proprio dibattito politico europeo che possa contribuire a definire un modello di società in Europa. D’altronde questioni di importanza capitale come la liberalizzazione dei servizi pubblici, il sistema educativo, la previdenza, la regolamentazione del lavoro, non possono venir patteggiati in due giorni dalle diplomazie e dei capi di Stato e di Governo in occasione dei consigli europei.

Può dunque tornare utile una delle più interessanti idee emerse dal Forum di Porto Alegre. E’ stato deciso che il prossimo forum mondiale sarà preceduto da forum regionali. L’Europa ha i suoi di problemi sociali, e il Forum sociale europeo che si terrà quest’autunno in Italia potrebbe contribuire a evidenziarli rilanciando l’Europa del civil power.

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