Il terzo settore: un oggetto ricomposto o disperso?

Nereo Zamaro riflette sulle recenti norme relative al terzo settore e ricorda, in particolare, che il Registro Unico permetterà di ordinare una massa di informazioni ora disperse e di aggiungervi quelle riguardanti le organizzazioni che potranno essere qualificate come ‘enti di terzo settore’. Zamaro richiama, però, l’attenzione su un problema: la non coerenza tra i criteri utilizzati nei registri statistici e quelli indicati nella nuova normativa per identificare le istituzioni non profit che rischia di condurre a informazioni e analisi confuse.

Secondo alcuni osservatori le recenti norme sul terzo settore avrebbero finalmente messo ordine e definito in modo chiaro il settore, individuando le organizzazioni che hanno titolo ad essere incluse nei suoi confini istituzionalizzati. Costoro ritengono che la sistematizzazione normativa porterà benefici indubbi alle organizzazioni che saranno riconosciute come appartenenti al settore. In particolare, i benefici deriveranno dalla chiarezza con cui i cosiddetti stakeholder delle organizzazioni potranno individuare le organizzazioni di terzo settore, vedere che cosa fanno, per chi lo fanno e quali vantaggi ne traggono coloro che con esse hanno a che fare. Chi sono gli stakeholder di cui si parla? La gamma è ben diversificata. Sono le popolazioni delle comunità in cui queste organizzazioni sono attive, i lavoratori che in esse lavorano, i volontari che ad esse contribuiscono con le loro prestazioni gratuite, i soci-azionisti e i finanziatori esterni, ma anche gli altri attori istituzionali con i quali potrebbero entrare in contatto o addirittura collaborare: amministrazioni pubbliche, imprese private for profit, altre istituzioni non profit, localizzate sia in Italia sia altrove.

Al momento attuale non è possibile una valutazione empirica dei benefici del riordino. Il Registro unico ancora non è entrato in funzione e dunque non è dato sapere come di fatto sarà impostato e quali effetti durevoli le modalità della sua gestione produrranno sul processo stesso di selezione, inclusione o esclusione delle organizzazioni che richiederanno di essere riconosciute come appartenenti al terzo settore. Dunque, ogni valutazione rigorosa degli effetti reali dei dispositivi normativi adottati deve essere rimandata.

Una valutazione preliminare e, se si vuole, ex-ante può essere svolta ricorrendo alla definizione statistica di istituzione non profit e alle informazioni che, ad oggi, possono essere rilevate nei registri statistici ufficiali. E’ una valutazione che può mettere a fuoco il perimetro del settore delle istituzioni non profit e la sua composizione interna. Per implicazione, queste considerazioni possono farci capire in che misura il terzo settore, definito secondo la legge 106 del 2016 (Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale) e i decreti attuativi che in coerenza con essa sono stati emanati successivamente, si sovrappone o meno con il settore delle istituzioni non profit identificato ai fini delle misurazioni statistiche ufficiali.

Perché è interessante sviluppare questo confronto? L’idea è che se le due popolazioni, quella che sarà definita nel Registro unico (di cui al decreto legislativo n. 117 del 2017, Codice del terzo settore) e quella che sarà definita nei registri statistici ufficiali, risultassero interamente sovrapponibili le statistiche di base che si produrranno, le analisi tecniche che grazie ad esse si potranno elaborare e, infine, la comunicazione e la discussione pubblica che seguiranno ne trarrebbero un beneficio, sarebbero più pertinenti e chiare e anche le conclusioni dipendenti dalle statistiche usate risulterebbero meno controverse. Un risultato, questo ultimo, non trascurabile se il tema di cui ci si occupa è costantemente esposto a diatribe di tenore ideologico, ad alimentare le quali – se è vero che i dati usati a favore o contro una qualsiasi posizione contano poco – i “dati mutevoli”, come li chiama Joel Best, probabilmente contribuiranno non poco.

Consideriamo alcuni dati di fatto. Nell’articolo pubblicato sullo scorso numero del Menabò ho sostenuto che il settore non profit italiano è di fatto eterogeneo (sotto il profilo strutturale) e polarizzato (sotto il profilo comportamentale e, si può ipotizzare, anche delle culture civiche alle quali le sue diverse componenti sembrano fare riferimento).

In linea generale, da una partesi collocano le istituzioni non profit più robuste sotto il profilo economico-aziendale, si tratta di organizzazioni labour-intensive che si alimentano in prevalenza con risorse rese disponibili dalle amministrazioni pubbliche ed erogano servizi, soprattutto in campo socio assistenziale e sanitario, disciplinati da norme e regolamenti amministrativi sempre più stringenti. Dall’altra, si collocano le organizzazioni più minuscole, economicamente molto fragili, sostenute soprattutto dall’opera gratuita dei volontari e che si occupano prevalentemente di cultura, sport e altre attività legate al tempo libero. Le prime sono organizzazioni che, come si dice, operano sul mercato e sopravvivono grazie ai beni e ai servizi che riescono a vendere, le seconde rimangono ai margini o, meglio, si collocano al di fuori del mercato e si sostengono in larga misura grazie alle contribuzioni dei soci.

Come riuscirà il Registro unico ad assorbire, a ricomporre in un’unica cornice istituzionale una realtà così eterogenea? Probabilmente non potrà farlo, per diverse ragioni. Alcuni tipi di istituzioni sono state esplicitamente escluse (mi riferisco non solo ai partiti politici, alle organizzazioni sindacali, sia dei lavoratori sia datoriali, ai comitati, ma anche alle associazioni sportive che non assumono la qualifica di impresa sociale o di associazione di promozione sociale, ad altre associazioni e fondazioni che non svolgono attività di “interesse generale) come anche alle associazioni con volontari con meno di 7 soci (o meno di tre organizzazioni se appartenenti a reti di organizzazioni). Non si deve dimenticare, inoltre, che come in passato alcune associazioni non richiederanno, per le più svariate ragioni, la iscrizione al Registro; mentre da altri tipi di organizzazione potrà venire una forte richiesta. E’ il caso delle organizzazioni che assumeranno la qualifica di impresa sociale: un tipo di organizzazione che già in passato era stato istituzionalizzato senza troppo successo, secondo molti a causa del divieto di distribuzione dei profitti.

Nella versione attuale, invece, indipendentemente dalla forma giuridica di cui una organizzazione si dota, potranno essere riconosciute come imprese sociali tutte le organizzazioni che ne faranno richiesta purché perseguano, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, ovvero orientate, con una formula sintetica, al raggiungimento del “bene comune”. Le imprese sociali potranno perseguire queste finalità dotandosi di una struttura di natura imprenditoriale.

Un punto delicato riguarda la possibilità perle imprese sociali di distribuire gli utili. Il decreto legislativo n. 112 del 2017 (Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell’articolo 2, comma 2, lettera c) della legge 6 giugno 2016, n. 106.) disciplina l’assenza dello scopo di lucro all’articolo 3 comma 1, precisando che “l’impresa sociale destina eventuali utili ed avanzi   di   gestione   allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio”; inoltre, al comma 2, indica che “è vietata la distribuzione, anche indiretta, di utili ed avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominati,   a   fondatori,   soci   o   associati,   lavoratori   e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli   organi sociali, anche nel caso di recesso o di qualsiasi altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto”. Per concludere così: “Nelle   imprese   sociali costituite nelle forme di cui al libro V del codice civile è ammesso il rimborso al socio del capitale effettivamente   versato   ed eventualmente rivalutato.”

Sotto il profilo pratico gli utili che un socio potrà richiedere, tenuto conto del capitale di fatto versato, saranno commisurabili all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi incrementati di due punti e mezzo. In generale, si tratta di un dispositivo che mira a promuovere più di quanto fosse capitato nel caso delle imprese sociali disciplinate secondo il decreto legislativo n. 155 del 2006, (Disciplina dell’impresa sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n. 118), il flusso di quei capitali che qualcuno definisce anche “pazienti”, attribuendo al capitale un tratto tipico degli esseri umani, per effetto del quale questo tipo di organizzazioni potrebbero diffondersi in misura rilevante.

Tuttavia, sotto il profilo statistico l’aver rilassato il vincolo della non distribuzione degli utili potrebbe produrre un effetto indesiderato. Come è noto le istituzioni non profit per la statistica ufficiale sono quelle unità istituzionali che in virtù del loro status non possono distribuire gli utili che realizzano a coloro che le posseggono, le controllano o le finanziano.

In passato un problema analogo era stato sollevato per le cooperative sociali. Tuttavia in quel caso, oltre la norma istitutiva (legge 381 del 1981, Disciplina delle cooperative sociali), a favore della loro inclusione, ai fini della statistica ufficiale, tra le istituzioni non profit deponeva quanto stabilito nel 1997 nel decreto legislativo n. 460 (Decreto legislativo sulla disciplina Tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS)) . Infatti, all’articolo 10 comma 8 ,il decreto stabiliva che “Sono in ogni caso considerate ONLUS, nel rispetto della loro struttura e della loro finalità, gli organismi di volontariato di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266 iscritti nei registri istituiti dalle regioni e dalle province autonome di Trento e Bolzano, le organizzazioni non governative riconosciute idonee ai sensi della legge 26 febbraio 1987, n. 49 e le cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381.”

A parte questo caso – che, per quanto rilevante, è particolare e attiene l’identità statistica delle imprese sociali per come sono state definite nella norma di riferimento – le unità del Registro unico non si sovrapporranno se non parzialmente a quelle del registro statistico.

Illustro alcuni elementi di divergenza ricorrendo allo schema che segue. Si assuma che il mondo delle istituzioni civiche e/o sociali è formato sia da strutture allo stato nascente, raramente formalizzate, con un seguito e una capacità operativa relativamente instabili, sia da organizzazioni più stabili, i cui associati hanno deciso di costituirsi in una qualche forma riconosciuta giuridicamente. In questo caso, la rappresentazione del primo insieme di quasi-organizzazioni sfugge in gran parte alla osservazione e dunque alla misurazione statistica, mentre il secondo insieme è osservabile e più agevolmente misurabile. Rispetto a questo secondo insieme si può immaginare che alcune istituzioni risultano già iscritte in qualche registro “speciale” istituito prima della riforma, ovvero opteranno e riusciranno a essere iscritte nel Registro unico mentre altre, pur potendo, non faranno richiesta e rimarranno escluse; assieme a loro, come ho già sottolineato, un terzo gruppo di istituzioni non profit – per effetto di alcuni elementi strutturali che le caratterizzano e le rendono almeno in parte incompatibili con l’inclusione – non riceveranno il riconoscimento di ente del terzo settore, pur rimanendo eleggibili per l’inclusione nel settore delle istituzioni non profit ai fini della misurazione statistica ufficiale.

Quanto può essere rilevante, numericamente, questa divergenza? Difficile stabilirlo con precisione sulla base delle sole informazioni oggi disponibili. Secondo alcune stime prudenziali, il gruppo delle istituzioni non profit che potrebbero essere riconosciute ai fini del Registro unico sono poco più di 65 mila; le organizzazioni del secondo gruppo sono circa 130 mila; le unità residuali poco meno di 150 mila. Si tratta, dunque, di divergenze di notevole consistenza e tali da consigliare estrema prudenza nell’usare, in futuro, le sole informazioni del Registro unico per “rappresentare” il settore attivo in Italia. Il rischio sarebbe non soltanto quello di lasciarsi sfuggire il vasto mondo del civismo allo stato nascente, ma anche quello di sotto-rappresentare sistematicamente il mondo più consolidato delle non profit.

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