Il sistema pensionistico italiano e la flessibilità in uscita: qualche riflessione

Carlo Mazzaferro, avvicinandosi la scadenza di Quota 100, riflette su flessibilità e pensionamento. Osservando i dati sull’età di pensionamento tra il 1995 ed il 2020 trova che l’età media è decisamente cresciuta mentre la variabilità si è ridotta ed è crollata la quota dei pensionati under 60. Sulla base di questi dati e del passaggio alla logica contributiva, Mazzaferro ritiene che sia possibile una flessibilità che risponda meglio alle esigenze dei lavoratori senza effetti sulla stabilità finanziaria del sistema pensionistico.

Le condizioni per la maturazione dei requisiti per il pensionamento potrebbero irrigidirsi in maniera sostanziale per molti lavoratori italiani a partire dal 1° gennaio 2022. Con la fine del 2021 infatti verranno meno le possibilità di uscita in anticipo rispetto ai 67 anni della pensione di vecchiaia, garantite attualmente da “quota 100” ai lavoratori con almeno 62 anni di età e 38 di contribuzione. Il Governo e la maggioranza che lo sostiene in Parlamento hanno annunciato che, nel corso dei prossimi mesi, interverranno sulla questione.

Quota 100 è il più noto, ma non certo l’unico, strumento introdotto nel corso degli ultimi anni per offrire una risposta alla domanda di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, cresciuta in modo importante dopo il brusco irrigidimento nelle condizioni per la maturazione del diritto alla pensione da lavoro, introdotte con la riforma Fornero alla fine del 2011.

A ben vedere il legislatore ha di fronte a sé nei prossimi mesi un’occasione importante per dare finalmente una risposta organica ad un problema reale le cui dimensioni quantitative e politiche furono forse sottovalutate nel momento dell’emergenza finanziaria di fine 2011, che contribuì a determinare le condizioni per l’approvazione dell’ultima riforma strutturale del sistema pensionistico.

In realtà, non si può certo dire che la flessibilità sia la grande assente nel panorama pensionistico italiano. La questione semmai è quella della scarsa organicità delle norme che la regolano e della scarsa trasparenza sui costi che queste determinano in un sistema pensionistico a ripartizione e con una regola di calcolo ancora in parte retributiva, come quello italiano. In chiave storica prima del ventennio delle grandi riforme, iniziato nel 1992, l’età di pensionamento “legale”, ovvero quella che garantiva l’accesso al pensionamento di vecchiaia, era pari a 55 anni per le donne e a 60 per gli uomini. Siamo arrivati oggi a 67 anni per uomini e donne. Tuttavia, è cosa nota, la possibilità di accedere in anticipo rispetto all’età legale, grazie alla pensione di anzianità, ha favorito nel recente passato la crescita numerica dei pensionamenti prima della maturazione delle condizioni per la pensione di vecchiaia. Il fenomeno ha assunto dimensioni quantitativamente rilevanti proprio negli ultimi decenni, in corrispondenza alla maturazione del sistema pensionistico e all’allungamento delle carriere, tanto che nel 2020 il 55% circa del totale delle pensioni da lavoro risultava di anzianità e non di vecchiaia (cfr. il recente XX Rapporto Annuale INPS). Questa forma di flessibilità è particolarmente costosa per il bilancio pubblico e, nel caso del sistema retributivo, iniqua in termini distributivi perchè l’assenza di equità attuariale rende vantaggioso l’anticipo del pensionamento soprattutto nel caso di carriere contributive piene, di uomini e di redditi medio-alti. Ad essa si è accompagnata, soprattutto in passato, la categorialità del sistema di welfare italiano che ha permesso a molti lavoratori (settore pubblico, professioni, etc.) di accedere al pensionamento di vecchiaia a condizioni agevolate rispetto alla norma generale. Questo assetto normativo, prima delle riforme, ha portato l’Italia in basso nella classifica dell’età media di pensionamento ed in alto in quella dei sistemi pensionistici maggiormente distorsivi rispetto alle scelte di lavoro, con effetti perniciosi sia sull’equità del sistema che sulla dimensione della forza lavoro, la vera base su cui costruire un sistema pensionistico sostenibile.

A fine 2021, peraltro, la situazione normativa riguardo all’età di pensionamento continua ad essere tutt’altro che omogenea. Solo per citare i casi più importanti, i lavoratori completamente contributivi possono anticipare di tre anni l’uscita rispetto al pensionamento di vecchiaia se l’anzianità contributiva è pari ad almeno 20 anni e l’importo maturato della pensione è superiore a 2,8 volte l’assegno sociale, ma se non raggiungono un importo “adeguato” (pari a 1,5 volte l’assegno sociale) sono invece costretti a ritardare l’uscita fino a 4 anni dopo il raggiungimento dell’età di vecchiaia (quindi, attualmente, fino a 71 anni, parametro previsto crescere nei prossimi decenni in ragione del miglioramento atteso della speranza di vita). Per i lavoratori appartenenti al sistema misto (che ricevono, cioè, una pensione calcolata in parte col contributivo e in parte col retributivo) è invece possibile accedere al pensionamento, indipendentemente dall’età anagrafica, alla maturazione di 42 anni e 10 mesi (un anno in meno per le donne) di contribuzione. Abbiamo poi “opzione donna” con 58 anni di età, 35 di contributi e ricalcolo contributivo dei diritti pensionistici; l’Ape sociale per i soggetti in stato di disoccupazione, con 63 anni di età e 30 di contributi o 63+36 per i cosiddetti lavoratori “gravosi”; gli anticipi per i lavori usuranti, per non parlare degli scivoli pensionistici e l’isopensione, gli anticipi finanziati parzialmente dalle aziende. L’insieme di queste e altre norme attualmente vigenti ci rivela che il pensionamento può essere raggiunto, a normativa vigente, in un intervallo di età approssimativamente compreso tra i 57 anni ed i 71 anni! Si tratta di un intervallo troppo ampio, all’interno del quale le possibilità di accesso in anticipo comportano ancora distorsioni e costi per la finanza pubblica e dove gli intenti redistributivi non appaiono sempre trasparenti (cfr. XX Rapporto INPS).

Per capire meglio quanto effettivamente sia flessibile l’età pensionabile e come questa sia cambiata nel tempo è utile guardare dove eravamo e dove siamo oggi sulla base delle evidenze contenute negli archivi amministrativi dell’INPS.

Nel corso degli ultimi 25 anni l’età media effettiva di pensionamento è cresciuta in maniera importante ed è passata dai 58 anni di coloro che sono andati in pensione nel 1995 ai 64 anni di quelli che ci sono andati nel 2020. Questa tendenza porta l’Italia maggiormente in linea con quanto accade nel resto d’Europa, sebbene, come mostra l’OCSE, ancora un numero non trascurabile di nazioni presenti valori medi dell’età di pensionamento più elevati rispetto al nostro Paese. La figura 1 testimonia che l’aumento dell’età media di pensionamento ha interessato uomini e donne, trattamenti di vecchiaia e di anzianità: l’aumento risulta quindi sufficientemente diffuso e non riguarda solo parti limitate della popolazione. È questo il risultato del continuo e progressivo irrigidimento delle condizioni di età e contribuzione per accedere al pensionamento introdotte nella normativa a partire dal 1993. Un modo interessante per valutare l’impatto del fenomeno descritto in figura è quello di considerare l’aspettativa di vita al pensionamento: prendendo come riferimento il valore medio dell’età di pensionamento, questa era pari a 23,3 anni nel 1995 ed è scesa a 20,7 anni nel 2020. Possiamo quindi dire che, almeno in media, i pensionati di oggi percepiscono la prestazione di vecchiaia o anzianità per un numero minore di anni rispetto a quanto accadeva a metà degli anni Novanta del secolo scorso.

Un aspetto forse meno noto ma ugualmente importante, evidenziato nella figura 2, è la costante riduzione della variabilità nell’età di pensionamento. La deviazione standard di questa variabile passa infatti dal valore di 5 nel 1995 a quello di 3 nel 2020: questo significa che, durante questo periodo, insieme alla crescita della media, la dispersione nell’età di pensionamento si è ridotta in misura significativa. Uno dei fattori che ha contribuito a spiegare queste dinamiche è la caduta verticale della diffusione dei pensionamenti anticipati: se con questi intendiamo tutti quelli che si realizzano al di sotto dei 60 anni, emergono evidenze molto forti. Questi costituivano il 68% delle uscite nel 1995; erano ancora pari al 60% nel 2008. La quota di neo pensionati con età inferiore a 60 anni era scesa invece al 18% del totale nel 2020. Questa evidenza è particolarmente importante perché in un sistema retributivo, come di fatto è stato quello con il quale sono state calcolate le pensioni tra il 1995 ed il 2011, l’anticipo della pensione determina costi importanti sui bilanci (soprattutto intertemporali) del sistema pensionistico: la drastica riduzione nei pensionamenti anticipati non può dunque che essere salutata come una buona notizia per il raggiungimento dell’obiettivo della sostenibilità di lungo periodo del bilancio pubblico.

Figura 1: Valori medi e variabilità dell’età di pensionamento. Italia. 1995-2020

Figura 2: Variabilità dell’età di pensionamento. Italia. 1995-220

 

Fonte: dati Visitinps

In sintesi, dunque, seppure in assenza di un disegno coerente di lungo termine, il comportamento e le scelte (a volte obbligate) dei lavoratori italiani riguardo all’età di pensionamento segnalano che negli ultimi 25 anni si è realizzato un cambiamento di tipo strutturale.

A questo riguardo è utile osservare la figura 3 nella quale riportiamo la distribuzione per età dei pensionamenti nel 1995 e nel 2020. Notiamo che nella parte sinistra, relativa al 1995, che ben rappresenta i comportamenti passati, ci sono tre picchi – in corrispondenza delle età 55, 60 e 65 anni – in cui si concentra più del 50% dei pensionamenti complessivi di quell’anno.:. Nel 2020 la distribuzione appare completamente cambiata: il 30% dei pensionamenti avviene ora all’età di 67 anni; altri valori significativi sono compresi tra i 63 e i 64 anni, mentre sono in numero relativamente limitato i pensionamenti al di sotto dei 60 anni.

Figura 3: Distribuzione dell’età di pensionamento nel 1995 e nel 2020

 

In questo quadro, la chiusura dell’esperienza di quota 100 potrebbe rappresentare un’occasione per aggiungere un tassello importante alla struttura del sistema pensionistico italiano: quello di una flessibilità adeguata e sostenibile. I dati dei pensionamenti degli ultimi 25 anni mostrano un aumento dell’età media di pensionamento, una riduzione della variabilità ed un crollo della quota delle pensioni liquidate sotto i 60 anni: i comportamenti dei lavoratori italiani mostrano in altri termini come l’opzione dell’anticipo non rappresenti più una scelta prevalente. A conforto di questo basti anche considerare il non eccezionale tasso di take up (ovvero il numero di effettivi pensionati rispetto ai beneficiari potenziali) di quota 100, rivelatosi molto inferiore alle stime governative.

D’altra parte la quota retributiva nelle pensioni che verranno erogate nei prossimi decenni è destinata a calare sensibilmente rispetto ai valori passati ed anche a quelli più recenti. Un sistema contributivo, con le penalizzazioni per l’anticipo e i premi per il ritardo nel pensionamento inseriti automaticamente nella regola di calcolo e tendenzialmente equi dal punto di vista attuariale, rende meno pressante la preoccupazione che una fuga verso il pensionamento possa mettere in discussione la tenuta dei conti di breve e lungo periodo del sistema pensionistico e, conseguentemente, della finanza pubblica.

Altre nazioni, come la Svezia, che utilizzano una regola di calcolo simile a quella ormai dominante in Italia, prevedono già la possibilità di scegliere l’età a cui accedere al pensionamento, all’interno di un intervallo “ragionevole”. Le preoccupazioni di cassa e quelle relative all’adeguatezza di prestazioni erogate ad età troppo anticipate possono essere affrontate fissando un’età minima di pensionamento che renda compatibile il sistema con questi vincoli aggiuntivi. Il comportamento dei lavoratori italiani, certificato dai dati presentati sopra, invita del resto ad un (moderato) ottimismo. Resta il nodo della residua quota retributiva ancora presente per una decina d’anni nelle pensioni. A questo riguardo l’opzione di un ricalcolo di questa parte della pensione in cambio della possibilità di scegliere l’età di uscita sembra uno scambio politicamente plausibile e soprattutto socialmente equo se si pensa alle generazioni che, dopo il 2030 circa, andranno in pensione con una regola completamente contributiva.

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