Il terzo settore come soggetto politico: riflessioni (anche) alla luce dell’emergenza corona virus

Anna Lisa Mandorino, partendo dal ruolo insostituibile delle organizzazioni del terzo settore anche nella emergenza attuale, riflette su alcuni limiti della cosiddetta riforma del Terzo Settore. Dopo aver ricordato che essa procede a rilento per l’imposizione di vincoli formali, Mandorino sostiene che il suo vizio più grande è la sottovalutazione del ruolo della cittadinanza attiva quale soggetto politico, protagonista della ricerca dell’interesse generale e capace di indirizzare le politiche pubbliche e persino le correlative riforme del sistema politico.

Quelli in cui scriviamo, per le organizzazioni di terzo settore, sono giorni pieni tanto di apprensione quanto di volontà irriducibile di contrastare la condizione di emergenza in cui siamo. Il loro agire, pur con la sua – forse fisiologica – connotazione “molecolare”, declinandosi nelle tre direttrici della tutela dei diritti, della cura dei beni comuni, della lotta per il superamento delle disuguaglianze, si sta rivelando come di consueto fondamentale soprattutto a sostegno dei soggetti più fragili. Se questo è intuitivo per quanto riguarda il fronte dei servizi che gli enti di terzo settore erogano in modo sussidiario, non può sfuggire quanto rilevante si stia rivelando il ruolo delle organizzazioni di impegno civico anche nell’intervento diretto, vale a dire nelle attività messe in campo autonomamente per ovviare a quello che manca, nell’advocacy verso le istituzioni e, con un ruolo di governance dei processi, nel facilitare la messa in rete di soggetti che, altrimenti, faticherebbero a operare dentro piattaforme di lavoro comuni.

Cosa abbia a che fare questo con la riforma del terzo settore è presto detto. A fronte di un ruolo così cruciale e così sfaccettato nel governo delle politiche pubbliche, le organizzazioni di terzo settore in questi mesi sono state chiamate e sono chiamate tuttora a fare i conti il lento, faticoso e irto di inciampi iter di implementazione. A distanza di quattro anni dall’ approvazione della cosiddetta “Riforma” ancora mancano decreti attuativi.

Ma partiamo dal principio e dalle cose che dal principio non hanno convinto, quantomeno alcuni di noi. Innanzitutto l’idea stessa che lo Stato, anziché essere il soggetto che favorisce l’autonoma iniziativa dei cittadini volta alla costruzione di interesse generale, decida di metter mano alla riforma di un settore altro da sé, “terzo” appunto, appare già contraddittoria: una cosa sarebbe stata dire che lo Stato interveniva su se stesso per mettere a punto una legislazione di favore nei confronti di un settore che, in quanto e nella misura in cui produce un impatto sociale di valore, necessita di semplificazione, deburocratizzazione, anche sgravi, riconoscimento fattuale; un’altra partire dalla pretesa roboante di una riforma, che, proprio per questo limite iniziale, si è risolta in gran parte nella logica dell’adempimento formale, dei numeri e degli organi da prevedere in seno agli statuti. C’è stato dunque un problema di riconoscimento da parte delle istituzioni dell’alterità delle organizzazioni di impegno civico, quali soggetti dotati di autonomia politica così come c’è stato un certo complesso di “inferiorità politica” da parte di queste organizzazioni nell’accogliere la cosiddetta “Riforma” addirittura come salvifica e non come quantomeno invasiva.

Ma un altro limite è subito stato chiaro: il perdurare della difficoltà stessa di definire l’oggetto, che fino ad allora aveva conosciuto soltanto definizioni in negativo (il non profit) o per converso (il primo, il secondo e, dunque, il terzo settore). Basti fare riferimento a un passaggio contenuto nel testo delle Linee guida della Riforma che l’hanno preceduta, e che si arrabattavano a definire il terzo settore come “un settore che si colloca tra lo Stato e il mercato, tra la finanza e l’etica, tra l’impresa e la cooperazione, tra l’economia e l’ecologia”: tentativo di sintesi che, anche a leggerlo a distanza ormai di anni, non manca di suscitare un certo  sgomento.

In verità, nel momento in cui le Linee guida furono presentate, era stato appena pubblicato Contro il non profit, un testo dal titolo volutamente provocatorio  (Giovanni Moro, Contro il non profit, 2014) il cui obiettivo era segnalare che dietro il nome di “non profit” si nascondeva una miriade di soggetti diversi, un “magma” lo definisce Moro, tutti accomunati dal fatto di dichiarare di occuparsi di temi di impatto sociale e da un’aura di benemerenza spesso, ma non sempre giustificata. Per provare a superare questo secondo limite, quello della difficoltà a definire l’oggetto, l’unica possibilità era spingere affinché la Riforma spostasse il focus della sua attenzione dalle organizzazioni, dalle loro caratteristiche statutarie e organizzative, alle loro attività e alla finalità perseguita dalle loro attività: è sempre possibile per qualsiasi associazione dire che ha un tot numero di soci o dotarsi di un organo di amministrazione interno, ma se non può dimostrare di operare per l’interesse generale (per esempio, se è una associazione sportiva e non dimostra di usare lo sport per l’integrazione di giovani in condizione di disagio) perché le istituzioni dovrebbero favorirla?

A questo Cittadinanzattiva ha lavorato fin dalle prime audizioni fatte, nel tentativo di migliorare il testo giunto poi all’attuale formulazione: “Per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costituitivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi”.  È chiaro come, dal nostro punto di vista, questa Riforma dovesse avere un legame strettissimo e necessario in particolare con l’articolo 118, ultimo comma, della Costituzione, il principio costituzionale sul quale si basa il riconoscimento dell’autonoma iniziativa dei cittadini, persino quando sono singoli. Fin dall’inizio, le proposte di emendamento presentate da Citttadinanzattiva hanno riguardato il corretto richiamo a quell’articolo della Costituzione. Ragionare nella logica di quell’articolo significava introdurre il principio di interesse generale come criterio di differenziazione; evidenziare il primato delle attività, che possono o possono non essere di interesse generale, a prescindere dai soggetti che le compiono; condizionare il riconoscimento e il “favore” delle istituzioni all’autonoma iniziativa dei cittadini, in termini di accompagnamento, sostegno, rimozione degli ostacoli, benefici di tipo fiscale o economico, solo nella misura in cui essa si orienta a svolgere attività di interesse generale.  Niente di nuovo, va ribadito, alla luce dell’articolo 118 ultimo comma, ma il fatto che questo non sia stato un automatismo rispetto alla definizione di terzo settore, ma l’esito di un processo di consultazione e condivisione e maturazione di un punto di vista comune, lo pone come un fatto che evidentemente non era del tutto scontato e su cui perciò vale la pena di ritornare.

D’altra parte, sempre le nostre ormai famigerate Linee-guida non mancavano di focalizzare quale fosse, nelle intenzioni del legislatore, il vero focus della Riforma: “in un quadro di vincoli di bilancio, dinanzi alle crescenti domande di protezione sociale, abbiamo bisogno di adottare nuovi modelli di assistenza in cui l’azione pubblica possa essere affiancata in modo più incisivo dai soggetti operanti nel privato sociale. Pubblica amministrazione e terzo settore devono essere le due gambe su cui fondare una nuova “welfare society”, dimenticando che il terzo settore non è fatto soltanto di soggetti che erogano servizi e che l’ambito nel quale agisce non è soltanto il welfare. Il documento, invece, insisteva su idee di “modelli di assistenza del privato-sociale” come rattoppo alla crisi del welfare, in sostituzione della garanzia dei diritti sociali e a seguito di indebite “esternalizzazioni” dei doveri istituzionali.

Il terzo limite forte con cui è nata la Riforma è stato dunque quello di considerare le attività autonome dei cittadini come la risposta al taglio della spesa pubblica sociale, visione che in questi giorni di emergenza colpisce e induce a riflettere ancor di più: visione che non tiene conto del fatto che le azioni più significative messe in campo dai cittadini riguardano non tanto e non solo l’erogazione di servizi di assistenza, ma la tutela dei diritti, il sostegno ai soggetti deboli, la cura dei beni comuni. È un disegno di società più giusta e coesa, reso possibile dalla partecipazione attiva delle associazioni e anche dei singoli (il riferimento ai “cittadini singoli” dell’art. 118, u.c., mancava del tutto nelle Linee guida) che operano autonomamente per questo. Coloro che si attivano autonomamente per l’interesse generale, in forma singola o associata, sono con le istituzioni soggetti di progettazione, costruzione e implementazione di politiche pubbliche, e le azioni civiche di interesse generale offrono indicazioni e vincoli concreti alle istituzioni in questo senso. Non si limitano a fornire servizi, lo Stato non può usarne a suo piacimento. Tali principi andavano riconosciuti come cardine di un approccio diverso: più che riformare le leggi, occorre coordinare e rendere coerenti, efficaci e responsabili le politiche pubbliche verso il terzo settore, nella prospettiva costituzionale della sussidiarietà circolare. Accettare questo punto significherebbe superare la visione della Pubblica amministrazione gendarme, dell’Agenzia delle entrate controllore, dello Stato soggetto appaltante: significherebbe riconoscere la “cittadinanza attiva” come soggetto politico influente sugli indirizzi delle politiche pubbliche.

Non è stato un caso, dunque, se quando si è arrivati a dover mettere nero su bianco quali fossero gli enti di terzo settore, e siamo già a uno dei decreti attuativi previsti, non si sia stati in grado, e viste le premesse non si sia potuto, andare oltre una logica elencatoria e per ambiti tematici piuttosto che verso una logica capace di cogliere come esclusivo il criterio dell’interesse generale: ma, per ritornare sull’esempio fatto, le attività sportive di per sé non sono attività riconducibili al terzo settore se non quando si orientino a una delle declinazioni dell’interesse generale, cioè servano a sostenere soggetti in condizione di fragilità.  E non è un caso se, incredibile a dirsi, nella prima elencazione di quali fossero le attività da considerarsi di interesse generale erano stati omessi completamente gli ambiti dei diritti dei consumatori e, guardando al welfare come orizzonte esclusivo, perfino gli ambiti dei diritti civili e politici. Soltanto le proposte di alcune organizzazioni civiche hanno consentito di reintrodurli o hanno consentito invece di escludere i Lea (i Livelli essenziali di assistenza) che devono rimanere invece campo privilegiato di azione della sanità pubblica ma che, tout court, erano inseriti nel novero delle attività di pertinenza del terzo settore.

In conclusione, la Riforma del terzo settore fin dal principio aveva intrinseca una serie di limiti riassumibili nell’espressione “amministrativizzazione della cittadinanza attiva”, che, anche nel dibattito internazionale, si configura come una delle modalità con le quali si attua la strategia di restrizione, non di allargamento, dello spazio civico. Tutto quello che è avvenuto dopo, il rallentamento dei processi, la lettura ondivaga, la scarsa chiarezza, le proroghe e i singhiozzi con cui si è proceduto, sono nella migliore delle ipotesi il frutto di questa mancanza di lungimiranza iniziale e, anche, della difficoltà degli organismi di rappresentanza del terzo settore di proporsi come interlocutori paritari, di rango politico, piuttosto che come destinatari di una legislazione di favore.

Forse proprio il fatto di dover fare oggi i conti con un’emergenza che, nella sua gravità e complessità, rifocalizza il ruolo delle organizzazioni della cittadinanza attiva può essere un buon viatico per limitare la centralità che, anche nel dibattito interno alle organizzazioni, la Riforma ha dovuto necessariamente rivestire e, guardandola solo come un orizzonte di conformità, riprendere a interrogarsi decisamente sul significato della propria autonomia, della propria libertà e degli spazi, ancora illimitati, di autorganizzazione  e messa in rete che le organizzazioni di impegno civico hanno.

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