Il salario minimo nella proposta di Direttiva europea: un’opportunità e una sfida all’epoca del COVID

Alessandra Cataldi, Mattia De Crescenzo e Germana Di Domenico illustrano gli aspetti principali della proposta di Direttiva per la definizione di un quadro comune europeo sul salario minimo sottolineando che la proposta non contiene misure che hanno un'incidenza diretta sul livello delle retribuzioni, ma mira a stimolare la contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari, soprattutto laddove essa non raggiunga almeno il 70% dei lavoratori, favorendo, in tal modo, condizioni lavorative e di vita dignitose.

Già a fine settembre scorso, un’analisi sul salario minimo degli uffici tecnici del Parlamento europeo metteva in evidenza la necessità di adottare un provvedimento comune, specie a fronte delle implicazioni della crisi pandemica per il mercato del lavoro. Il 28 ottobre, constatando che in molti Stati membri i salari più bassi non garantiscono condizioni di vita dignitose e non mostrano una dinamica in linea con quelli più elevati, la Commissione europea (CE) ha pubblicato una proposta per la definizione di un quadro regolamentare di riferimento in ambito UE a garanzia del diritto ad un salario minimo adeguato. La proposta risponde all’impegno enunciato dalla CE negli orientamenti politici per il periodo 2019-2024 di attuare pienamente il Pilastro europeo dei diritti sociali nonché, come dichiarato dalla von der Leyen nel discorso sullo stato dell’Unione del 16 settembre scorso, di contrastare fenomeni di dumping salariale. Ulteriore obiettivo è contribuire a tutelare la parità di genere, dal momento che molte più donne che uomini percepiscono salari prossimi al livello minimo.

Tale iniziativa trova ulteriore giustificazione se si considera il contesto di globalizzazione, digitalizzazione e sempre maggiore diffusione di tipologie contrattuali atipiche, in particolare nel settore dei servizi, che più duramente di altri è stato colpito dall’attuale crisi: tutti fattori che hanno determinato una polarizzazione dell’occupazione, con conseguente aumento degli impieghi scarsamente retribuiti, poco qualificati e con minore copertura in termini di contrattazione collettiva.

Nella UE i salari minimi possono essere stabiliti attraverso la contrattazione collettiva (come avviene in sei Stati membri, tra cui l’Italia) o tramite norme di legge (per i restanti ventuno Paesi). Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il salario minimo legale presenta livelli inferiori al 60% del salario mediano lordo o al 50% del salario medio lordo (valori utilizzati a livello internazionale come indici di adeguatezza) e, pertanto, non è ritenuto sufficiente a garantire un livello di vita dignitoso. Inoltre, non tutte le categorie di lavoratori beneficiano di un salario minimo: le previste esenzioni dall’applicazione del salario minimo legale escludono da tale beneficio molti lavoratori e, anche nel caso di salari minimi determinati dalla contrattazione collettiva, non tutti i lavoratori hanno accesso a tale tutela.

Va detto che la proposta di Direttiva non contiene misure che hanno un’incidenza diretta sul livello delle retribuzioni, né interferisce con la discrezionalità, che resta in capo agli Stati membri, in merito alla fissazione dei salari minimi legali o alla loro determinazione attraverso i contratti collettivi nazionali, nel rispetto del ruolo delle parti sociali.

La finalità principale della proposta di Direttiva europea è quella di aumentare il tasso di copertura della contrattazione collettiva a livello settoriale o intersettoriale in tutti i Paesi membri (si veda in merito l’articolo di Emanuele Menegatti su questo numero del Menabò), soprattutto laddove tale copertura non raggiunga almeno il 70% dei lavoratori.

Agli Stati con salari minimi legali si chiede, inoltre, di individuare, sempre in consultazione con le parti sociali, criteri chiari per la definizione e l’aggiornamento costante degli stessi, tenendo in considerazione il potere d’acquisto, il livello e il tasso di crescita dei salari lordi e la loro distribuzione, nonché l’evoluzione della produttività del lavoro. Si suggerisce, altresì, di limitare le variazioni nei salariali minimi legali e di evitarne riduzioni non giustificate. Infine, si richiede di istituire organi consultivi in materia e di rafforzare il sistema di controlli e ispezioni, nonché di istituire un sistema di raccolta dei dati e di monitoraggio sul livello di copertura e di adeguatezza dei salari minimi. Nello specifico, gli Stati con salari minimi legali dovranno comunicare alla CE, su base annuale, informazioni su livello e grado di copertura dei salari minimi, variazioni e riduzioni degli stessi, ampiezza di copertura della contrattazione collettiva. Gli Stati in cui si fa esclusivamente ricorso alla contrattazione collettiva per determinare i salari, invece, dovranno comunicare annualmente alla CE dati relativi alla distribuzione in decili dei salari minimi (ponderata per la relativa quota di lavoratori), alla copertura della contrattazione collettiva e al livello dei salari per i lavoratori che non beneficiano di salari minimi con relativo confronto rispetto a quelli che invece ne godono. In tema di protezione dei diritti, è richiesto agli Stati membri di assicurare una tutela adeguata ai lavoratori e ai loro rappresentanti, con apposito apparato sanzionatorio in caso di violazione delle disposizioni nazionali in materia di salario minimo.

L’interessante analisi di impatto contenuta nella stessa proposta di Direttiva mostra come un aumento del salario minimo al 60% di quello lordo mediano beneficerebbe tra i 10 ei 20 milioni di lavoratori europei. In diversi Paesi, il miglioramento della adeguatezza del salario minimo darebbe luogo ad una riduzione della povertà e della disuguaglianza salariale pari ad oltre il 10% e ad una riduzione del divario retributivo di genere di almeno il 5%. La stima del possibile impatto negativo sull’occupazione è piuttosto contenuta e nella maggior parte dei casi inferiore allo 0,5% dell’occupazione totale.

La proposta di Direttiva va letta, inoltre, in combinazione con le Raccomandazioni per l’area dell’euro della Commissione per il 2021 sul rafforzamento del dialogo sociale e sulla contrattazione collettiva. L’indicazione della necessità di “migliorare le condizioni lavorative, in particolare stabilendo salari minimi adeguati” contenuta in questo documento costituisce un importante cambio di passo rispetto alle raccomandazioni in materia salariale degli anni passati. Se, infatti, in precedenza, il focus della Commissione era soprattutto su interventi di decentralizzazione contrattuale, flessibilizzazione del mercato del lavoro e delle dinamiche salariali, ora l’accento viene posto sulla necessità che i livelli del salario siano in grado di garantire condizioni di vita che siano “decent”, con ciò sottolineando anche la rilevanza di tale approccio nel contesto dell’attuale crisi.

Per quanto riguarda l’Italia, la valutazione di impatto della Commissione evidenzia una copertura della contrattazione collettiva pari a circa l’80% dei lavoratori e, dunque, in linea con le richieste della proposta di Direttiva (cioè superiore al 70%), ma pur sempre inferiore a quella rilevata negli altri Paesi (tranne Cipro) che stabiliscono i minimi salariali esclusivamente tramite contrattazione collettiva. D’altro canto, si osserva che l’Italia è uno dei Paesi europei con elevata povertà lavorativa (oltre il 12%); i lavoratori a tempo parziale o con contratti a tempo determinato sono quelli maggiormente esposti a tale rischio.

L’adeguamento dell’ordinamento giuridico italiano alla Direttiva, se approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio, avrà implicazioni non tanto in termini di livelli salariali, quanto piuttosto sul versante del monitoraggio e della divulgazione delle informazioni su copertura della contrattazione collettiva, distribuzione dei salari minimi e livello retributivo per i lavoratori che non ne beneficiano.

Se ne evince che la proposta europea contribuirebbe a sostenere una più ampia copertura della contrattazione collettiva nei Paesi che allo stato attuale non rispondono ai requisiti della Direttiva e ad evitare che in futuro si scenda sotto la soglia minima prevista. Inoltre, la diffusione di informazioni specifiche in materia di salari può rafforzare la consapevolezza dello status quo circa le dinamiche salariali e favorire lo scambio di buone partiche tra Stati membri.

D’altro canto, è inevitabile che le posizioni espresse in merito alla proposta siano diverse: se la confederazione dei sindacati europei, che da tempo denuncia una significativa contrazione della contrattazione collettiva (dal 73% nel 2000 al 61% nel 2018), ha accolto con sostanziale favore l’iniziativa, i rappresentanti europei delle imprese hanno lamentato una illegittima ingerenza da parte della Commissione (sebbene la Direttiva stessa rimandi alla contrattazione nazionale la materia salariale).

A prescindere dalle istanze di parte, non vi è dubbio che la proposta europea rappresenti un passo avanti sul versante della necessità di garantire un salario dignitoso ai lavoratori europei e sugli strumenti più opportuni per raggiungere tale scopo. Pur non potendo imporre un determinato livello di salario minimo in tutti gli Stati membri, la Direttiva ha il merito di stimolare una riflessione non solo sui bassi salari europei (o italiani), ma anche su aspetti che riguardano più prettamente il sistema fiscale, l’andamento delle produttività, la presenza di lavoro sommerso, le limitate prospettive occupazionali, le questioni di genere e quelle legate all’immigrazione, nonché il mancato ricorso alla contrattazione collettiva o la mancata copertura da parte di quest’ultima delle professioni di nuova generazione. Tutte questioni quanto mai cruciali, soprattutto nel panorama economico attuale che lascia immaginare un impatto prolungato della crisi sul mercato del lavoro.

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