Il solito vecchio metaverso

Marco Marucci dedica la sua attenzione a Metaverso, l’ultima spiaggia delle Big Tech che su di esso stanno investendo moltissimo. Si tratta di un universo parallelo, capace di unire servizi cloud e robotica, che può assicurare guadagni illimitati. Marucci sostiene che con Metaverso si riproporranno le stesse dinamiche di potere e disegualitarie del Web2.0 e che di fronte a questo pericolo i governi, ricordando gli errori del passato, dovrebbero intervenire per prevenire piuttosto che per curare.

Adam Smith, che non era un socialista, già più di due secoli fa affermava che quando due uomini industriali si incontrano sicuramente stanno progettando qualcosa che per danneggiare l’interesse pubblico: “All for ourselves and nothing for other people sembra sia stato, in ogni epoca del mondo, la vile massima dei padroni dell’umanità” (La Ricchezza delle Nazioni, 1776). Oggi le cose non sono molto cambiate, gli industriali non portano più la bombetta ma ce li possiamo immaginare con camice hawaiane che bevono cocktails su un’isola di loro proprietà, parlando di cosa “lanciare” nei prossimi anni, che siano auto senza pilota, giochi 3D, monete digitali, navette spaziali, assistenza sanitaria a distanza o la creazione di un mondo virtuale dove dare sfogo a tutte queste fantasie. I Big Tech promuovono questo nuovo progetto come cyberspazio tridimensionale “empireo, trascendente ed immersivo” a cui si accede tramite visori 3D e guanti robotici tattili e lo presentano al mondo come Metaverso, riprendendo il nome del mondo virtuale ideato da Neal Stevenson nel suo libro cult “Snow Crash” (1992). “Meta” è anche il nuovo nome della società di Facebook che ora sta investendo milioni di dollari per sviluppare queste nuove funzionalità. A ben vedere non poteva essere scelto nome migliore visto che nel noto racconto Sci-Fi un magnate delle ICT diffonde una sorta di virus neurolinguistico nelle persone che entrano nel Metaverso, distruggendo le loro menti. Si può allora dire utilizzando una metafora, che il virus che verrà trasmesso alla nuova piattaforma digitale sarà probabilmente il capitalismo estrattivo, dato che lo stesso business che ora domina il web 2.0 verrà replicato in un ambiente ancora più accattivante e integrato. L’obiettivo è quello di creare un nuovo ambiente in cui le Big Tech possano utilizzare la loro posizione dominante sul mercato per offrire non solo entertainment, ma qualsivoglia tipologia di servizio che non presuppone la presenza fisica e la prossimità a prezzi anticoncorrenziali in quanto sovvenzionati da pubblicità e prodotti con grandi economie di scala. Per questo motivo le Big4 (Amazon, Apple, Facebook and Google) hanno investito negli ultimi 10-15 anni – in piena crisi economico-finanziaria – milioni di dollari acquisendo decine di piccole società e costituendo nuove compagnie anche in settori completamente avulsi dal loro scopo societario originario. Meta ha acquisito la società di realtà virtuale Oculus per la produzione di visori 3d e investe ora 18,5 miliardi di dollari all’anno in ricerca e sviluppo nel Facebook Reality Labs; Microsoft sta già unificando i servizi di Windows, Teams, Xbox, Linkedin e il gioco Minecraft in un’unica piattaforma virtuale.

L’interesse delle Big Tech non sarà solo rivolto al nostro tempo libero, pozzo senza fondo dei migliori guadagni in quel sistema di leisure-time commodification che andrebbe oggi riletto alla luce della Great Resignation e del Great Reshuffling che hanno segnato il mercato del lavoro USA. Non è difficile infatti immaginare che anche lo smart-working, che dopo la pandemia ha coinvolto un numero crescente di lavoratori, investa anche nuovi settori, allettati dalla possibilità di creare veri e propri uffici virtuali con la medesima velocità di trasformazione che ha avuto la gig economynegli anni passati (un esempio di come potrebbe funzionare un’azienda virtuale è dato da Microsoft Mesh, che consente alle persone in luoghi fisici diversi di partecipare a esperienze olografiche collaborative e condivise). In un mondo di relazioni così delocalizzate e frammentate saranno sempre più diffuse le attività web-based (piattaforme che prevedono lo svolgimento di micro-compiti svolti sul web senza vincoli di localizzazione) rispetto a quelle location based(piattaforme di incrocio domanda-offerta di servizi svolti in una località specifica), nella classificazione usata per i lavoratori delle piattaforme, e crescerà ancora di più la possibilità per le imprese di accedere ad una offerta di lavoratori a basso costo nella perenne corsa allo sfruttamento del Global South. Le disparità che esistono nel lavoro reale saranno trasmesse e, forse, amplificate, nel lavoro virtuale, in cui verrà anche replicata l’ ambiguità relativa alla giurisdizione competente per la tassazione dei guadagni, per la gestione dei contratti e per il rispetto delle normative che ha distinto buona parte del Web 2.0, anche a causa del ritardo dell’adeguamento giuridico-fiscale a livello internazionale. Sembra quantomeno curioso che questo spostamento del campo da gioco avvenga nello stesso momento in cui, dopo anni di battaglie, è stata approvata a valere dal 2023 l’Imposta minima globale del 15% per le multinazionali. L’imposta redistribuisce gli introiti ricevuti in percentuale del fatturato per Paese, ma a quale Paese può essere attribuito il consumo che viene effettuato in un mondo totalmente virtuale?

Nella copiosa saggistica in materia è ormai diffusa la convinzione che questo nuovo mondo non debba essere lasciato alla deregolamentazione e dunque al dominio delle grandi multinazionali, come è successo per il Web2.0. Nella lentezza dell’adeguamento giuridico e normativo da parte degli organismi internazionali rispetto alla velocità con cui “i padroni del mondo” progettano il nostro futuro, si annidano i profitti maggiori raccolti dal top 1%. Basti pensare all’iniqua distribuzione dei Bitcoin, principale valuta virtuale insieme ad Ethereum per creare Non Fungible Token utilizzabili nel Metaverso: i primi 10.000 possessori (lo 0,01%) detengono il 26% dei Bitcoin totali circolanti, che oggi valgono 232 miliardi di dollari (dati del National Bureau of Economic Research, USA).

Le questioni non si esauriscono qui. Il Metaverso ripropone le strategie di utilizzo della posizione dominante delle Big tech per promuovere strumenti di comunicazione del proprio gruppo societario, come è successo con Teams, sfruttando l’accresciuta richiesta durante la pandemia, per gli utilizzatori del sistema Windows di Microsoft. Tra le nuove acquisizioni di Apple e Microsoft ci sono difatti molte società di cloud computing che affiancano i servizi che verranno offerti negli ambienti virtuali. L’utilizzo di strumenti di controllo (visori 3D, guanti robotici etc.), al pari degli smart-phones, pongono inoltre i soliti quesiti sulla raccolta di dati per finalità lucrative, di controllo e di sorveglianza. In tale ambiente i dati che potrebbero essere raccolti sono molteplici e vanno da quelli biometrici alla possibilità, non esclusa, che gli stessi visori possano registrare l’ambiente circostante, che sia la stanza di un ufficio o la propria camera da letto. Infine, oltre al pericolo di monopoli delle criptovalute per la certificazione dei Non Fungibile Tokens, di cui si rimanda ad altra letteratura per approfondimenti, sarebbero da analizzare attentamente gli effetti, sociali e psicologici, dell’utilizzo degli avatar, i nostri alter ego del mondo virtuale, le cui abitudini e personalità vengono trasportati nel mondo reale producendo mutazioni importanti nel nostro modo di percepire il mondo: dall’alterazione delle emozioni e dei rapporti umani ad una visione di un sistema sociale preordinato, omologato, ineluttabile e “dopaminico” (l’ossimoro dell’accecamento che vede, usato per spiegare il manifesto dell’era iper-industriale di Bernard Stiegler, si addice perfettamente all’immagine degli oculari 3D e del mondo post social che ci attende).

I rimedi sono molti, dalla regolamentazione preventiva per frenare lo strapotere delle Big Four all’avvio di analisi su campi trasversali, da quello sociale a quello neurologico, per accogliere e indirizzare questa nuova, ma non troppo, rivoluzione tecnologica; essi dovranno orientare una governance pubblica di tutti gli interessi coinvolti. Non devono poi mancare iniziative “dal basso” che creino una valida alternativa ai servizi offerti dalle multinazionali. Molta speranza ultimamente è riposta nello sviluppo di un “Web3” o dell’ancora più radicale Web0 Project, che insegue il sogno di un cyberspazio capace di aggirare il controllo di attori monopolisti con un’architettura informatica decentralizzata e l’ambizione di democratizzare la rete globale. Il progetto è da alcuni tacciato come utopico, ma va nella direzione giusta: reagire per non essere sopraffatti dagli eventi.

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