Il salario minimo in Europa: differenze, potenzialità e problemi

Massimo Aprea e Corrado Pensabene commentano il recente rapporto del WSI Institute of Economic and Social Research sul salario minimo in Europa. Dopo aver presentato alcuni dati relativi ai diversi Paesi dell’Unione, Aprea e Pensabene si interrogano sull’efficacia del salario minimo nel contrastare disuguaglianze e povertà nel mercato del lavoro, richiamano l’attenzione sull’importanza delle sue interazioni con la contrattazione collettiva e concludono con una valutazione della prospettiva di introdurlo a livello comunitario.

Il mercato del lavoro è oggi, in Italia come in molti altri Paesi europei, un luogo all’interno del quale si producono non solo grandi disuguaglianze, ma anche vere e proprie sacche di povertà. Considerando i precetti della nostra Costituzione (in particolare l’art. 36 della Costituzione secondo cui “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”) e i formali impegni della Comunità Europea contenuti nel recente “Pilastro dei diritti sociali” (ESPR, 2017), tale situazione appare inaccettabile.

Uno degli strumenti che potrebbe aiutare ad alleviare questo problema è il salario minimo, tema che è stato presente, anche se non in modo centrale, nel recente dibattito elettorale italiano.

Il recentissimo “Minimum Wage Report” del WSI Institute of Economic and Social Research (2018) fornisce elementi che aiutano a definire la diffusione di questo istituto nei vari Paesi dell’Unione Europea e permette di avviare una riflessione sul contributo che esso potrebbe dare alla riduzione della povertà e delle disuguaglianze retributive oltre che sull’opportunità di valutare la sua introduzione a livello comunitario. Sono questi i temi che tratteremo brevemente in queste note.

I paesi dell’Unione Europea in cui il salario minimo legale è stato introdotto sono 22. Quelli che non lo prevedono sono Italia, Danimarca, Svezia, Finlandia, Cipro e Austria, dove prevale un assetto diverso caratterizzato da minimi salariali in singoli settori occupazionali e/o da una contrattazione più inclusiva.

La fig. 1 mostra i salari minimi nazionali espressi direttamente in Parità di Potere d’Acquisto (PPP), cioè in un modo che tiene conto del loro reale potere d’acquisto nei diversi paesi.

Innanzitutto, è ben evidente la separazione tra due blocchi di paesi: da un lato ci sono Benelux, Francia, Germania, Irlanda e Regno Unito, che erogano salari minimi relativamente alti, dall’altro tutti gli altri paesi con salari via via più bassi che raggiungono i valori minimi in Grecia, nei paesi Baltici e in Bulgaria (con il minimo assoluto di 3.28€).

Il report del WSI mostra anche l’importanza di effettuare i confronti tra i salari in PPP anziché tra quelli nominali: Slovenia, Polonia e Romania sono al di sotto di paesi occidentali più sviluppati come Spagna, Portogallo e Grecia nel confronto tra valori nominali, ma decisamente al di sopra di essi quando si tiene conto del PPP. Sembrerebbe, quindi, che alcuni nuovi membri dell’UE facciano, sotto questo aspetto, meglio di alcuni paesi fondatori. Al di là del valore assoluto del salario minimo è interessante, soprattutto nell’ottica di valutare il contributo che può dare alla riduzione delle disuguaglianze, osservare anche l’indice di Kaitz, cioè il rapporto tra il salario minimo e il salario mediano in ciascun paese. Ritorneremo su questo indice più avanti.

Dunque, dall’analisi dei dati emergono profonde differenze tra i vari Paesi dell’Unione in tema di salario minimo e ciò rimanda all’opportunità di introdurre un salario minimo uniforme a livello europeo. Prima di fare qualche riflessione a questo riguardo, è opportuno chiedersi se e come tale strumento possa contribuire a migliorare il grado di equità distributiva.

In generale, il salario minimo si configura come un “pavimento” per le retribuzioni orarie dei dipendenti di un paese, come quelli che abbiamo visto, ovvero di un particolare settore. I due elementi che ne determinano l’impatto sulla struttura delle retribuzioni (e eventualmente anche sull’occupazione) sono il suo livello e la sua interazione con il sistema di contrattazione collettiva.

Consideriamo prima la questione del livello. Si è già accennato che un gran numero di uomini e donne, pur lavorando, non riescono ad ottenere un compenso che assicuri loro un tenore di vita accettabile: è il fenomeno dei cosiddetti “working poors”. Dal momento che il reddito complessivo dipende dalle ore lavorate e dal salario orario, perché l’introduzione di un minimo salariale ad un livello adeguato possa contribuire alla soluzione di questo enorme problema sociale è essenziale che ad essa non corrisponda una diminuzione delle ore lavorate. Grimshaw, Bosch e Rubery ( in British Journal of Industrial Relations 2014) e altri sostengono che tale trade-off è minimo, ma la questione resta aperta ed è di grande importanza. Essa contribuisce a rendere non semplice l’individuazione del livello al quale fissare il salario minimo. Si può, però, affermare con relativa sicurezza che un reddito da lavoro inferiore alla metà del reddito mediano difficilmente sarà sufficiente ad assicurare al suo percettore un’esistenza degna e libera dal bisogno – cioè l’indice di Kaitz deve essere almeno uguale a 0.5. In Europa, tuttavia, tra i 19 paesi per cui sono disponibili i dati, solo 9 hanno un salario minimo superiore a tale soglia e la Francia è l’unico paese in cui quell’indice supera il 60%.

Per quanto riguarda l’interazione del salario minimo con il sistema di contrattazione, la questione è molto complessa. Qui ci limitiamo ad osservare, a titolo di esempio, come l’incisività del sistema di contrattazione collettiva influenzi fortemente il numero dei beneficiari delle periodiche rivalutazioni in aumento del salario minimo.. Il riferimento è il già citato lavoro di Grimshaw et al..

Nel Regno Unito, dove il sistema di contrattazione collettiva è debole e poco inclusivo, gli aumenti del salario minimo tendono a beneficiare solamente i lavoratori meno pagati. Ancora peggio, in alcuni settori le imprese rispondono all’aumento del livello minimo di retribuzione diminuendo i differenziali di paga per età, qualifica ecc. producendo uno schiacciamento della distribuzione verso il livello del salario minimo.

Al contrario, in Francia, dove le istituzioni del mercato del lavoro sono molto diverse, il salario minimo funge da “tasso base” per le successive contrattazioni collettive facendo sì che i suoi aumenti abbiano effetti benefici su retribuzioni anche sensibilmente superiori al minimo (in alcuni casi fino a oltre la retribuzione oraria media). Per effetto di ciò, il salario tende a diminuire la concentrazione salariale nella parte bassa della distribuzione e a ridurre la distanza delle retribuzioni medio-basse da quelle più elevate. Queste semplici considerazioni mostrano come gli effetti del salario minimo dipendano da un insieme di condizioni alla cui determinazione concorrono governo, sindacati e imprese. Per far sì che il salario minimo contribuisca a ridurre le disuguaglianze nelle retribuzioni è essenziale che questi attori dialoghino nella prospettiva di raggiungere un fine comune e ciò presuppone che la riduzione delle disuguaglianze sia un obiettivo politico di rango non inferiore ad altri obiettivi più “standard” della politica economica e sociale.

La discussione sul salario minimo ha raggiunto anche il più vasto contesto politico europeo. Infatti, i policy-makers nazionali e le principali istituzioni europee hanno cominciato ormai da diversi anni a discutere della opportunità di istituire un framework di salari minimi a livello comunitario.

La prima proposta di un salario minimo europeo fu formulata in Francia durante la campagna elettorale europea del 2004 da parte del partito socialista. Da quel momento il dibattito ha cominciato a prendere forma e si è sviluppato anche a livello comunitario. Nel 2006, l’attuale presidente della Commissione Europea Juncker dichiarò di considerare necessario un “European Minimum Wage” e ribadì questo convincimento durante la campagna elettorale Europea del 2014.

Un passo più concreto in questa direzione è stato effettuato nel 2017 con la dichiarazione e l’approvazione dello “European Pillar of Social Rights”, dove, nel sesto principio si legge che “sono garantite retribuzioni minime adeguate, che soddisfino i bisogni del lavoratore e […] la povertà lavorativa va prevenuta” (EPSR, 2017). Al di là di quelle che fino ad oggi possono sembrare niente più che dichiarazioni programmatiche, rileva interrogarsi su quali possano essere gli effettivi benefici economici derivanti dall’introduzione di un salario minimo europeo. Come illustra chiaramente la European Trade Union Confederation (For a common strategy on low and minimum wages, 2017), i vantaggi potrebbero essere molteplici. Il salario minimo, se disegnato in modo da rispettare le caratteristiche del sistema produttivo di riferimento, potrebbe dare sostegno ai consumi e alla complessiva domanda aggregata, con l’effetto di permettere di compensare il maggior costo del lavoro a carico delle imprese. Questo effetto dipenderebbe, in particolare, dal fatto che i beneficiari dei salari sarebbero soprattutto i “working poor” che hanno una propensione marginale al consumo particolarmente alta (ETUC, 2017). L’istituzione di salari minimi a livello comunitario rappresenterebbe, dunque, una grande occasione di crescita economica per tutti gli Stati membri e, inoltre, potrebbe favorire la convergenza nelle distribuzioni dei redditi e nel più generale funzionamento dei mercati del lavoro (Macron, the Sorbonne speech Initiative for Europe, 2017); quest’ultimi, infatti, sono molto variegati anche a causa delle differenze nei livelli di inflazione e produttività. Anche la coesione sociale a livello comunitario potrebbe risultarne significativamente rafforzata.

Resta da chiedersi se sviluppi di questo tipo siano a portata di mano. Nonostante l’innegabile necessità di ulteriori studi sulla sostenibilità di un programma condiviso europeo, le maggiori resistenze sembrano oggi provenire dal mondo politico. Müller e Schulten (The ESP – Towards an EU Minimum Wage Policy?, 2017) documentano efficacemente l’ambivalente posizione della CE nei confronti di accordi europei che vadano in questa direzione. In seguito alle raccomandazioni della CE ad attuare politiche di crescita del minimo salariale e agli effettivi sforzi di paesi come Francia, Portogallo, Bulgaria e Romania, la stessa Commissione ha presto mostrato preoccupazione invitando questi paesi a una maggior prudenza. Un ostacolo consiste, in realtà, anche nell’impossibilità degli organi europei di decidere in materia salariale, che è di esclusiva competenza nazionale. Ma se si considera che l’UE di fatto influenza le politiche fiscali nazionali, questo ostacolo non appare insuperabile.

Un problema molto rilevante sorgerebbe, probabilmente, in relazione alla struttura che dovrebbero avere i salari minimi. Oggi, come si è visto, l’eterogeneità dei contesti nazionali è ampia e ad essa si accompagna una rilevante discordanza di opinioni, in particolare su quale sarebbe il giusto bilanciamento tra i livelli di salario minimo e la produttività nazionale, o perfino settoriale (Müller, Schulten e Eldring in Prospects and obstacles of a European minimum wage policy, 2015).

In conclusione, il salario minimo si configura come uno strumento potenzialmente molto utile per contrastare le grandi iniquità che si creano sul mercato del lavoro. Esso potrebbe, da un lato, risolvere il problema dei “working poor” e, dall’altro, se sostenuto da un esteso schema di contrattazione collettiva, potrebbe avere ripercussioni positive anche sulle retribuzioni immediatamente superiori alla soglia della povertà. Ma ciò non equivale ad affermare che tali effetti si produrranno certamente ed automaticamente. Il disegno e i dettagli contano e affrontarli nel migliore dei modi presuppone una volontà politica che al momento, soprattutto a livello europeo, sembra ancora decisamente debole.

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