Il ritorno alla normalità che non vogliamo

Lisa Magnani partendo dalla considerazione che la promessa di un ritorno al ‘Business as usual’ (BAU) dopo la pandemia è uno dei temi centrali nel dibattito politico che si sta svolgendo in Australia in vista delle elezioni del prossimo maggio, sottolinea la forza retorica di questa promessa, le sue ambiguità, il diverso modo di intenderla e, soprattutto, la sua inadeguatezza, comunque sia inteso il BAU, a far fronte alle vere sfide che l’Australia, come molti altri paesi, deve affrontare.

In un’Australia che si prepara alle elezioni federali, previste per il prossimo maggio, lo scenario del ritorno al “business as usual” (BAU) ha rappresentato, e ancora rappresenta, un potente catalizzatore di energie politiche e di immaginari collettivi. Formulato in risposta ai costi economici e sociali del lungo lockdown durato da giugno a ottobre dell’anno scorso, il ritorno alla normalità pre-covid-19, o BAU appunto, ha assunto una connotazione a dire il meno ambigua, specie se posta nel più ampio contesto dei programmi che i due schieramenti politici sono chiamati a formulare in questa fase elettorale.

Per comprendere meglio questa affermazione è opportuno ricostruire brevemente il contesto nel quale sono state avanzate le promesse di ritorno al BAU, l’ambiguità che le caratterizza e il pericolo che l’invito a guardare verso il passato nasconda l’incapacità (o la mancanza di interesse a) disegnare strategie per il futuro all’altezza dei problemi del presente.

Dal gennaio 2020, oltre tre milioni di Australiani – quindi circa il 12% della popolazione – sono stati infettati dal virus. Sebbene le campagne di vaccinazioni siano partite relativamente in ritardo e con un ritmo inadeguato rispetto alla trasmissibilità del virus, quasi il 90 percento della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino. Purtroppo, però, oltre 5000 persone sono morte, per lo più anziane, per lo più in case di cura, e per lo più a causa della lentissima adozione di vaccini, controlli e testi, rapidi o meno.

Nell’Australia multiculturale, dove oltre il 50 percento della popolazione è nata all’estero o ha un genitore nato all’estero (ABS, 2016) la chiusura delle frontiere, imposta nel nome della sicurezza nazionale nel marzo 2020, ha comportato un costo piuttosto speciale e molto penoso: la forzata separazione tra i membri di molte famiglie che potranno finalmente riabbracciarsi solo dal mese di marzo, quando avrà luogo la riapertura completa delle frontiere. Inoltre, nel settembre del 2021, a più di 18 mesi dall’inizio della pandemia, erano più di 45000 gli Australiani costretti a rimanere all’estero e in lista d’attesa per il rimpatrio; tra loro vi erano centinaia di bambini orfani o non accompagnati, bloccati in paesi come l’India, devastati dal Covid-19.

Per tutti costoro la prospettiva del BAU rischia di apparire, comunque venga inteso, un’ipocrisia inaccettabile. Nulla potrà compensare i danni subiti e meno che mai il ritorno al passato.

Va anche considerato che, come i frequenti dibattiti tra politologi e filosofi sottolineano, eventi di questa natura cambiano il significato di nozioni fondamentali nel lessico politico Australiano, quali solidarietà, cittadinanza, diritti e, inoltre, incidono su alcuni capisaldi della cultura secolare e multiculturale del Paese, con conseguenze anche sul modo di intendere il BAU.

In un contesto di elezioni imminenti, la retorica del BAU manca di credibilità e pone al governo la sfida di riconoscere che la sicurezza nazionale deve rispettare i diritti, tanto quelli civili quanto quelli umani. In assenza di tale sforzo di credibilità e riflessione, le politiche di chiusura delle frontiere imposte dalla pandemia, favoriscono un’interpretazione del BAU in chiave nostalgica nella quale prevalgono sentimenti xenofobi, razzisti e isolazionisti che si associano in modi complessi alla White Australian Policy della storia Australiana recente. Le recenti preoccupazioni che il neonazismo domestico solleva, aggiungono note drammatiche alla crisi culturale che il paese sta attraversando.

Vi sono poi le questioni di carattere economico e ambientale. Alcuni settori, in particolare quello dell’istruzione (soprattutto università) e quelli del turismo e del divertimento, hanno subito danni molto rilevanti dalla pandemia, tali da rendere il ritorno al passato o estremamente difficile, come nel caso delle Università, o costosissimo, come nel caso del settore turistico. Basti ricordare che, per effetto della pandemia e della chiusura delle frontiere, le Università Australiane hanno perso complessivamente circa un terzo dei loro studenti stranieri e il 20 percento della forza lavoro universitaria, per lo più in seguito a licenziamenti. Anche il turismo ha subito ingenti perdite. Prima del 2020, l’Australia era la meta di oltre 9 milioni di turisti all’anno, la stragrande maggioranza dei quali proveniva dalla Cina. Tra marzo 2020 e marzo 2021, il flusso di turisti si è azzerato, e le perdite del settore sono salite a quasi 41 miliardi di dollari. In un contesto geo-politico profondamente cambiato, specialmente a fronte della bellicosità delle relazioni tra Cina e Australia, nei prossimi anni il BAU richiederebbe spese ingenti per ridare vita al settore turistico. Il richiamo al BAU senza programmi specifici, e impegnativi, al riguardo appare del tutto velleitario.

Ma vi è un altro punto di vista, molto importante, che fa apparire assai poco auspicabile il ritorno al BAU: è il punto di vista dei problemi ambientali e energetici. Qui si possono anzitutto ricordare le titubanze e le incoerenze che hanno contraddistinto la politica energetica australiana a partire dal 2013 quando il governo ultra-conservatore di Tony Abbott è succeduto a quello di breve durata dei Laburisti. Ma, soprattutto, il ritorno al BAU è sempre meno credibile nel contesto della risposta al cambiamento climatico emersa durante il recente COP26 di Glasgow.

Eppure si può interpretare la promessa del BAU proprio come un tentativo di alleviare le preoccupazioni di chi sarebbe danneggiato dagli adattamenti strutturali che il cambiamento climatico impone. Il riferimento è soprattutto all’’industria mineraria ed estrattiva, non ultima quella relativa al carbone. In Australia, finito il predominio dell’agricoltura, già dagli anni Sessanta, il settore in cui è occupata  la quota nettamente dominante di lavoratori è il terziario: oltre l’80 percento (Reserve Bank of Australia, Structural Change in the Australian Economy). La quota di occupati nel settore minerario è invece molto bassa (attualmente dall’1 al 2 percento), tuttavia in questo settore vengono da anni effettuati ingenti investimenti ed è rilevante la quota della sua produzione destinata alle esportazioni (dal 15 percento negli anni Sessanta, al 42 percento all’inizio del nuovo millennio). Il settore minerario è, dunque, uno dei capisaldi dell’economia Australiana e lo conferma il dato sui proventi che ha generato nel 2020 l’industria estrattiva del carbone, pur in calo rispetto all’anno precedente: oltre 73 miliardi di dollari, come mostra la figura seguente.

Figura 1: Proventi dal settore minerario del carbone in Australia dal 2012 al 2020, in miliardi di dollari australiani

 

In relazione alle elezioni politiche del prossimo maggio è utile riflettere su una caratteristica del sistema elettorale australiano che può contribuire a spiegare come il BAU possa essere utilizzato a fini politici a livello dei singoli stati e territori dell’Australia. Il sistema elettorale Australiano – basato su 151 collegi elettorali, tra loro equivalenti sul piano del numero di votanti – è tale per cui, la campagna elettorale si concentra su una minoranza di questi collegi, definiti “marginali” perché il divario di preferenze tra i due schieramenti politici principali è inferiore al 6 percento e, quindi, in un sistema maggioritario, possono determinare il risultato e anche il ribaltamento dell’esito delle precedenti elezioni. Molti dei collegi “marginali” sono nello stato del Queensland, che costituisce un esempio illuminante. In gran parte dei collegi elettorali “marginali” occupazione fa rima con attività minerarie e con lo sviluppo del terziario turistico per i nuovi ricchi dell’Asia; questo non può non alimentare la retorica del BAU, quella che in particolare rassicura sul mantenimento dell’industria estrattiva del carbone, piaccia o meno al mondo.

Ampliando la prospettiva si può dire che di fronte a due crisi parallele e almeno in parte interconnesse come sono quella da pandemia e quella causata dal cambiamento climatico, l’invito al “business as usual”, appare un modesto tentativo di rassicurare le affaticate società ed economia australiane ed è soprattutto una debole e velleitaria risposta ad una serie di sfide politiche, economiche e sociali che il governo di Morrison deve affrontare. Ciò che è immediatamente evidente è la faccia di Giano dell’immagine retorica del BAU, da un lato un invito a guardare con ottimismo ad un futuro senza pandemia, dall’altro una risposta conservatrice alla sfida del cambiamento climatico, che sempre peggio si accorda con le aspettative della eterogenea società civile Australiana.

In questa ottica, sarebbe bene non lasciarsi ingannare dal desiderio di un ritorno alla normalità: il tempo del BAU è finito! Entrambe le crisi, quella dettata dalla pandemia e quella derivante dal cambiamento climatico, sebbene così diverse nella loro dimensione temporale, ci impongono di trovare risposte di lungo periodo, risposte coraggiose e solide, che male si accordano con la retorica del BAU. Se ancora ci fossero dubbi sulla gravità del problema ambientale basterebbe leggere il rapporto del IPCC, l’International Panel for Climate Change delle Nazioni Unite (IPCC, 2021: Climate Change 2021, the Sixth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change) che dopo circa 4000 pagine di analisi e dati conclude che per fare fronte al surriscaldamento della terra occorrono interventi che, tra l’altro, azzerino le emissioni nette di CO2.

Si ha, comunque, l’impressione che anche nella conservatrice Australia la retorica del BAU stia cambiando e che la promessa di un ritorno al passato stia perdendo credibilità.

All’indomani del COP26 di Glasgow, l’approccio australiano alle relazioni internazionali si sta definendo in termini di sostegno ad un ordine globale retto da regole precise. In questo senso, l’imperativo dell’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni formulato a Glasgow sembra aver avuto qualche effetto sull’ottica australiana dell’interesse nazionale.

Ma naturalmente tutto questo non significa che vi sia una chiara strategia per il futuro e non significa che l’economia stia muovendo nella direzione necessaria. Una prima analisi dei dati sulle performance ambientaliste di 340 imprese australiane, incluso le 100 più grandi quotate in borsa, mostra che al momento solo il 27 percento è al passo con l’obiettivo di contenere la crescita delle emissioni di gas serra al di sotto del 2 percento entro il 2030.

Per migliorare questo stato di cose occorre una strategia politica che guardi con coerenza e rigore al futuro e appare difficile che una simile strategia possa essere elaborata senza il coinvolgimento di importanti segmenti della società civile e dell’economia. E pensando alle caratteristiche che questa strategia dovrebbe avere viene da dire: altro che BAU!

 

 

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