Il salario minimo nella lotta alla povertà e alla disuguaglianza: una microsimulazione per l’Italia

Andrea Di Filippo presenta i risultati di una microsimulazione, condotta col modello EUROMOD, degli effetti che potrebbe avere sulla povertà e la disuguaglianza l’introduzione di un salario minimo legale in Italia. Secondo tali risultati gli indicatori di povertà e disuguaglianza nei redditi registrerebbero un miglioramento per effetto del salario minimo legale, ma si tratterebbe di un miglioramento contenuto e ciò segnala che povertà e diseguaglianza sono molto influenzate da fattori diversi dalla remunerazione oraria.

La recente proposta della Commissione europea per un quadro regolamentare europeo relativo al salario orario minimo, illustrata in questo numero del Menabò da Cataldi, De Crescenzo e Di Domenico, potrebbe riaprire il dibattito sull’introduzione di un salario minimo legale in Italia. Si ricorda, infatti, che nella prima parte della legislatura, prima che la caduta del Governo Conte I e l’emergenza sanitaria del Covid-19 riscrivessero l’ordine delle priorità nell’agenda politica, la XI Commissione permanente “Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale” è stata impegnata nella discussione di una serie di progetti di legge sul salario minimo.

La prospettiva di un salario minimo legale – accolta con contrarietà dalle parti sociali come si evince dalle memorie presentate nel corso delle audizioni parlamentari – nasce, anzitutto, dalle preoccupazioni rispetto alla povertà lavorativa in Italia. Nel 2019, secondo i dati Eurostat, l’in-work poverty rate – ovvero la quota di lavoratori e lavoratrici che vivono in famiglie in condizioni di povertà relativa – era pari all’ 11.8% (2.8 p.p. sopra la media Ue-27). Vi è, poi, il fatto che, nonostante il tasso di copertura offerto dai CCNL ai lavoratori dipendenti sia molto elevato, ancora in molti ricevono remunerazioni inferiori a quelle tabellari. Il salario minimo è visto inoltre come strumento di contrasto alla diseguaglianza dei redditi, la cui crescita dipende in larga misura da un ampliamento delle disuguaglianze tra i percettori di redditi da lavoro.

Per quanto riguarda gli effetti del salario minimo, la letteratura economica sembra avere pochi dubbi sul fatto che esso è scarsamente efficace nel contrastare la povertà (anche solo quella lavorativa) a causa della notevole rilevanza di fattori diversi dalla retribuzione oraria, come la limitata partecipazione lavorativa, la diffusione di tipologie contrattuali atipiche, le carriere frammentate e la mancanza di ammortizzatori sociali adeguati. Al contempo, la letteratura riconosce al salario minimo una certa capacità di ridurre la dispersione nella distribuzione dei salari, sia grazie alla definizione di un pavimento minimo sotto al quale i salari non possono scendere, sia per l’operare dei cosiddetti spillover effect. Infatti, il salario minimo non agirebbe solo sui lavoratori con una retribuzione inferiore a tale pavimento, ma anche su quelli che percepiscono un salario poco al di sopra del minimo, che aumenterebbe al fine di mantenere un gap salariale rispetto ai lavoratori meno pagati.

Nel tentativo di contribuire al dibattito sull’introduzione del salario minimo legale in Italia, abbiamo esaminato gli effetti su povertà e diseguaglianza facendo uso di EUROMOD, il modello statico di microsimulazione dell’Ue che, a partire dal sistema tax-benefit in vigore in un determinato paese, consente di simulare cosa accadrebbe se si modificassero alcune politiche, tenendo conto dell’effetto di retroazione mediante carichi fiscali e trasferimenti monetari a famiglie e individui.

La simulazione in esame, condotta assumendo il 2019 come scenario di riferimento, assume l’introduzione di un salario minimo orario di 9 euro lordi, così come previsto dal DDL 658 (DDL Catalfo). Dato che tale importo corrisponde all’80% circa del salario orario lordo mediano in Italia, un livello molto più alto rispetto ai minimi applicati negli altri paesi europei, si sono considerate anche due ipotesi alternative basate su valori più bassi del salario minimo, pari rispettivamente a 60% e 70% del salario mediano. Una volta scelto il livello del minimo legale, vengono definiti due diversi scenari: nel primo, i cui principali risultati sono mostrati di seguito, si assume che l’introduzione del salario minimo non comporti alcun effetto sulla domanda di lavoro; nel secondo si ipotizza che alcuni lavoratori vengano licenziati o vedano ridursi il numero delle ore lavorate, secondo le modalità di seguito esposte.

La Tabella 1 mostra che, per qualsiasi livello orario del salario minimo, le categorie più interessate dalla riforma in termini relativi, sono le donne, chi ha cittadinanza diversa da quella italiana (sia di paesi Ue che extra-Ue) e chi ha bassi livelli di istruzione. Va comunque osservato che nel caso dei 9 euro orari lordi previsti dal DDL Catalfo crescerebbe in modo non trascurabile la quota di beneficiari con caratteristiche più favorevoli.

Fonte: elaborazione tramite EUROMOD

Guardando all’occupazione svolta, le professioni maggiormente interessate dalla riforma, per ogni livello simulato del salario minimo, sono nell’ordine le professioni agricole, quelle nelle attività commerciali e nei servizi (assistenza alla vendita, ristorazione, cura alla persona) e le professioni non qualificate, con quote rispettivamente del 54,1%, 46,7% e 37,4% quando ci si riferisce all’ipotesi di 9 euro lordi l’ora.

Il primo risultato che si nota è che, coerentemente con la letteratura esistente, il salario minimo è tanto più efficace nel contrastare povertà e diseguaglianza quanto più è elevato il suo livello. Tuttavia, un livello troppo elevato del salario minimo, oltre ad incoraggiare comportamenti di no compliance da parte dei datori di lavoro, potrebbe aumentare la probabilità che le imprese reagiscano riducendo il numero di lavoratori impiegati (margine estensivo) o il numero di ore per lavoratore (margine intensivo), venendo meno l’ipotesi alla base del primo scenario. Il grafico 1 mostra la variazione dell’at-risk-of-poverty rate (riferendoci, dunque, ai redditi equivalenti ottenuti dall’intero nucleo familiare) per ogni livello simulato del salario minimo, sia per la popolazione nel suo insieme che per suoi sottogruppi (con soglia di povertà variabile).

Osservando il grafico, si nota che la riduzione dell’indicatore è modesta nella popolazione nel suo complesso (fino a -0.38 punti percentuali), fatto che non stupisce essendo il salario minimo una misura indirizzata ai soli lavoratori dipendenti e che dunque al più interessa questi e le loro famiglie. Le riduzioni più marcate si hanno per la popolazione tra 0 e 18 anni (fino a – 1.65 p.p. nel caso di 9 euro orari) e per la popolazione in età lavorativa che riceve un reddito da lavoro (con riduzione massima di -1.47 p.p.). Fanno eccezione gli individui di 65 anni o più, ma si tratta un effetto meccanico dovuto al modo in cui l’indicatore è costruito (l’introduzione del salario minimo comporta un aumento della soglia di povertà relativa) a cui potrebbe non corrispondere un peggioramento effettivo delle condizioni di vita di questi soggetti.

Per una lettura più completa, si è tentato di capire l’effetto sull’intensità della povertà, indicatore che esprime in maniera sintetica quanto i soggetti classificati come poveri sono distanti dalla soglia di povertà. Muovendoci dallo scenario di base, per il quale l’indicatore è del 25%, si osserva una riduzione di -0,38 p.p. per un salario minimo di 6,75 euro, di 0,53 p.p. per un salario di 7,87 euro e di 0,44 p.p. per un valore di 9 euro. L’andamento non monotòno nella riduzione dell’intensità della povertà è dovuto al fatto che, essendo l’indicatore costruito come distanza relativa del valore mediano del reddito equivalente dei poveri dalla soglia di povertà, quest’ultima aumenta in termini percentuali di più rispetto al valore mediano stesso quando si passa da un minimo orario di 7,87 a uno di 9 euro.

Relativamente alla diseguaglianza, prendendo in esame la distribuzione per decili, gli effetti più consistenti rispetto alla variazione del reddito equivalente sono osservati nella parte bassa della distribuzione, tra il secondo e quinto decile, sebbene si rilevino variazioni di segno positivo anche nei decili superiori. Ciò dipende dal fatto che i percettori del salario minimo, sebbene più diffusi nei decili inferiori della distribuzione del reddito disponibile equivalente, sono presenti anche in famiglie che si collocano nella parte più alta della distribuzione, al di sopra della mediana.

Un quadro sintetico degli effetti del salario minimo sulla diseguaglianza è offerto dalle variazioni dell’indice di Gini. Muovendoci dallo scenario base a quello con salario minimo orario di 9 euro lordi, l’indice si riduce di 1.45 p.p. relativamente ai redditi di mercato, passando da 51.70% a 50.25%, e di 0.5 p.p. per i redditi disponibili, da 31.14% a 30.64%.

Ora, cosa accade se si ammette la possibilità che l’introduzione del salario minimo legale abbia effetti sulla domanda di lavoro? Per esaminare questo scenario sono stati presi in considerazione valori dell’elasticità dell’occupazione rispetto a variazioni del salario suggeriti dalla letteratura economica (-0.01 e -0.03), si è calcolato il numero di lavoratori che avrebbero perso il loro posto di lavoro (o visto ridursi il numero di ore lavorate nel caso alternativo di effetti sul margine intensivo) e si è proceduto in modo casuale ad individuare i lavoratori colpiti in negativo dalla riforma tra quelli che percepivano una retribuzione inferiore al minimo.

Tanto considerando gli effetti sul margine intensivo quanto quelli sul margine estensivo, il salario minimo continua ad avere una certa efficacia nel contrasto a povertà e diseguaglianza e le variazioni degli indicatori distributivi risultano appena inferiori a quelle mostrate negli scenari privi di effetti comportamentali. Come atteso, la riduzione dell’efficacia è maggiore quando si considera l’elasticità più elevata in valore assoluto,

Come si è avuto modo di argomentare, il salario minimo sembra avere alcuni effetti positivi nel contrasto della povertà e della diseguaglianza, tuttavia molto contenuti e principalmente concentrati sui lavoratori dipendenti e le loro famiglie. Da questo punto di vista, dunque, non rappresenta uno strumento capace di per sé di incidere in maniera consistente sulla dinamica della povertà e della diseguaglianza salariale in Italia.

Parallelamente, è forse troppo azzardato pensare che esso possa risolvere tutte le fragilità che stanno emergendo in modo sempre più evidente nel sistema di coperture offerte dai CCNL, anche se non è sbagliato affermare che esso possa completare il sistema di garanzie offerte ai dipendenti, in particolare intervenendo su quei lavoratori che oggi di fatto non trovano tutela nei contratti collettivi. A questo fine, deve operare in modo complementare con la contrattazione collettiva, a maggior ragione per il fatto che quest’ultima definisce una serie di aspetti del rapporto di lavoro che non sono solo di natura remunerativa. La complementarità deve risiedere tanto nell’offrire copertura ai soggetti formalmente esclusi dalla tutela dei CCNL, quanto nel definire una regola per la quale questi ultimi non possano prevedere remunerazioni inferiori al minimo legale

In termini di policy, gli effetti del minimo legale potrebbero essere amplificati se accompagnati da interventi pubblici redistributivi, ad esempio con un sistema più generoso di detrazioni per i lavoratori con retribuzioni più basse ma ancora tassabili ai fini IRPEF, o tramite un’imposta negativa per chi si trova nella no-tax area. Tale misura potrebbe essere finanziata con il maggiore gettito fiscale derivante dalle imposte dirette dovute all’introduzione del salario minimo (la simulazione mostra che per un salario orario di 9 euro lorde, il gettito da imposte dirette crescerebbe di circa 5 miliardi di euro).

In conclusione, possiamo affermare che il salario minimo è uno strumento che può apportare un contributo contenuto nel contrasto alla povertà e alla diseguaglianza economica in Italia, e che a tal fine la priorità del legislatore debba essere accordata ad altri tipi di politiche. In primis aa altre politiche pre-distributive, nel tentativo di prevenire la formazione delle diseguaglianze nei mercati, e alle politiche del mercato del lavoro che incentivino la creazione di rapporti stabili. Importante è agire sull’aumento del numero di percettori di reddito all’interno del nucleo familiare, ad esempio con le politiche per la partecipazione delle donne alla forza lavoro. Infine, non meno rilevanti sono le misure redistributive a favore dei lavoratori con retribuzioni meno elevate e la predisposizione di un sistema efficace di ammortizzatori sociali.

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